di Maurizio Brunetti
Una enciclica di qualche tempo fa riporta alcuni pensieri di un dotto padre gesuita sullo scarso valore liturgico della musica sacra composta dagli autori a lui contemporanei: «Qui, o musicisti, sia detto con vostra pace, prevale ora nelle Chiese un genere di cantare che è nuovo, ma eccentrico, spezzettato, ballabile, e certamente poco religioso; più adatto al teatro ed al ballo che non al Tempio». No, non si tratta di una denuncia delle Messe beat e delle analoghe amenità che, dalla seconda metà degli anni 1960, un clero giovanilista iniziò a imporre in nome di un presunto “spirito del Concilio”, e sebbene i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) dessero indicazioni d’altro senso…. L’enciclica in questione, infatti, è l’Annus Qui Hunc, promulgata nel 1749 da Papa Benedetto XIV (1675-1758), e il dotto gesuita è il bavarese Jeremias Drexel (1581-1638), latinizzato in Jeremias Drexellius e finalmente italianizzato in Geremia Dressellio, il quale svolgeva le proprie riflessioni niente meno che nel 1632.
Il pericolo di cattive ibridazioni fra musica sacra e musica profana è cioè sempre esistito. In alcune epoche, tuttavia, la corrività dei compositori e degli esecutori di musica sacra alle lusinghe dell’arte mondana ha superato i livelli di guardia, tanto da sollecitare provvedimenti da parte dei Sommi Pontefici. La musica sacra in voga, per esempio, negli ultimi decenni del secolo XIX scimmiottava stilemi e vezzi del melodramma ottocentesco, talvolta adottando i virtuosismi tipici del cosiddetto “belcantismo”.
Appena eletto Pontefice, san Pio X (1903-1914), di cui il 21 agosto ricorre la festa liturgica, intervenne con decisione per sanare la situazione. Anzitutto, nel Motu Proprio Tra le sollecitudini, del 1903, individuava autorevolmente nel canto gregoriano la forma musicale che più intimamente risponde all’esigenze della liturgia, giovando in particolare al raccoglimento e alla devozione del fedele. Nello stesso documento, tuttavia, il Papa precisava che «[…] la musica più moderna è pure ammessa in chiesa, offrendo anch’essa composizioni di tale bontà, serietà e gravità, che non sono per nulla indegne delle funzioni liturgiche».
Nel novero dei compositori sacri allora viventi che san Pio X apprezzava c’è il tortonese don Lorenzo Perosi (1872-1946). Il Pontefice lo riteneva di ingegno eccezionale e di fede cristallina: quand’era ancora Patriarca di Venezia, mons. Sarto aveva chiamato il giovane Lorenzo a far parte di una Commissione diocesana per la musica sacra e, di lì a poco, proprio lui l’avrebbe ordinato sacerdote nel 1895.
Don Perosi è stato un compositore prolifico dalla ricca vena melodica. Nonostante la battuta di arresto di un quindicennio a causa di una patologia mentale con sintomi paranoidi, ha composto decine di oratori, messe, mottetti, nonché musica strumentale per vari organici, e non gli sono mancati riconoscimenti anche da parte del mondo laico. Nel 1930, per esempio, gli arrivò la nomina a membro della Reale Accademia d’Italia. L’istituzione era nata nel 1929 per «promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti, di conservare puro il carattere nazionale, secondo il genio e le tradizioni della stirpe e di favorirne l’espansione e l’influsso oltre i confini dello Stato».
A Venezia, il 12 agosto 1897, al termine di un Congresso Eucaristico, e probabilmente alla presenza del futuro san Pio X, avvenne la prima esecuzione della Missa Secunda Pontificalis, per coro a tre voci miste e organo. Tipica del Perosi “giovanile”, tale Messa esprime con chiarezza i tratti dell’identità musicale del compositore come delineati dall’organista e studioso Arturo Sacchetti: la cantabilità, la plasticità delle linee, la felicità dell’invenzione melodica, il connubio fonema-suono, la nobiltà degli accenti, il funzionale rapporto tra le voci e l’organo, quest’ultimo non umiliato a meri compiti di accompagnamento.
Della Missa Secunda Pontificalis di don Perosi consigliabile è l’ascolto quantomeno del Kyrie. Il tema è semplice e a gradi congiunti. La sua immediatezza si accompagna a una buona dose di misticismo. Il carattere “popolare” di alcune melodie perosiane è del resto coerente con le idealità artistiche che il compositore esplicitò così: «Gli uomini del mio tempo non vogliono sentire il Vangelo; io li costringerò ad ascoltarlo in musica»