Serve anche un senso di umanità che prenda in carico la persona in ogni fase della malattia, inclusa quella senza rimedio. Invece avremo le dat
Davide Vannoni è stato fermato perché era in procinto di raggiungere Santo Domingo, nel cui territorio aveva in programma di riprendere l’applicazione del metodo di infusioni staminali per contrastare malattie neurodegenerative. Il suo arresto ha rilanciato sui media le storie dei personaggi – da Di Bella a Hamer, da Simoncini allo stesso Vannoni – che nell’ultimo quarto di secolo hanno occupato le cronache con annunci di cure più efficaci di quelle ufficiali a fronte di patologie gravi, invariabilmente seguiti da tragiche disillusioni e da esiti letali per i non pochi che a quegli annunci avevano dato credito per sé o per stretti familiari. La risonanza mediatica è stata ampia, per la concomitante polemica sui vaccini, e sulle ricadute che il calo indotto degli stessi sta avendo in termini di incremento di talune malattie, morbillo in testa.
Sono vicende che fanno interrogare: sulla facilità con la quale i media stessi, che oggi demonizzano i promotori di pseudo-cure alternative, più volte hanno contribuito a farle conoscere, senza accompagnare la comunicazione col necessario vaglio critico; sulle sponde politiche garantite a più d’uno di quei personaggi, anche in epoca recente; addirittura sugli appoggi ricevuti in sede giudiziaria, con somministrazione di terapia spacciata per vincente imposta per sentenza.
È il caso di aprire un ulteriore file di discussione: che abbia a oggetto la ricerca delle motivazioni che spingono persone colpite direttamente o nei propri cari da malattie serie a perdere, con l’equilibrio, la fiducia nella medicina e a rivolgersi, con grado di consapevolezza più o meno attenuato, al ciarlatano di turno. Sarebbe interessante che l’approfondimento si avviasse fra gli stessi medici, e facesse chiedere se, a prescindere dalla specificità delle singole vicende, questa più accentuata attenzione a quel che sta fuori dal recinto della medicina non dipenda pure (insieme con la suggestione dei media, con la disperazione, e con l’ostinazione a non accettare prognosi infauste perché in definitiva non si accetta la propria condizione di esseri limitati) da un abbassamento del profilo professionale dei medici. E dalle loro preoccupazioni orientate più a ridurre ipotetiche responsabilità per colpa che ad assumere decisioni, pur difficili e coraggiose, volte alla salute del paziente.
Ci mancava il biotestamento
Il profilo professionale esige, insieme con competenza, aggiornamento e dedizione verso ogni singolo ammalato, quel senso di umanità che vada oltre l’organo che non funziona, e che prenda in carico la persona in ogni fase della sofferenza, inclusa quella che appare senza rimedio. Non dubito che riflessioni del genere siano in corso. È però un paradosso che le animino coloro che mostrano maggiore sensibilità all’approccio contestuale malattia/paziente, mentre il tema non emerge, come dovrebbe essere, all’evidenza generale.
Quando sarà approvata la legge sulle dat quel tipo di riflessioni, oggi già proprie di ambiti circoscritti, rischiano la totale assenza di considerazione. L’incertezza e la confusione su quel che viene richiesto al medico lo indurranno ancora di più ad adeguare le opzioni professionali – nei singoli casi sottoposti a esame – alla soluzione più facile, quella che tiene più lontane l’azione risarcitoria, o la denuncia, o il procedimento disciplinare. Le stesse compagnie di assicurazione concorreranno a questa fuga dalle responsabilità, perché, non potendo far fronte alla certa moltiplicazione di richieste di indennizzo, oltre ad aumentare i premi assicurativi (ciò che si può dare per scontato), esse adegueranno i contratti con i medici imponendo loro di non tentare mai quello che appare più adeguato e però più audace, soprattutto in presenza di disposizioni anticipate di trattamento che, benché redatte anni prima, esprimono una volontà inequivoca.
Il risultato sarà l’estensione dei casi di concreto abbandono del paziente e, per chi vuole illudersi spinto dalla disperazione, l’incremento del ricorso ai più pericolosi venditori di fumo. Così una legge omicida perché eutanasica finirà per uccidere quel che resta della medicina fatta di professionalità e sacrificio. Fra i medici italiani vi è piena consapevolezza della posta in gioco?
Alfredo Mantovano
Da “Tempi” del 9 maggio 2017. Foto da articolo