« Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo! » (Mt 5,20-26)
È uno dei passi più significativi in cui Gesù si attribuisce prerogative assolutamente divine. Dio è infatti l’autore della Legge. L’uomo può tutt’al più interpretarla, ma in nessun caso togliere o aggiungere qualcosa. Qui Gesù si arroga apertamente questo diritto: «Avete inteso che fu detto agli antichi: […]. Ma io vi dico… ». Questo ci offre l’occasione per fare una breve riflessione sui rapporti del Giudaismo con Gesù. Il rapporto dell’ebraismo con la figura di Gesù di Nazareth ha un significato assolutamente particolare. Essa sembra caratterizzata da un insopprimibile drammaticità: se Gesù è – come credono i cristiani – il Messia annunciato dalle Scritture ebraiche e il figlio di Dio in senso proprio e unico come chiaramente affermato dalle Scritture cristiane, questo non può essere accolto dall’ebreo fedele alla tradizione dell’ebraismo – almeno a quella dominante negli ultimi duemila anni – che con un netto rifiuto. Se Gesù invece viene ricondotto nei termini di una figura particolarmente significativa, forse persino la più significativa, della storia di Israele, ma solo ed esclusivamente umana, allora è il cristiano ad opporre un altrettanto forte e non negoziabile rifiuto. Accettare un Cristo simile infatti vuol dire, puramente e semplicemente, sconfessare i Vangeli e tutto il Nuovo Testamento. Una tale drammaticità non può e non deve essere oscurata. In fondo non è solo l’ebreo che davanti a Gesù si trova nelle condizioni di dover prendere posizione in termini chiari ed inequivocabili per il sì o per il no, ma la sua situazione è certamente esemplare. Questo è il dato oggettivo. Ciò non toglie che le posizioni soggettive concrete dell’ebraismo attorno al “caso” Gesù siano assai differenziate. I passi contenuti nel Talmud e nella letteratura ebraica antica che parlano di Gesù sono rari: gli studiosi hanno accertato che essi hanno preso un significato inequivocabilmente rivolto al cristianesimo solo nel Medio Evo (cfr. Johann Maier, Gesù Cristo e il cristianesimo nella tradizione giudaica antica, Paideia, Brescia 1994). Per il giudaismo antico il cristianesimo era infatti solo un gruppo marginale, tale da non attirare troppo su di sé l’attenzione e quindi da meritare una trattazione specifica. Anche se il caso costituito da un passo famoso delle Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio (37-103 circa), il famoso Testimonium flavianum, meriterebbe una trattazione a sé: « Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani ». Il testo più famoso della letteratura giudaica medioevale su Gesù è la leggendaria vita di Gesù (Toledot Jeshu), in cui sono contenute affermazioni blasfeme a proposito di Gesù e di Maria; secondo questo libello, di nessun valore storico, Gesù sarebbe nato da un adulterio con un soldato romano. I passi del Talmud relativi a questo problema hanno un significato generico che prende solo in epoca successiva un chiaro e intenzionale significato anticristiano con termini pesantemente blasfemi e denigratori, quando il cristianesimo si è ormai affermato ed è diventata da tempo la religione ufficiale dell’Impero e degli stati occidentali. Il Giudaismo moderno, per lo più, prende le distanze da questi testi o dalla loro interpretazione anticristiana. Gesù non è più visto come un bestemmiatore meritatamente giustiziato, ma ci si sforza di reintegrarlo nella storia giudaica e di reinterpretarlo in consonanza con la sua tradizione. Così, per es., diventa per Martin Buber (1878-1965) il “grande fratello” e per Shalom Ben Chorin (1913-1999) qualcuno che “non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero”. Per gli ebrei che si raccolgono attorno al movimento giudeo-messianico (a partire da rabbi Joseph Rabinowitz nel 1882) Gesù non è certamente il Figlio di Dio dei cristiani, ma non è neppure solo un qualunque grande ebreo… Una posizione seria e rappresentativa rispetto alla figura di Gesù, caratterizzata da una straordinaria franchezza e lealtà, è però quella offerta recentemente da Jacob Neusner, uno dei massimi studiosi contemporanei del giudaismo dei primi secoli. Nel suo Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù (del 1993, definito dall’allora card. J. Ratzinger «il saggio più importante per il dialogo ebraico-cristiano dell’ultimo decennio») afferma – immaginando di rivolgersi ad un discepolo contemporaneo di Gesù: «Il tuo maestro è Dio? Comprendo, infatti, che solo Dio può esigere da me quello che sta chiedendo Gesù» (p. 70). «[…] alcuni vogliono tracciare una distinzione fra il “Gesù della storia” e il “Gesù della fede” oppure vogliono distinguere la fede di Gesù da quella di Paolo o ancora separare Gesù Cristo dalla Chiesa che rappresenta il suo corpo mistico. Alcuni cristiani sostengono che il Gesù storico, l’uomo che realmente visse ed insegnò, non avrebbe riconosciuto la fede che la Chiesa cristiana avrebbe formulato più tardi. […] Debbo chiedermi, tuttavia, perché non possiamo riconoscere nei detti di Matteo non solo il Gesù della storia, ma anche il Gesù della fede. La distinzione tra l’uno e l’altro, importante per alcuni settori del cristianesimo e per alcuni teologi ed apologisti tanto ebrei quanto cristiani, mi colpisce perché è poco fondata» (pp.71-72). «Il legame familiare che si instaura in Gesù fra maestro ed allievo costituisce soltanto il primo passo che non porta ad onorare il maestro come o più del genitore, ma, in ultima analisi, ad onorare il maestro come e più di Dio» (p. 71). Per questo, rivolgendosi questa volta a Gesù, gli dice: «Va’ in pace». Lekh be-shalom. «Gli augurai ogni bene, ma me ne tornai a casa» (p. 160). I toni ingiuriosi sono stati abbandonati da una parte e dall’altra e questa non è una cosa di poco conto, qualcosa di “puramente accidentale”. I cristiani attuali nella loro maggioranza – certamente i cattolici – non affermano più che «gli ebrei» nel loro insieme sono i responsabili della morte di Gesù. Gli ebrei nella loro maggioranza non affermano più che Gesù è stato giustamente condannato da un tribunale ebraico, si sforzano anzi di dimostrare che i racconti evangelici sbagliano nell’attribuire al Sinedrio la “colpa” della condanna di Gesù, che sarebbe invece tutta dell’autorità romana. La questione di fondo però – “è costui veramente il figlio di Dio?” – rimane in tutta la sua drammaticità, e tale è destinata a rimanere.