Puoi elaborare l’agenda che vuoi, ma se incontri opposizione netta e motivata conviene che non forzi. Si è visto per lo ius soli. Per la legge sul fine vita non è così
La versione hard non è scomparsa: la Repubblica continua a battere sull’approvazione entro il termine della legislatura delle voci che compongono la sua agenda, su cui insiste da un paio di mesi. Andate in porto la riforma del processo penale e l’introduzione del reato di tortura, restano ius soli, codice antimafia, legalizzazione della cannabis e dat. A essa si affianca una versione soft, di cui ha costituito un saggio l’editoriale del Corriere della Sera di domenica 30 luglio: traendo spunto dalla tragedia di Charlie Gard, il principale quotidiano italiano ricorda che «lo scorso 20 aprile è passata alla Camera una legge forse imperfetta, ma che riconosce il diritto di rinunciare ad alcune terapie senza passare dai tribunali, indicando la propria volontà quando ancora si è in grado di farlo».
Lo spot c’è tutto, nonostante lo sforzo di equidistanza fra opposti estremismi e l’auspicio di una grande discussione che non sia «inconcludente». Lo spot dice che: a) la libera e rispettosa discussione auspicata non include fra le posizioni degne di considerazione quella che una legge eutanasica possa pure non esserci; b) le norme votate dalla Camera saranno imperfette, ma è meglio che lasciar fare ai giudici (che potrebbero mostrarsi non allineati: vedi la decisione del gip di Milano sul caso Cappato-dj Fabo); c) il Corriere non intende farsi superare dal quotidiano concorrente, e accentuerà la sua campagna «per la dignità della morte», utilizzando i mezzi di persuasione consueti, inclusi il rilancio in grande stile di singoli casi, come quello di Elisa, 46 anni, in casa di cura da 12 anni senza apparente coscienza e con nutrizione artificiale; d) ciò avverrà, come insegnava Totò, «a prescindere». A prescindere dalla concretezza dei singoli casi. Non si ha notizia che Elisa abbia redatto un testamento biologico: a che cosa le servirebbe la legge sulle dat?
Nel frattempo è scomparso dai media, o si è molto attenuato, il dibattito sullo ius soli. Non è necessario avere la palla di cristallo per immaginare che in un ordine di priorità i sostenitori dell’agenda Repubblica, compreso il Corriere, punteranno sull’approvazione delle dat, rinviando alla prossima legislatura lo ius soli. Non accade per caso: contro lo ius soli vi è stata una forte e variegata mobilitazione politica e gli spunti critici hanno avuto spazio su giornali e tv. Puoi elaborare l’agenda che vuoi, la più progressiva e magnifica, ma se incontri opposizione netta, motivata e decisa conviene che non forzi. Per le dat non è così: la resistenza culturale, premessa indispensabile di quella politica, appare esile e incoerente.
Eppure la posizione è chiara
Il modo in cui parte del fronte asseritamente pro life ha affrontato il caso Charlie è rivelativo. Quel che è passato dalla miscela giudiziaria e mediatica è che: se una persona è in gravi condizioni di salute per il suo bene va ucciso; se la patologia è seria e le ipotetiche terapie non sono sperimentate, queste non vanno nemmeno tentate; il massimo che si può concedere a genitori che osano contestare le sentenze di morte di medici e giudici è un microfono e un po’ di ipocrita commiserazione.
Torno all’editoriale del Corriere, per il quale, a proposito delle dat, «questa discussione è possibile anche perché la Chiesa (…) ha rinunciato (…) a un atteggiamento intransigente (…). Anche la Chiesa sostiene che una legge ci vuole. Resta da stabilire quale». Sarebbe interessante chiedere ad Aldo Cazzullo, autore di queste asserzioni, che cosa intende col termine “la Chiesa”. «La legge sul fine vita di cui è in atto l’iter parlamentare – diceva il cardinale Bagnasco il 20 marzo – è lontana da un’impostazione personalistica; è, piuttosto, radicalmente individualistica, adatta a un individuo che si interpreta a prescindere dalle relazioni, padrone assoluto di una vita che non si è dato». Non si ha notizia che la Cei abbia mutato tale inequivoca posizione ufficiale. Mentre, a proposito di Charlie, il 2 luglio il direttore della Sala stampa della Santa Sede informava che «il Santo Padre (…) prega, auspicando che non si trascuri il desiderio (dei genitori) di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo». “Curare fino alla fine” significa “curare fino alla fine”, o no?
Non sostengo però che il Corriere abbia inventato una sponda infraecclesiale pro dat. Su Charlie la chiarezza logica e contenutistica espressa del cardinal Sgreccia ha conosciuto eco minore rispetto a interventi di esponenti non marginali del mondo cattolico: uscite, le seconde, che hanno fatto dubitare della esatta conoscenza dei dati obiettivi da parte di chi le esponeva, quindi delle categorie etiche con cui confrontarli.
In Italia vi è il rischio che una legislatura che ha visto la maggiore concentrazione di leggi ostili alla vita e alla famiglia si concluda con l’approvazione dell’eutanasia; non dipende genericamente dalla “Chiesa”. Dipende dalla capacità che ciascuno di noi mostrerà di articolare argomenti e di mobilitare le coscienze: con la consapevolezza che è dura, perché altri nel medesimo recinto lavorano, al di là delle intenzioni, nella direzione opposta.
Alfredo Mantovano
Da “Tempi” del 17 agosto 2017. Foto da articolo