Il 15 agosto 2021 ricorre il cinquantesimo anniversario della fine del sistema monetario denominato “Gold Exchange Standard”. Con la cessazione della convertibilità del dollaro statunitense in oro si è sviluppata una progressiva “inflazione” monetaria, in forte accelerazione nell’ultimo quarto di secolo e divenuta esplosiva post-CoViD. Un processo di “finanziarizzazione” dell’economia la cui frontiera ultima sembra costituita dal miraggio distopico della cosiddetta “cashless society”.
di Maurizio Milano
Cinquant’anni orsono, il 15 agosto 1971, tramontava definitivamente quel poco che rimaneva del sistema monetario aureo.Il presidente statunitense Richard M. Nixon (1969-1974), stremato dalle spese per la guerra in Vietnam (1955-1975) e dall’onerosità del programma di welfare soprannominato «Great Society» varato nel 1964 dal suo predecessore Lyndon B. Johnson (1963-1969), a fronte dell’insufficienza delle riserve auree rispetto alla spesa pubblica fuori controllo annunciò a Camp David l’immediata sospensione della convertibilità del dollaro in oro, seguita nel dicembre dello stesso anno dallo «Smithsonian Agreement», che pose fine agli accordi di cambio fisso tra le principali divise mondiali e il dollaro stesso, come era stato sancito dagli «Accordi di Bretton Woods» del 1944.
Il mondo si rese conto, di colpo, che “il Re era nudo”: l’enorme massa di dollari messi in circolazione dagli Stati Uniti non era coperta dall’oro detenuto. Quando il bluff divenne evidente, Nixon fu così costretto a chiudere improvvisamente la “Finestra dell’Oro”, per evitare un’emorragia incontrollabile delle riserve auree del Paese. Il presidente statunitense giustificò la sua decisione come una scelta «temporanea» per «difendere il dollaro» dagli attacchi di imprecisati «speculatori finanziari internazionali» che avrebbero beneficiato di «crisi da loro stessi indotte», ai danni «dei lavoratori, degli investitori e dei reali produttori di ricchezza». Nixon istituì anche una «tassa temporanea sulle importazioni pari al 10%», rassicurando i cittadini americani che non avrebbero risentito della svalutazione del dollaro, ma che anzi tale decisione avrebbe contribuito a «stabilizzarne il valore», controllando le dinamiche inflazionistiche e favorendo i «lavoratori statunitensi e la bilancia commerciale del Paese». Al di là della retorica presidenziale, si è trattato in realtà di una dichiarazione di sostanziale “bancarotta”, che danneggiò la credibilità del Paese negli anni a venire.
Il sistema monetario definito nella Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite, tenutasi a Bretton Woods nel New Hampshire nel luglio del 1944 ed entrato in vigore il 27 dicembre 1945, era un sistema aureo di tipo indiretto, da cui la definizione di gold “exchange” standard. Le monete d’oro non circolavano più e anche se sulle banconote comparivano ancora scritte del tipo “pagabile a vista al portatore” la possibilità di convertirle in metallo prezioso era preclusa ai cittadini e riservata esclusivamente alle principali Banche centrali nazionali, che potevano chiedere alla Federal Reserve statunitense (Fed) di convertire in oro le proprie divise, legate al dollaro Usa da un rapporto di cambio fisso. Non si trattava quindi di un vero sistema aureo: il celebre economista statunitense Henry Hazlitt (1894-1993), esponente della Scuola austriaca di economia, predisse già nel 1945 che un sistema così strutturato non sarebbe potuto durare. Infatti, la Fed ne approfittò per “inflazionare” il sistema aumentando la produzione di dollari – divenuto la divisa di riserva del mondo – ben al di là delle riserve auree detenute.
Nonostante i suoi limiti intrinseci, il gold exchange standard costituì comunque un qualche freno alla creazione di denaro dal nulla, come risulta evidente dall’accelerazione crescente dell’espansione monetaria in tutto il mondo negli anni successivi al 1971, con l’inizio di un decennio di stagnazione economica e inflazione galoppante, la ben nota stagflazione degli anni ’70, aggravata da due shock petroliferi: nel 1973, conseguente alla Guerra dello Yom Kippur, e nel 1979, dopo la rivoluzione iraniana.
