Avevo 27 anni quando fu canonizzato un giovane trappista che, a sua volta, aveva 27 anni. Restai colpito da questo mio coetaneo che sorrideva dal cielo e dalla basilica di San Pietro l’11 ottobre 2009. Quel sorriso colmo di pace spingeva a chiedersi cosa stessero contemplando gli occhi socchiusi che si affacciavano sotto il cappuccio monastico. Nel frattempo è trascorso qualche anno, ma non ho smesso di chiedermi chi fosse “hermano Rafael”, come è popolarmente chiamato in Spagna san Rafael Arnáiz Barón.
Nasce il 9 aprile 1911 da una famiglia ricca nei beni e nello spirito, entrambi i genitori coltivavano fede fervente e carità fattiva. La scintilla della vocazione però è accesa inconsapevolmente dallo zio Leopoldo, duca di Maqueda, che fa leggere al nipote la biografia del trappista francese Gabriele Mossier. Il giovane, già ricco di studi e di interessi, dal disegno all’architettura, trova la sua vocazione: “Dio ha fatto la Trappa per me, e me per la Trappa”, scriverà dopo l’ingresso nel monastero di sant’Isidoro a Dueñas, che avviene nel febbraio 1934. Di lì a poco, però, questo ragazzo alto e gioviale, viene colpito da una forma di diabete che si rivela incompatibile con le durezze della vita trappista – giungerà a perdere ben 24 chili in poco tempo. Tra ritorni a casa e temporanei recuperi della salute, chiede e ottiene di restare come oblato nel monastero dove muore il 26 aprile 1938.
Uno dei tratti della spiritualità di Rafael, già da laico, è sicuramente la ricerca di Dio attraverso la via della bellezza. Nei giorni in cui non deve aiutare suo padre, si raccoglie in contemplazione sulla riva del mare e poi in qualche solitaria chiesetta. La sua capacità di intus-legere, saper leggere dentro e oltre le cose, è animata dall’amore di Dio che gli si rivela attraverso il canto della creazione. All’uomo iperattivo che si illude di saziare la sete di infinito assoggettandosi a mille impulsi, san Rafael insegna semplicemente che per guardare in profondità è sufficiente aprire la finestra: «Mi son messo alla finestra – scrive due mesi prima di morire –, il sole cominciava a sorgere. Una pace immensa regnava nella natura. Ogni cosa cominciava a svegliarsi, la terra, il cielo, gli uccelli. Tutto, poco a poco, cominciava a svegliarsi al “comando” di Dio. Tutto obbediva alle sue leggi divine, senza lamenti né sussulti, dolcemente, con mitezza, sia la luce che le tenebre, sia il cielo azzurro che la dura terra coperta della rugiada dell’alba. Quanto è buono Dio! Pensavo. C’è pace ovunque, tranne che nel cuore dell’uomo».
Stefano Chiappalone
Foto da “Catholik-blog”