Michele Rinaldi, Cristianità n. 398 (2019)
«Religioni e violenza»
Sul numero 4053 de La Civiltà Cattolica è comparso un articolo dal titolo Religioni e violenza di Marc Rastoin S.J., esperto di dialogo fra cristianesimo e giudaismo e dal 2007 insegnante presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma (1). Il testo parte dalla rinnovata riflessione sul tema, avviata almeno da circa un ventennio in seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, negli Stati Uniti d’America. L’autore procede a un’analisi multidisciplinare di molti conflitti considerati generalmente «guerre di religione», risalendo nel tempo fino a citare, senza peraltro soffermarvisi, le crociate e l’espansione dell’islam, ed evidenziando che generalmente emerge quanto segue:
— pur non facendo propria una visione marxista della storia l’autore osserva che le guerre sono spesso motivate da interessi materiali (territori, materie prime, acqua);
— quindi, un’altra causa di conflitti risiederebbe in attriti di natura etnica o «coloniale»;
— infine, la connotazione religiosa viene utilizzata per presentare in modo più comprensibile o più motivante lo scontro o per avere un discrimine di facile rilevamento, pur non essendo la causa del conflitto.
Come esemplificazione emblematica l’autore sceglie il conflitto israelo-palestinese, tematica peraltro vicina alle sue competenze accademiche, definendolo come un conflitto territoriale fra due comunità nazionali, di cui quella palestinese si sarebbe venuta definendo in contrapposizione a quella israeliana: «Il progetto sionista è stato promosso come un progetto nazionale ed è stato realizzato da uomini che non hanno messo la religione al centro delle loro idee. Negli anni Sessanta e Ottanta, i terroristi palestinesi venivano spesso rappresentati come combattenti nazionalisti, ed essi stessi appartenevano a organizzazioni marxiste. Erano nati cristiani o musulmani, ma la religione non era la loro motivazione primaria.
«Per quanto riguarda i sionisti, la maggior parte di essi erano atei o indifferenti alla religione, sia che fossero di sinistra (il movimento laburista) sia di destra (il movimento revisionista). È solo negli ultimi 15 anni che si è andato sottolineando sempre più il fattore religioso. Di fronte al fallimento politico e militare delle organizzazioni nazionaliste palestinesi, si sono sviluppati i movimenti di ideologia islamica. Ma ciò che è al centro del conflitto è innanzitutto una terra rivendicata da due popolazioni. Che la religione sia un potente fattore di mobilitazione identitaria e di attaccamento a quella terra (dove ci sono luoghi santi, in particolare a Gerusalemme) è fin troppo evidente. Tuttavia, anche se, con un colpo di bacchetta magica, domani tutti i protagonisti del conflitto fossero trasformati in atei convinti, le basi concrete dello scontro continuerebbero a esistere.
«D’altra parte, va osservato che alcuni partiti politici religiosi israeliani sono piuttosto favorevoli alla pace, mentre i falchi di destra non sono affatto necessariamente religiosi. Pertanto, quanto più il conflitto viene descritto dai media come un conflitto tra ebrei e musulmani, tanto più esso tenderà a diventarlo realmente, nella logica delle profezie che si autoavverano. È anche chiaro che lo status religioso di Gerusalemme per tre religioni che rappresentano il 55% della popolazione mondiale contribuisce notevolmente a dare un’eco planetaria a questo particolare conflitto. Ma esso è principalmente un conflitto tra due comunità politiche umane per una determinata terra» (2).
Sviluppando il proprio ragionamento, padre Rastoin osserva che «se si esamina più da vicino il secolo scorso, si constata che sono state le ideologie — insiemi di idee che formano un sistema chiuso — a provocare il numero più alto di vittime della violenza dei tempi moderni. Si tratta di due ideologie atee — il nazismo e il comunismo — che volevano sopprimere ogni religione. Entrambe pretendevano di essere sistemi perfettamente razionali, basati, l’uno, su un’analisi scientifica dell’economia e, l’altro, su una visione evoluzionista darwinista. Per certi versi, queste ideologie possono essere apparse come caricature delle religioni, con i loro dogmi, le loro gerarchie e le loro scomuniche, ma hanno lottato con fanatismo contro le religioni. I massacri e gli abomini commessi hanno superato tutto ciò che la storia dell’umanità aveva fino ad allora conosciuto. E questo non avveniva affatto nel nome di un Dio o di una religione» (3).