Nell’ultimo quarto di secolo, in particolare, si è innescato un processo di progressiva finanziarizzazione dell’economia, cioè uno scollamento crescente tra le dinamiche finanziarie e quelle economiche, con crisi ricorrenti. Le varie Banche centrali mondiali hanno iniziato ad aumentare ad libitum la propria base monetaria, in modo esponenziale negli ultimi anni con l’espansione dei propri bilanci attuando il cosiddetto quantitative easing (alleggerimento quantitativo). Con gli acquisti sempre più massicci di asset sui mercati finanziari (principalmente obbligazioni governative e private), con denaro creato digitalmente, le Banche centrali hanno progressivamente schiacciato i rendimenti obbligazionari nominali verso, e sotto, lo zero, con politiche di “repressione finanziaria”. Per avere un’idea dell’accelerazione dell’espansione monetaria in atto, basti pensare che la liquidità globale “M2” (la cosiddetta liquidità secondaria, comprendente oltre alla moneta e ai depositi in conto corrente anche tutte quelle altre attività con elevata liquidità e valore certo), pari a circa 20-25 mila miliardi di dollari Usa a inizio secolo, è salita a circa 40mila miliardi durante la Grande Crisi Finanziaria del 2007-2009, per poi balzare a circa 80mila miliardi pre-CoViD ed esplodere a ridosso dei 100mila miliardi di $Usa ad oggi, dopo 17 mesi di iniezioni di liquidità senza precedenti. L’iper-liquidità ha favorito una dilatazione enorme del debito globale, sia pubblico sia privato, salito a fine 2020 – secondo stime del Fondo Monetario Internazionale– alla cifra monstre di 277mila miliardi di dollari Usa, circa il 365% del Prodotto Interno Lordo mondiale. Considerando solo il debito pubblico globale il rapporto rispetto al PIL mondiale è salito al 101,5%, mentre in Italia stiamo andando verso il 160%. Si è creata, in altri termini, una spirale perversa liquidità-debito-liquidità-debito…, una vera e propria “trappola” da cui le Banche centrali stanno cercando di uscire attuando una strategia “inflazionistica”: con rendimenti nominali nulli e inflazione in risalita, i “rendimenti reali” diventano negativi e vanno a sgonfiare i debiti in termini “reali”, in una sorta di “usura” al contrario ai danni dei risparmiatori/creditori e a beneficio dei debitori. Un altro effetto dell’espansione monetaria è che la quotazione dell’oro, fissata a Bretton Woods a 35$/oncia e in vigore fino al 15 agosto 1971, ha raggiunto nell’agosto del 2020 un massimo storico a quota 2.089 $Usa/oncia, ben 59 volte tanto la quotazione precedente.
I sistemi monetari contemporanei sono divenuti del tutto nominalisti e a forte leva finanziaria: il denaro, nato storicamente come istituzione sociale, si è trasformato nel tempo in un’istituzione politica, considerato legal tender (a corso legale) per imposizione pubblica, col dovere quindi dei creditori di accettarlo nei pagamenti e dei contribuenti di usarlo per pagare le tasse. Denaro fiat, fiduciario, un semplice segno, per esempio un pezzo di carta su cui è scritta una certa cifra, emesso in regime di monopolio legale da una Banca centrale che lo crea ex-nihilo e immesso nei circuiti come “moneta bancaria” dalle Banche commerciali. Anche quest’ultime, infatti, “creano” denaro dal nulla, nel momento stesso in cui erogano un prestito: grazie al meccanismo del “moltiplicatore dei depositi”, infatti, le Banche commerciali non si limitano a prestare il denaro ricevuto in deposito dai propri clienti – come si potrebbe immaginare – ma possono espandere i propri impieghi, a livello di sistema nell’area euro virtualmente fino a 100 volte tanto i depositi, stante la “riserva frazionaria” attualmente fissata all’1%.
