La legge sulle dat è passata alla Camera mentre in un’aula accanto si discuteva di come far tornare i conti pubblici: una coincidenza?
Noi però vietiamo l’accanimento terapeutico… Al clou della discussione sulle dat l’aula della Camera ha approvato un emendamento che pone tale esplicito divieto. E i media – con rare eccezioni – non hanno mancato di titolare di conseguenza: con l’obiettivo di non far qualificare ciò che passava per quello che era, cioè eutanasia. Se tuttavia perfino il giornalista di testata à la page provasse a far prevalere l’esperienza di vita quotidiana sul condizionamento ideologico, arriverebbe ad ammettere che l’accanimento terapeutico oggi non esiste.
Quando il budget della sanità conosce tagli sensibili, e in parallelo cresce la domanda di cure perché l’età media si eleva in virtù del calo demografico, si introducono criteri di selezione delle risorse e dei loro destinatari, soprattutto – per stare all’esempio delle terapie oncologiche – in presenza di costi elevati del trattamento sanitario. L’età è un criterio di selezione. Patologie gravi, come la Sla, pure. Patologie di carattere mentale, di complessa gestione, ancor di più. La tendenza che si afferma sotto traccia non è quella delle cure inutili o sproporzionate, ma quella dell’abbandono del paziente. E quando la prognosi è infausta ma si è in presenza di sofferenze acute, la medicina non dovrebbe abbandonare il campo: deontologia e senso di umanità impongono di intensificare la terapia del dolore.
Mai scordare i casi Belgio e Olanda
La legge n. 38/2010, una delle poche di segno positivo su questo versante varate negli ultimi anni, facilita l’accesso alle cure palliative, soprattutto verso i malati inguaribili, ma le ristrettezze della corrispondente voce di bilancio ne permettono oggi la fruizione da appena il 30 per cento di chi ne ha reale necessità. Altro che accanimento, se vi è bisogno di novità, è di norme che impongano la presa in carico, non l’abbandono, del malato, facendo seguire i fatti concreti alle proclamazioni di principio.
La legge sulle dat incrementa la lontananza e il distacco verso persone affette da gravi disabilità, che vogliono affrontare la sfida della vita, ma alle quali serve vicinanza per non sentirsi un peso, loro e le loro famiglie. La risposta data finora dalla Camera, in attesa dell’esame del Senato, è invece la costruzione di un sistema che orienta a “staccare la spina”, che scarica sul medico la responsabilità di non optare per la soluzione più facile e meno costosa per il servizio pubblico, e che a breve gli toglierà la copertura assicurativa se terrà una condotta orientata al bene del paziente invece che alla tenuta economica del sistema.
Quando in Stati come il Belgio o l’Olanda si è avviato il percorso sul quale è oggi instradata l’Italia non si parlava di eutanasia né di presunzione del consenso all’interruzione dei trattamenti; poi sono arrivati i protocolli che interessano i minori, i bambini Down sono letteralmente scomparsi dalla circolazione, il generico disagio psichico è assurto a patologia da fine vita. Ci arriveremo qui da noi se non ci fermiamo subito. La legge sulle dat è passata nell’aula della Camera mentre in qualche aula a fianco si discuteva dell’aggiustamento dei conti pubblici: è una coincidenza o è coerente con un ordinamento che trova le risorse per permettere la realizzazione dei desideri (è recente il finanziamento pubblico della fecondazione eterologa, inserita nei Lea-livelli essenziali di assistenza) e le nega per le cure palliative e per le malattie vere?