Per l’autore, la religione verrebbe spesso strumentalizzata per legittimare i conflitti e motivare maggiormente comunità per le quali essa già costituisce un riferimento importante. A conferma della propria tesi cita un brano della recente dichiarazione firmata ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019, da Papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb (4) — di portata storica, anche solo in riferimento alla libertà religiosa (5) e alla chiara condanna del terrorismo da parte di un autorevole esponente dell’islam, sostanzialmente senza precedenti — in cui si dice: «Dichiariamo — fermamente — che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue» (6). E si aggiunge: «Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico della religione e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato — in alcune fasi della storia — dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portarli a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici ed economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco» (7). Da ultimo l’autore osserva che «gli attentati, rivendicati dai fondamentalisti islamici, che si sono verificati nelle grandi città europee negli ultimi vent’anni — e, non dimentichiamolo, in molte città dei Paesi musulmani — hanno suscitato un’immensa copertura mediatica. Quando si analizza il percorso degli attentatori e la loro formazione religiosa e spirituale, si constata che quasi nessuno di essi può essere considerato realmente educato nei princìpi della sua religione e rispettato dai suoi pari. Si tratta molto spesso di delinquenti con uno stile di vita molto secolare o di persone convertite da poco, che hanno sete di riconoscimento. Tra loro non troviamo grandi specialisti della religione — imam, sacerdoti o accademici —, ma al contrario autodidatti o addirittura analfabeti a livello religioso. Alcuni commentatori hanno potuto affermare che, tutto sommato, tali attentatori mostrano sintomaticamente le carenze di una società materialista che non sa più offrire motivazioni per vivere e per morire. In un certo senso, essi mostrano il bisogno di una «vera» religione più che dei suoi “eccessi”» (8).
L’autore sviluppa poi una pars construens cui dedica un apposito paragrafo sul contributo delle religioni alla pacificazione dell’umanità. «Non basta affermare che la religione non alimenta necessariamente conflitti umani. È infatti possibile constatare che essa contribuisce profondamente alla pacificazione dell’umanità e a una vita più felice per centinaia di milioni di persone. Essa si oppone fondamentalmente alle “tendenze individualiste, egoiste, conflittuali” (Documento di Abu Dhabi) degli esseri umani. Infatti, per buona parte dei credenti, la fede religiosa e la comunità di appartenenza costituiscono risorse positive nelle prove e nelle difficoltà. Esse li incoraggiano a essere migliori, a compiere atti concreti di carità verso il prossimo, a trovare la forza di perdonare, a mostrare pazienza, gentilezza, condivisione, pace, apertura agli altri» (9).
Parlando dell’islam attuale l’autore osserva inoltre: «Sempre sul versante musulmano, e per prendere ad esempio un personaggio ancora vivente, possiamo evocare la figura dell’ayatollah Ali al-Sistani. Sebbene di origine iraniana, egli è la più alta autorità religiosa sciita in Iraq e ha instancabilmente chiesto il rifiuto della violenza nel conflitto tra sciiti e sunniti e, in particolare, il rifiuto della vendetta mentre gli attentati si moltiplicavano, settimana dopo settimana, nei quartieri sciiti. Ha anche chiesto il rispetto per la minoranza cristiana. È un peccato che egli sia meno conosciuto degli pseudo-teologi di ben minore forza umana e spirituale» (10).
La considerazione espressa nella frase conclusiva della citazione fa emergere un aspetto non secondario della differenza fra cattolicesimo e islam, mostrato in modo lampante e incontrovertibile dal Documento di Abu Dhabi, ossia l’impossibilità che qualcuno parli in modo definitorio e impegnativo per il mondo islamico, come può farlo invece per i cattolici il Pontefice. Questo fatto lo vediamo attestato non dal contenuto, che potrebbe essere oggetto di errata interpretazione, ma dalla firma, ove a sinistra leggiamo «la Chiesa Cattolica» e a destra semplicemente il nome e i titoli dell’emiro (11). L’autore infine conclude: «Sembra che ci si dimentichi rapidamente del nazismo e del comunismo e della responsabilità che hanno avuto le élites intellettuali europee nella nascita e nello sviluppo di queste due ideologie letali e atee. Se è legittimo denunciare con forza le strumentalizzazioni della religione e i cattivi servizi resi da alcuni dei suoi presunti difensori, sarebbe sciocco credere che, liberandosi, per assurdo, di ogni religione, si possa entrare ipso facto in un regno di pace. Dio ci invita a operare ora con i valori del Regno: stima, umiltà, conoscenza reciproca, solidarietà, aiuto reciproco. Come conclude il documento di Abu Dhabi: “Dio ci ha creati per conoscerci, per cooperare tra di noi e per vivere come fratelli che si amano”» (12).