Negli ultimi lustri, la finanza ha progressivamente cessato di essere un’ancella dell’economia e ha preso il sopravvento, portando a sempre più marcate e frequenti accentuazioni dei cicli economici e borsistici, quel fenomeno definito dalla Scuola austriaca di economia con l’espressione “boom-and-bust”, cioè forti crescite artificiali spinte dal debito e dalla liquidità, seguite da ancora più repentini tracolli. I marcati rialzi dei mercati azionari, dei corsi obbligazionari, dei preziosi e, negli ultimi mesi, delle principali commodities, dal greggio alle materie prime agricole – indotti dalla suddetta espansione monetaria – iniziano ora a trasferirsi ai prezzi alla produzione e al consumo. E l’inflazione, si sa, è una sorta di tassa occulta sul risparmio e sui titolari di redditi fissi – prevalentemente salari, stipendi e pensioni: negli anni a venire, la classe media rischia quindi di dovere pagare il conto, in termini di progressiva erosione del potere d’acquisto, di politiche monetarie assai poco ortodosse, andate a beneficio di una ristrettissima minoranza.
L’interventismo crescente delle Banche centrali – “bracci armati” dei rispettivi governi nonostante una formale indipendenza dagli stessi –, negli ultimi lustri divenute il vero dominus dei mercati finanziari e della stessa economia reale, prospetta derive inquietanti di accentramento della ricchezza presso gli istituti monetari stessi, e di controllo dei sistemi economici che non è eccessivo qualificare con l’espressione socialismo finanziario. Non si dà un’economia davvero libera se il sistema monetario prevede la possibilità di espandere pressoché illimitatamente la quantità di denaro, da parte sia delle Banche centrali sia delle Banche commerciali a riserva frazionaria, consentendo di fatto una sorta di “usura” istituzionale. Chi controlla i flussi finanziari va a determinare le scelte di risparmio e di investimento, quindi tutta la struttura produttiva, distributiva e di consumo: denaro fiat e statalismo vanno a braccetto, ai danni soprattutto dei piccoli e medi risparmiatori e imprenditori.
L’ultima frontiera dei sistemi monetari contemporanei sarà la smaterializzazione completa del denaro, con la progressiva sostituzione del contante con sistemi di pagamento elettronici e l’introduzione negli anni a venire delle cosiddette CBDC, le Central Bank Digital Currencies, cioè le “Divise Digitali delle Banche Centrali” (la Cina è all’avanguardia ma anche la Banca Centrale Europea ha avviato ufficialmente un progetto pilota, mentre la Fed sta effettuando un progetto di studio). La prospettiva finale è quella della vagheggiata cashless society, dove tutti i pagamenti saranno tracciati e scrutabili non solo dal fisco ma anche a rischio di divenire oggetto di “analisi comportamentali” mettendo a serio rischio non solo la privacy ma la stessa libertà. Con la fine del contante, nulla impedirebbe poi alle Banche centrali di applicare dei tassi di interesse negativi, anche per il mondo retail, sulle proprie divise digitali.
Proviamo a immaginare un futuro distopico, dove l’uso del contante sia totalmente scomparso e i pagamenti siano diventati esclusivamente “elettronici”, magari ricevuti ed effettuati a mezzo di una “app” sullo smartphone o ancora più comodamente con uno smartwatch: che cosa impedirebbe al potere politico di restringere a piacimento non solo il ventaglio delle libertà fruibili dalla persona ma anche la stessa possibilità di ricevere e usare il denaro, e quindi di sostentarsi? Il pensiero va al “Sistema di Credito Sociale”, un sistema digitale di monitoraggio, registrazione e valutazione in via di implementazione da parte del governo cinese che classifica e valuta individui, funzionari pubblici, aziende, organizzazioni e associazioni, utilizzato a fini di sorveglianza di massa sfruttando la potenza delle nuove tecnologie e i big data: se al di sotto di un livello di scoring minimo, determinato secondo metriche insindacabilmente stabilite dal potere politico, venissero bloccati anche i mezzi di pagamento del “cittadino” giudicato “non meritevole,” quali spazi di libertà reale rimarrebbero?
Venerdì, 13 agosto 2021