Sarebbe un grave errore leggere l’elezione a capo dello Stato di Sergio Mattarella come il ritorno alla Prima Repubblica o come il trionfo postumo della sinistra democristiana in virtù dell’appartenenza del neo Presidente all’area del cattolicesimo democratico. Quest’ultima area culturale ha giá portato a termine il suo compito che, come scriveva Antonio Gramsci, consisteva nel “suicidare” il movimento cattolico.
Oggi non esiste più una presenza pubblica e politica del mondo cattolico anche perché i cattolici sono una minoranza nel Paese. Una minoranza importante, perché nessun’altra realtà organizzata può comunicare ogni domenica con il 15% della popolazione, circa nove milioni di persone. Tuttavia una minoranza, oltretutto divisa, senza una comune cultura di riferimento. Una minoranza, inoltre, all’Interno della quale il cattolicesimo democratico non riscuote più il consenso che ha avuto negli anni Settanta, per capirci quando riuscì a condizionare il referendum contro la legge divorzista grazie al consistente numero di cattolici con ruoli pubblici importanti che si batterono per il mantenimento della legge.
Oggi il mondo è profondamente cambiato, è finita l’epoca delle ideologie ed è cominciata una stagione “segnata” dalla dittatura del relativismo. In questa stagione di profondi cambiamenti, il giovane presidente del consiglio aveva bisogno di un’altra figura importante che lo “accompagnasse” nella sua ascesa al potere e la figura scelta, anche per ovvie ragioni anagrafiche, ha un passato, come lo aveva il suo predecessore, necessariamente legato alle culture politiche della Prima Repubblica. Ma non credo che queste culture, la comunista e la cattolico-democratica, potranno ritornare in gioco in quanto tali.
Rimane però la domanda. Come possiamo valutare quanto sta accadendo?
Intanto serve una premessa: siamo di fronte alla massima autorità politica dello Stato alla quale deve andare tutto il rispetto dovuto alle istituzioni.
In secondo luogo va preso atto che i cattolici sono una minoranza, seppure importante, e devono imparare a combattere le battaglie a cui sono chiamati come appunto deve fare una minoranza. Il che significa assumere un atteggiamento apostolico, missionario e rivolgersi per davvero alle periferie esistenziali, come dice ripetutamente papa Francesco. Significa andare a cercare i “lontani”, parlare loro di Cristo e coinvolgere nelle grandi battaglie di civiltà tutti coloro che le condividono, qualsiasi sia la loro religione e la loro cultura. Le grandi sfide su vita e famiglia, oltre che sulla libertà di educazione, sono un banco di prova.
Ma, soprattutto, si deve prendere atto della realtà che ci costringe, mentre difendiamo con tutte le forze possibili quello che ancora può essere difeso, a pensare a un futuro in cui ci sarà pochissimo da difendere e quasi tutto da riconquistare, così come avvenne in altre epoche della storia della Chiesa, caratterizzate dalla volontà missionaria dei credenti. Prima che cominciasse l’epoca postmoderna, ancora nel pieno del secolo delle ideologie, papa Pio XII profetizzò sul fatto che forse stava per cominciare un mondo in cui la Chiesa avrebbe dovuto prendere atto, in Occidente, che stava mutando il comune sentire della gente: in questo caso, disse il pontefice, bisogna imparare a ricominciare tutto daccapo, dai preamboli della fede ai Novissimi, e mentre si deve prendere atto delle sconfitte culturali bisogna salvaguardare la dottrina, continuare a insegnarla nella sua interezza, anche se al momento non è possibile fare in modo che informi la vita pubblica attraverso delle buone leggi.
Oggi, dunque, due cose sono prioritarie: rianimare da un punto di vista culturale la minoranza dei cattolici, confidando che alcune battaglie devono essere combattute con coraggio e forse possono anche essere vinte, ma contemporaneamenteandare alla ricerca degli altri, avviando un dialogo ovunque sia possibile, che può partire dai principi fondamentali o da qualsiasi altro punto di partenza, ma che deve comunque cominciare.
Marco Invernizzi