Il contenuto di questo testo, di cui non bisogna necessariamente sposare ogni singola presa di posizione, può essere il punto di partenza per una riflessione più articolata sulla storia dell’Occidente. Come cristiani abbiamo accettato e usato forse troppo facilmente il termine «guerra di religione». Che molti cristiani abbiano partecipato a eventi bellici anche in nome della loro fede è un dato che non viene contraddetto dalla possibilità che la guerra fosse combattuta contro qualcuno principalmente perché aggressore, e poi «perché di altra religione». Non vi è dubbio che nella prospettiva cristiana, da sempre — appena vi fu l’occasione di passare da perseguitati a persecutori Carlo Magno (742-814) fu rimproverato da Alcuino di York (732-804) per il suo modo coercitivo di operare la conversione dei sassoni —, la missio ad gentes non può essere svolta in modo militare. Si arrivò a predicare le crociate perché era divenuto impossibile compiere il pellegrinaggio ai Luoghi Santi, come si difese Vienna nel 1683 perché era assediata. Si potrebbe forse ricercare nella difesa di «specifiche libertà per tutti» la causa più precisa di imprese militari, vissute poi da tanti come occasione di servire il bene sotto lo stendardo della Croce e ciò a prescindere da qualsiasi ingiustizia commessa usandone arbitrariamente il nome. Quanto alle altre religioni un’analisi di questo tipo è parimenti fondamentale, anche per favorire in ogni modo un’ermeneutica che ne ancori il più possibile i contenuti e la prassi che ne consegue, al diritto naturale, ossia alla legge morale iscritta nel cuore di ogni uomo e riassunta nel decalogo, e ne impedisca una strumentalizzazione a fini pericolosi per la pace, intesa agostinianamente come tranquillitas ordinis (13). In una prospettiva cattolica il fatto che alcuni contenuti di altre religioni siano incompatibili con il diritto naturale non può e non deve essere preclusivo di uno sforzo interpretativo finalizzato a promuoverne invece una lettura ed una conseguente prassi conformi ad esso.
Questo sembra l’impegno che traspare da tanti passi compiuti dal regnante Pontefice, per limitarsi a considerare l’attuale pontificato, nei confronti di rappresentanti di altre religioni, in primo luogo nel citato documento di Abu Dhabi, dove ad esempio si parla di libertà religiosa, concetto fondatamente ritenuto non appartenere alla prospettiva islamica. Il santo Padre aveva già espresso la stessa prospettiva in modo ancora più esplicito nell’udienza interreligiosa del 3 novembre 2016 dove, fra l’altro, ha detto: «[…] uno stile di vita realmente misericordioso, fatto di amore disinteressato, servizio fraterno, condivisione sincera. È lo stile che la Chiesa desidera maggiormente assumere, anche “nel suo compito di favorire l’unità e la carità tra gli uomini” (Conc. Vat. II, Dich. Nostra aetate, 1). È lo stile a cui sono chiamate pure le religioni per essere, particolarmente in questo nostro tempo, messaggere di pace e artefici di comunione; per proclamare, diversamente da chi alimenta scontri, divisioni e chiusure, che oggi è tempo di fraternità. Perciò è importante ricercare l’incontro tra di noi, un incontro che, senza sincretismi concilianti, “ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione” (Misericordiae Vultus, 23). Ciò è gradito a Dio ed è un compito urgente, in risposta non solo alle necessità di oggi, ma soprattutto all’appello all’amore, anima di ogni autentica espressione religiosa.
