di Maurizio Milano, del 20 febbraio 2018
Siamo in campagna elettorale e i contendenti promettono, come prevedibile, un mix vario di “meno tasse” e “più spesa pubblica” alla ricerca di un facile consenso: come da proverbio, la “botte piena” e assieme la “moglie ubriaca”. Tuttavia, è una vera e propria “fallacia” economica: ovvero un cattivo ragionamento, per quanto la ricetta, a prima vista, possa anche apparire accattivante.
Perché non può funzionare? La spiegazione è molto semplice: la spesa pubblica e l’imposizione fiscale sono due facce della stessa medaglia e quindi, come recita il brocardo latino, «aut simul stant aut simul cadent». Chi promette di tagliare l’imposizione fiscale dovrà ridurre, per coerenza, anche la spesa pubblica; per contro, aumentare la spesa equivale automaticamente ad accrescere l’imposizione fiscale reale, anche se non venissero esplicitamente alzate tasse e le imposte ufficiali. Come mai? Perché “non esistono pasti gratis”, per usare la nota espressione del celebre economista statunitense Milton Friedman (1912-2006): il livello della spesa pubblica, insegnava Antonio Martino , è infatti il migliore indicatore della pressione fiscale effettiva, anche quando quella ufficiale ed esplicita risultasse inferiore. Questo perché la spesa pubblica si scarica sempre, prima o poi, sul contribuente: subito, a mezzo di tasse e imposte; in modo differito, perché il disavanzo di bilancio aumenta il debito, sul quale lo Stato (cioè il contribuente, attuale o futuro) deve corrispondere un interesse.
Inoltre, le “crescite a debito” fomentano l’inflazione, che costituisce una sorta di “tassa occulta”, sia per l’effetto di fiscal drag legato alla progressività delle aliquote fiscali sia per l’abbattimento del valore reale di redditi e risparmi.
Il debito accumulato rappresenta poi un grande fattore d’instabilità quando la sua traiettoria risulti incompatibile con la crescita dell’economia, come capita quando il costo del debito pubblico è superiore alla crescita del Prodotto Interno Lordo (Pil) nominale. E siccome il Pil dell’Italia cresce a ridosso dell’1,5% mentre gl’interessi passivi sul debito pesano per quasi il 4%, non ci sono speranze di abbattere automaticamente il rapporto debito/Pil per il solo effetto della crescita economica.
In Italia il debito pubblico si aggira sui 2.275 miliardi di euro, il 132% del Pil (media area euro 91,5%): è, cioè, ai massimi storici. La stabilizzazione negli ultimi tre anni dipende dal forte risparmio d’interessi passivi (nel 2017 il servizio del debito ammontava a 66 miliardi, 17 miliardi in meno rispetto al picco del 2012 a 83 miliardi), reso possibile dai massicci acquisti dei nostri titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea a partire dal 2014. In tal modo, i rendimenti dei titoli pubblici italiani sono stati artificialmente compressi, con comprensibile sollievo del Tesoro, ma con speculare grande sconforto dei risparmiatori italiani che non sanno più dove investire per difendere il valore reale dei propri risparmi.
In questi anni, però, la spesa pubblica non è stata mai tagliata, ed è anzi cresciuta, altro che “austerità”! È positivo il fatto che l’Italia presenti un “avanzo primario”, cioè una differenza entrate-uscite positiva ‒ al netto degl’interessi passivi sul debito ‒ di circa l’1,5%; ma se si vuole iniziare a ridurre il debito pubblico, occorre far salire tale valore verso il 4%, non però innalzando la pressione fiscale, che va anzi ridotta, bensì iniziando a tagliare la spesa pubblica di almeno una ventina di miliardi di euro annui.
Per approfondire, sono utili le analisi svolte dall’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, buon profeta, purtroppo finora inascoltato, dell’imprescindibile necessità di tagliare la spesa e il debito per non rimanere in balìa degli umori dei mercati finanziari e dei ricatti internazionali, ricuperando così sovranità e peso politico in Europa aumentando le prospettive di crescita economica e sociale del Paese.
Nel 2017, la spesa pubblica italiana ammontava alla cifra record di circa 839 miliardi di euro, pari al 49% del Pil: se l’equazione “spesa pubblica=tasse” è vera, significa che in Italia quasi la metà del reddito del Paese viene assorbito, e poi ridistribuito, dallo Stato, ancorché la pressione fiscale ufficiale risulti “solo” del 42,9%. Un vero “esproprio”: se non scoppia una rivolta fiscale, è solo perché gli unici consapevoli del salasso, probabilmente, sono le “partite Iva”. Il contribuente ignaro è infatti sottoposto a un “lavoro forzato” per 6 mesi all’anno e deve attendere fine giugno per festeggiare il “giorno dell’indipendenza personale” dal Fisco: a metà anno si può finalmente iniziare a lavorare per sé e le nostre famiglie.
Come documentato dal ministero dell’Economia e delle Finanze, i settori principali della spesa delle amministrazioni pubbliche sono i seguenti (stime 2017, in euro): pubblico impiego per 167 miliardi (19,9% della spesa pubblica totale); pensioni per 265 miliardi e altre prestazioni sociali in denaro per 80 miliardi, per un totale di circa 345 miliardi (41,1% del totale); sanità per 114 miliardi (13,6% del totale). La criticità riguarda sia la dimensione assoluta della spesa sia la sua composizione: con l’invecchiamento demografico e la denatalità cronica che affliggono il nostro Paese (ma anche Giappone, Cina, Russia, Germania, Grecia e mezza Europa), i prossimi lustri vedranno probabilmente una lievitazione fisiologica dei costi previdenziali-assistenziali e sanitari, in valore sia assoluto sia percentuale sulla spesa pubblica complessiva e sul Pil, costi “fissi” che si scaricheranno su una base produttiva in contrazione , riducendo la competitività del nostro Paese, già frenata da una produttività deludente. E tutto ciò in un contesto di debito pubblico enorme, crescita economica asfittica, e famiglie e società sempre più “coriandolarizzate” e “rancorose”.
Il rischio di un collasso delle finanze pubbliche e del Welfare State rimane latente per tutti quei Paesi che, come l’Italia, sono afflitti dal macigno del debito, dallo statalismo pervasivo e dal tracollo demografico.
Che fare? Se il benessere non lo crea lo Stato con la spesa o con la Banca Centrale che stampa banconote, come fa un Paese a crescere “realmente”? Proveremo a rispondere.