Se la cittadinanza è così importante, perché poi gli si dà la facoltà di rinunciarvi? Perché non far decidere direttamente a 18 anni?
Lo Ius Soli è la seconda voce che viene all’esame del Parlamento dell’ “agenda Repubblica”, cioè delle sei leggi per la cui approvazione prima della fine della legislatura il giornale fondato da Scalfari opera pressing quotidiano. Se la prima legge dell’agenda – sul processo penale – è andata in porto col voto di fiducia, quindi senza che nella fase conclusiva ci sia stato modo di approfondire le numerose e delicate questioni che sollevava, c’è da augurarsi che per la cittadinanza non accada lo stesso. Che cioè si lasci posto ai nodi concreti del disegno di legge, mettendo da parte sia i richiami pietistici alla negazione dei diritti dei bambini che vengono dalla maggioranza, sia gli slogan urlati e apodittici delle opposizioni. Nessuno dubita che l’adeguamento delle norme del 1992 sia necessario: un quarto di secolo fa gli stranieri regolar-mente soggiornanti in Italia erano poco più di mezzo milione, oggi superano largamente i cinque milioni. Nel 1990 i provvedimenti di cittadinanza furono 1809, nel 2014 (ultimo dato disponibile) sono stati 85.526. La legge di 25 anni fa provoca tempi lunghi di trattazione ed esige troppi adempimenti, più di forma che di sostanza. Una seria riforma della cittadinanza dovrebbe rispondere alla attuale moltiplicazione delle domande – e quindi prevedere procedure più snelle – e alla esigenza di verificare l’effettiva e non formalistica meritorietà di un riconoscimento casi importante. Quel che è in discussione oggi al Senato non appare in grado di dare queste risposte: se approvato, porterà a un caos nella trattazione delle domande, a non tener conto dei requisiti sostanziali, a uno svilimento della cittadinanza. A proposito dei minori, le nuove norme stabiliscono ai fini della concessione un presupposto di fatto alternativo: o che siano nati in Italia, o che vi siano giunti e abbiano frequentato per cinque anni la nostra scuola. Se almeno uno dei genitori è in possesso di una carta di soggiorno, egli potrà chiedere la cittadinanza per
conto del figlio prima che costui compia la maggiore età. Se, una volta superati i 18 anni, l’ex minore non condivide la scelta del genitore, ha a disposizione due anni per rifiutare la concessione. Ma se la cittadinanza è reputata così importante per il minore, perché poi gli si dà la facoltà di rinunciarvi? Immagino la risposta: non si può coartare la libertà del diretto interessato, allorché – diventato maggiorenne – dissenta dal genitore; proprio questa ipotetica replica rende logico non anticipare i tempi, e far decidere direttamente al compimento dei 18 anni! Un meccanismo così contorto riuscirà al tempo stesso a rendere più complicato il lavoro degli uffici, che magari si vedranno arrivare la comunicazione della revoca pochi mesi dopo aver valutato positivamente la concessione della cittadinanza, e a parificare quest’ultima a una t-shirt: se non ti piace la cambi. Entrare a far parte di una comunità nazionale merita maggior rispetto.
E il Senato che fa? Non è tutto. A norme approvate, in una stessa famiglia accadrà che un genitore sia titolare della carta di soggiorno (che lo legittima a chiedere la cittadinanza per il figlio) ma non sia cittadino italiano, l’altro genitore non abbia neanche la carta di soggiorno, e i figli minori siano invece a tutti gli effetti italiani. Che farà Repubblica? Una nuova campagna perché cessino queste diseguaglianze nel medesimo nucleo familiare? Immagino le paginate con la piantina in Allevo di un appartamento, la stanza dei figli segnalata con il tricolore e quella dei genitori con la bandierina di uno Stato extra Ue, o magari di due Stati diversi. Non è escluso che, senza attendere l’estensione per legge della cittadinanza a tutti i componenti della famiglia, sempre che almeno uno la abbia ottenuta, qualche giudice vi provveda direttamente in nome del principio di eguaglianza.
Ma il limite principale della riforma in discussione è ideologico. Finora il nostro sistema è stato connotato da una prudente gradualità: il migrante entra regolarmente in Italia col permesso di soggiorno, che può durare fino a due anni; alla scadenza lo rinnova, se permangono le condizioni del suo originario rilascio; dopo cinque anni, se ha dimostrato un radicamento, anzitutto lavorativo, non ha più bisogno di rinnovarlo perché ottiene la carta di soggiorno; dopo dieci anni può formulare la domanda di cittadinanza, con requisiti dì stabilità ancora maggiori. Come si è detto, il sistema è migliorabile, i tempi per avanzare le domande si possono ridurre e le procedure sono da rendere più snelle. Ma la logica del sistema è che il rilascio della cittadinanza corona un percorso dì progressiva integrazione. Le dichiarazioni degli sponsor della riforma fanno intende-re un capovolgimento di tale logica: per loro la cittadinanza costituisce un incentivo alla integrazione, e quindi è bene collocar-la all’inizio e non a uno stadio avanzato del percorso. E questo fa saltare il sistema. Ma perché l’aula del Senato, concordata la moratoria degli slogan, non affronta questi nodi di contenuto?
Alfredo Mantovano
Da “Tempi” del 22 giugno 2017. Foto da Voce di Strada