«[…] Non accada più che le religioni, a causa del comportamento di alcuni loro seguaci, trasmettano un messaggio stonato, dissonante da quello della misericordia. Purtroppo, non passa giorno che non si senta parlare di violenze, conflitti, rapimenti, attacchi terroristici, vittime e distruzioni. Ed è terribile che per giustificare tali barbarie sia a volte invocato il nome di una religione o di Dio stesso. Siano condannati in modo chiaro questi atteggiamenti iniqui, che profanano il nome di Dio e inquinano la ricerca religiosa dell’uomo. Siano invece favoriti, ovunque, l’incontro pacifico tra i credenti e una reale libertà religiosa. In questo la nostra responsabilità di fronte a Dio, all’umanità e all’avvenire è grande e richiede ogni sforzo, senza alcun infingimento. È una chiamata che ci coinvolge, un cammino da percorrere insieme per il bene di tutti, con speranza. Siano le religioni grembi di vita, che portino la tenerezza misericordiosa di Dio all’umanità ferita e bisognosa; siano porte di speranza, che aiutino a varcare i muri eretti dall’orgoglio e dalla paura» (14).
Questo approccio aiuta a raggiungere una comprensione piena del concetto di «ecumenismo della missione» (15) promosso dal regnante Pontefice. Senza sincretismi e compromessi è necessario andare incontro ai fratelli delle altre religioni, per condividere con loro tutto quanto è possibile, aiutandoli a valorizzare tutti gli elementi di verità che ci accomunano. Impegnandoci, in conformità all’insegnamento del Catechismo di san Pio X (1903-1914) (16), a promuovere, se appena possibile, l’interpretazione più condivisibile di ciò che essi credono. Non si tratta di manipolare, falsificandolo, il messaggio delle altre religioni, ma di fare emergere quanto di buono racchiudono, al servizio della pace, perché nella pace si possa annunciare liberamente e liberamente accogliere il Vangelo di Gesù Cristo, Via, Verità e Vita e costruire così un mondo sempre più a misura d’uomo e secondo il piano di Dio (17), in operosa attesa del trionfo del Cuore Immacolato di Maria.
Michele Rinaldi
Note:
(1) Cfr. Marc Rastoin S.J., Religioni e violenza, in La Civiltà Cattolica, n. 4053, anno CLXX, vol. II, Roma 4-5-2019, pp. 209-219.
(2) Ibid., p. 213.
(3) Ibid., p. 214.
(4) Sulla dichiarazione cfr. Silvia Scaranari, Il «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune», in Cristianità, anno XLVII, n. 396, marzo-aprile 2019, pp. 19-25.
(5) Sul tema cfr. don Pietro Cantoni, Libertà religiosa e magistero della Chiesa, ibid., pp. 27-30.
(6) Cfr. Papa Francesco e Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4-2-2019, nel sito web <http://w2.vatican.va/content/francesco/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2019/2/4/fratellanza-umana.html> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 17-9-2019).
(7) Ibidem.
(8) M. Rastoin S.J., art. cit., p. 215.
(9) Ibid., p. 216.
(10) Ibid., p. 217.
(11) Cfr S. Scaranari, art. cit., p. 21.
(12) M. Rastoin S.J., art. cit., p. 219.
(13) Aurelio Agostino (354-430), La Città di Dio, 19, 13.
(14) Francesco, Discorso all’Udienza interreligiosa, del 3-11-2016.
(15) Cfr. Saluto al Patriarca e al Santo Sinodo durante il viaggio apostolico di sua santità Francesco in Bulgaria e Macedonia del nord, 5/7-5-2019, Palazzo del Santo Sinodo (Sofia, Bulgaria), 5-5-2019. Nel medesimo discorso il Papa associa all’ecumenismo della missione «l’ecumenismo del sangue» e «l’ecumenismo dei poveri», ossia la disponibilità al martirio e l’attenzione ai poveri.
(16) «Che ci ordina l’ottavo comandamento? L’ottavo comandamento ci ordina di dire a tempo e luogo la verità, e d’interpretare in bene, possibilmente, le azioni del prossimo» (Primi elementi della dottrina Cristiana, domanda 101).
(17) Cfr. Giovanni Paolo II (1978-2005), Discorso ai partecipanti al convegno ecclesiale della CEI del 31 ottobre 1981 nel 90° della Rerum Novarum.