Sono la libertà e l’ordine slegati che producono l’«economia che uccide»
Quando un’economia può dirsi “libera” e “ordinata“? Può la libertà andare a scapito dell’ordine o viceversa? Contrariamente alle apparenze, no: senza ordine non può infatti esistere alcuna libertà autentica, e quando la libertà viene compressa, non si ha nemmeno vero ordine, bensì solo una sua parodia, tipica degli Stati totalitari.
Come insegna Papa San Giovanni Paolo II (1920-2005) nell’eniclica Centesimus Annus, del 1991, «[…] la libertà nel settore dell’economia» deve essere «[…] inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso» (n. 42). Solo così può fiorire un’attività economica favorevole allo sviluppo di tutti e di ciascuno, ovvero secondo le esigenze di quel bene comune autentico che non è affatto il frutto di decisioni prese “dall’alto” da un pianificatore centrale.
Norme chiare e condivise, se sensate, non sono di ostacolo alla crescita, anzi: anche per una semplice partita di calcio occorre condividere le regole e occorre un arbitro che le faccia rispettare. Si potranno avere legittime visioni differenti su “quante” e “quali” regole siano necessarie: le regole queste potranno cambiare nel tempo e nello spazio a seconda del livello e del modello di sviluppo, di fattori socio-culturali, e così via, ma le regole sono necessarie.
Il problema più grande nasce però quando una delle squadre in gioco ‒ per restare alla metafora della partita di calcio ‒ corrompe l’arbitro: fuori ‒ invece ‒ di metafora, oggi nei Paesi più sviluppati non si corre affatto il rischio di uno Stato “assente”, quanto piuttosto quello di uno Stato che falsifica le regole del gioco e che invece di arbitrare scende in campo a favore di questo o di quel contendente.I privati investono così le proprie risorse non nel servire sempre al meglio i clienti, ma per guadagnarsi il favore del potente di turno onde piegare le regole a proprio vantaggio e perseguire scopi “privatissimi” in violazione delle regole della concorrenza, concorrenza che non può essere libera se non è anche leale.
Molte delle critiche mosse al capitalismo cosiddetto “selvaggio” (qualsiasi cosa questa espressione significhi davvero) colgono, correttamente, una situazione di profondo malessere, iniqua, una «economia che uccide», per usare le parole oramai tanto famose quanto travisate di Papa Francesco. Sbaglia diagnosi però chi attribuisce le cause di problemi veri a una presunta assenza di regole, anziché a regole distorte; in questo modo si sbaglia dunque anche terapia e si finisce per invocare il fatidico ma deleterio “più Stato”. Questa “filosofia” comporta infatti una concentrazione di potere ancora maggiore nelle mani del ceto politico, e questo produce legami ancora più forti tra il potere politico e le lobby d’interesse, causando distorsioni sempre maggiori in una spirale apparentemente inarrestabile: un perfetto esempio di “eterogenesi” dei fini, insomma, colta in azione. Infatti, non è “più Stato” quel che occorre, ma uno “Stato migliore” che si preoccupa davvero del bene comune, in una prospettiva di solidarietà sussidiaria.
Un esempio di “capitalismo cattivo” sono proprio gli Stati Uniti d’America, che invece nell’immaginario collettivo passano per l’emblema stesso della libertà economica. In realtà, gli Stati Uniti sono oggi giunti a un livello impressionante concentrazione di potere politico, economico e finanziario. Basti pensare alle cosiddette “porte girevoli” tra le grandi banche d’affari e le amministrazioni, sia Democratiche sia Repubblicane, un consociativismo che produce quello che, appunto negli Stati Uniti, viene chiamato “crony capitalism”, un “capitalismo clientelare” ben conosciuto anche in Italia: utili privati e perdite pubbliche, elargizione di favori del settore pubblico solo ad alcuni gruppi privati, il tutto pagato dal consumatore, che si ritrova con servizi peggiori e più costosi, e dal contribuente, gravato da un carico fiscale vessatorio. C’è infatti chi, con ironia e retorica, si domanda ‒ per esempio l’imprenditore irlandese Declan Ganley ‒ cosa nel cosiddetto “crony capitalism” vi sia davvero di genuinamente capitalista (se per capitalismo s’intende la libertà economica messa a frutto)…
Del resto, il “capitalismo clientelare” non privilegia il merito degl’imprenditori che sanno servire al meglio i clienti ‒ come invece dovrebbe essere in un regime di vera libertà economica ‒, ma frena quella crescita che, se favorita o quantomeno permessa, si volgerebbe a vantaggio di tutti, instaurando piuttosto un clima ideale per chi è meglio connesso al potere politico. Quando l’illegalità può farsi scudo del potere politico, infatti, i piccoli e i deboli divengono vittime sin troppo facili.
Per ridurre i rischi di abusi di potere occorre quindi ridurne le concentrazioni: quelle tra potentati economico-finanziari e potere politico sono infatti le connessioni più pericolose e difficili da districare, e oggi travalicano oramai persino i confini degli Stati sovrani. Si pensi all’«[…] imperialismo internazionale del denaro», denunciato già nel 1931 da Papa Pio XI (1857-1939) nell’enciclica Quadragesimo anno.
Un perimetro limitato dello Stato, in un quadro giuridico chiaro e trasparente; una spesa pubblica contenuta e un prelievo fiscale equo: un ordine giudiziario indipendente, efficiente ed efficace: sono queste alcune delle pre-condizioni affinché l’attività economica possa svilupparsi in modo florido, generando benessere diffuso.
L’ampliamento della proprietà privata, e la maggiore responsabilità personale che questo porta con sé, con un ceto media che si dilata, premiando il merito e la conoscenza, non “le conoscenze” e le entrature: questi sono gli obiettivi di un’economia davvero “libera” e “ordinata”, «[…] un’economia e una finanza responsabili di fronte alle sorti dell’essere umano e delle comunità in cui si trova inserito. L’uomo e non il denaro torni ad essere il fine dell’economia!», come ha detto Papa Francesco il 18 maggio nel Discorso in occasione della presentazione delle lettere credenziali degli ambasciatori di Mauritania, Nepal, Trinidad e Tobago, Sudan, Kazakhstan e Niger.
Maurizio Milano