« I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Vennero da lui e gli dissero: “Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?”. Gesù disse loro: “Possono forse digiunare gli invitati a nozze, quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno. Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri, e si perdono vino e otri. Ma vino nuovo in otri nuovi!” » (Mc 2,18-22)
Gesù, come ogni buon maestro in Israele avrebbe dovuto insegnare ai suoi discepoli le tre pratiche tipiche della religione del fedele israelita: preghiera, digiuno e elemosina (Tob 12,7; Mt 6,3.6.16). La Legge, di per sé, prescriveva il digiuno come obbligo stretto solo il giorno dell’Espiazione, lo Yom Kippur (Lev 16,29), ma i farisei in segno di devozione lo praticavano due volte la settimana (Lc 18,12) e i discepoli di Giovanni il Battista si sforzavano di imitare lo stile di vita ascetico del loro maestro (Mc 1,6) e praticavano il digiuno come segno di conversione e di pentimento (Gl 2,12-13). Gesù e i suoi discepoli avevano, in questo contesto un comportamento veramente strano: non solo partecipavano alle feste insieme ai peccatori, ma non praticavano mai il digiuno (Mt 11,19). La critica è sempre indiretta; mentre prima la domanda è rivolta ai discepoli sul comportamento del maestro: « Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori? » (Mc 2,16) adesso è rivolta al maestro sul comportamento dei discepoli: « Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano? ». Gesù risponde, socraticamente, con una domanda che li costringe ad andare ad un livello più profondo. Non ci si può meravigliare del fatto che i primi Padri abbiano visto in Socrate un precursore pagano di Gesù, tante sono le cose che li avvicinano. Entrambi hanno insegnato solo oralmente, hanno usato un metodo fatto di domande imbarazzanti, entrambi sono morti per testimoniare la verità. La figura dello sposo messa inaspettatamente in campo da Gesù porta i suoi interlocutori ad un livello più profondo in cui emerge qualcosa di nuovo ed inaspettato sulla sua vera identità. Lui è il vero Sposo (Mt 22,2; 25,1; Gv 2,1; 3,29) e i banchetti a cui partecipa non sono solo dei ritrovi di amici, ma feste di nozze a cui lo sposo invita i suoi ospiti. Per degli ebrei imbevuti di Scrittura queste immagini erano familiari: « […] tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo d’Israele, è chiamato Dio di tutta la terra » (Is 54,5). A questo proposito di Dio Israele aveva risposto con l’infedeltà di una sposa adultera: « […] come una moglie è infedele a suo marito, così voi, casa di Israele, siete stati infedeli a me » (Ger 3,20). Un tema centrale delle promesse messianiche annunciate dai profeti era che sarebbe venuto un giorno in cui Dio avrebbe definitivamente restaurato il patto nuziale tante volte tradito e frantumato dall’infedeltà del popolo: « Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore » (Os 2,21-22); « Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo. Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te » (Is 62,4-5). Questo è uno dei punti in cui Gesù, in modo velato ma perfettamente leggibile da chi conosceva le Scritture, si identifica misteriosamente con Dio. Dio vuole unirsi al suo popolo come uno Sposo con la sua sposa. Ora è il momento delle nozze: qualunque gesto di penitenza è dunque assolutamente fuori luogo. Verranno giorni in cui lo Sposo sarà tolto – una chiara allusione al tempo della Passione e anche al tempo dopo la Pentecoste (e l’Ascensione) – in cui la sua presenza sarà avvolta dal mistero dei sacramenti e della vita di fede, in cui avrà senso di nuovo digiunare, come i cristiani hanno sempre capito e praticato. Il digiuno però avrà allora un significato completamente nuovo: non più di dolore per i peccati commessi, ma di desiderio di cercare, al di là del cibo ordinario della vita di quaggiù, il pane celeste della vita eterna. La novità deve essere accolta come novità radicale, senza cercare di farla entrare in schemi vecchi ed ormai superati (vino nuovo in otri nuovi): il digiuno non deve più essere inteso come lo sforzo di “pagare” un debito assolutamente impagabile, ma come la ricerca della vera gioia in Dio, al di là delle gioie passeggere di questo mondo. Ti chiedo la gioia Signore e perché questa mia richiesta sia assolutamente vera rinuncio temporaneamente alle gioie legittime che la vita mi potrebbe dare… Così i cristiani hanno sempre praticato il digiuno, unendolo paradossalmente con un senso inedito della festa… e della buona tavola. I monaci cristiani ci hanno insegnato a digiunare (per davvero…) a tempo debito, per poi gioire meglio nei giorni di festa, regalandoci tanti cibi squisiti che ancora rallegrano le nostre tavole: dal caffè (i monaci copti dell’Etiopia) al formaggio grana, al prosciutto, alla birra di luppolo e allo champagne (i monaci benedettini di Occidente). Il digiuno prende allora un significato assolutamente nuovo: è al servizio di un’attesa di cui il cibo buono e per tanti versi ricercato del giorno di festa diventa una prefigurazione.Je