Ridurre il rapporto con il paziente a uno schema contrattuale vuol dire non solo mortificare il medico, ma anche limitarne l’operatività
Il ruolo del medico è uno dei profili meno considerati nella discussione mediatica sulle cosiddette Dat – le disposizioni anticipate di trattamento, la proposta di legge sull’eutanasia giunta nell’aula della Camera dei deputati. Se approvata nei termini in cui è uscita dalla commissione, è una legge che stravolgerà una professione già largamente bistrattata e colpita negli ultimi decenni. Esagerazione? Partiamo dal consenso informato, di cui tratta l’articolo 1 del testo: esso richiama all’inizio le disposizioni costituzionali che sono il riferimento per disciplinare il consenso medesimo. Fra esse è menzionato l’articolo 13 della Costituzione, che fissa i fondamenti della libertà personale e impone che ogni sua limitazione sia vagliata da un giudice. Che senso ha in materia sanitaria agganciarsi a tale articolo? Forse che il medico che non esegue alla lettera le pregresse volontà suicide del paziente sia parificabile a un sequestratore di persona, dal quale difendersi più che farsi curare?
È l’unica anomalia? Pare di no, se termini come “terapia” e “cura” sono sovrapposti e non distinti: “terapia” è quel che cerca di guarire una patologia, ristabilendo le migliori condizioni di salute per il paziente e “misurandosi” sulla concreta situazione del malato, mentre “cura” chiama in causa l’assistenza al malato, indipendentemente dalle sue possibilità di guarigione e dall’esito della patologia. Sono dinamiche diverse, che qui invece sono pericolosamente confuse.
Il seguito è coerente con l’esordio: la nuova norma definisce il consenso informato “atto fondante” nel rapporto fra medico e paziente. Ora, il vero “atto fondante” del lavoro del medico è da sempre il perseguimento del bene del paziente, cioè lo sforzo – nei limiti del possibile – per recuperare la salute di chi si è rivolto al sanitario perché ammalato. Imporre per legge un canone di orientamento diverso significa ledere nell’essenza la professione: il medico è tenuto a un impegno maggiore nel far comprendere e accettare dal paziente ogni singolo passaggio della terapia o dell’intervento che gli propone, col rischio che una comprensione non perfetta – pur da lui non voluta – domani diventi oggetto di censura o di richiesta risarcitoria nei suoi confronti.
Una giustificazione inquietante
Intendiamoci: l’ammalato ha diritto di essere ben informato della patologia dalla quale è affetto, di ciò a cui il medico pensa di sottoporlo, delle controindicazioni e delle possibilità di riuscita. Ma il rapporto fra medico e paziente, se è di pari dignità quanto alle due persone, non è paritario quanto a conoscenze ed esercizio di responsabilità: ridurlo, come fa la proposta di legge in discussione, a uno schema contrattuale non significa soltanto mortificare il medico. Vuol dire pure limitarne l’operatività e rendere il medico stesso bisognoso, passo dopo passo, del parere dell’avvocato: per capire se e come il consenso si è validamente formato, e se e come nel percorso terapeutico sono rispettati i dettagli del consenso espresso, anche di fronte all’insorgere di emergenze o imprevisti. È qualcosa di non compatibile con le scelte che un professionista può essere chiamato talora a compiere nel giro di pochi minuti. Chi ne pagherà le conseguenze?
Ancora, per la legge in discussione, quando vi è una Dat «il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente», e così va «esente da responsabilità civile o penale». Se il testo sente la necessità di fissare una esenzione così ampia è perché la condotta che pretende dal medico è in sé contraria al codice penale e al codice civile. La proposta non dice però che cosa succede se, a distanza di tempo da quando le disposizioni sono state redatte, il medico colga la possibilità di curare il paziente con successo: prevarrà quello a cui indurrebbero professionalità e deontologia o quello che è stato scritto anni prima in un documento svincolato dalla attuale situazione, e tuttavia per legge vincolante? Perché costringere i medici a non scegliere, come invece suggeriscono scienza e coscienza? Peraltro in una legge che non prevede l’obiezione di coscienza. Cari medici, il Parlamento sta per assestare un colpo terribile alla vostra professione. Non pensate sia il caso di alzare in modo forte e chiaro la vostra voce?
Alfredo Mantovano
Da “Tempi” del 20 marzo 2017. Foto da articolo