di Maurizio Brunetti
«In lacrime, presso la croce da cui pendeva il Figlio, stava la Madre addolorata […]». È l’incipit dello Stabat Mater, una delle quattro sequenze sopravvissute alla riforma liturgica del 1969, di cui la Messa del 15 settembre, festa della Beata Vergine Maria Addolorata, prevede la recita.
Le venti struggenti terzine in rima che compongono tale preghiera risalgono al secolo XIII e sono tradizionalmente attribuite al beato Jacopo De Benedictis, meglio noto come Jacopone da Todi (1236-1306).
Fu proprio nel corso del Medioevo, in particolare grazie all’opera dell’Ordine dei Servi di Maria, che prese particolare consistenza la devozione a Maria Addolorata. La consapevolezza della sua rilevanza nella vita della Chiesa Cattolica continuò a maturare nei secoli successivi. Nel 1814 Papa Pio VII (1800-1823) decise di inserire la festa dei Sette Dolori della beata Vergine nel calendario romano, da celebrare la terza settimana di settembre, estendendo così all’intera Chiesa latina i formulari dell’ufficio divino concessi nel 1692 al solo Ordine dei Servi di Maria. La memoria liturgica dei Sette dolori fu poi “stabilizzata” da Papa san Pio X (1903-1914) al 15 settembre, il giorno seguente la festa dell’Esaltazione della Santa Croce.
Chi è aduso a ricercare significati spirituali nella composizione dell’anno liturgico intravede in tale contiguità cronologica l’unione perfetta (anche nella sofferenza) dei cuori di Gesù e di Maria – singolare cooperatrice della Redenzione –, la cui maternità diventa universale proprio sotto la croce.
La popolarità dello Stabat Mater, “trasversale” rispetto alle classi sociali e alle generazioni, si deve soprattutto all’uso invalso da secoli di cantarne una o più terzine fra una stazione e l’altra della Via Crucis.
La tenerezza dei suoi versi ha del resto ispirato molte decine di compositori, tanto che si contano oggi più di duecento versioni musicali diverse. Fra queste spicca per meritata notorietà quella composta per soprano, contralto (o contro-tenore), orchestra d’archi e basso continuo dal ventiseienne Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736), il quale, già gravemente ammalato di tubercolosi, fece appena in tempo a ultimarla presso il convento dei cappuccini di Pozzuoli dove trascorse gli ultimi giorni della sua vita terrena.
Al compositore di Jesi, che si era formato artisticamente nella Napoli asburgica e aveva già raggiunto una certa fama grazie alla produzione operistica di un solo quinquennio, lo Stabat Mater era stato commissionato dai Cavalieri della Vergine dei dolori appartenenti alla napoletana Confraternita di San Luigi di Palazzo. Pubblicata a Londra nel 1749, l’opera ebbe numerose ristampe e la sua popolarità andò consolidandosi in tutta Europa. Quello di Pergolesi fu molto presto percepito non come una versione musicata fra tante, ma lo Stabat Mater per antonomasia, spingendo vari compositori a comporre i propri riutilizzandone i temi. La sua pregnanza musicale affascinò anche Johann Sebastian Bach (1685-1750), che sulla musica di Pergolesi elaborò il suo Salmo 51 (BWV 1083).
Fra le esecuzioni dal vivo disponibili su youtube, si consiglia l’ascolto di quella condotta da Nathalie Stutzmann, presso il Castello reale di Fontainebleau in Francia, nel 2014, a patto però di non lasciarsi distrarre dalla mimica facciale dei solisti.
Lo Stabat Mater di Pergolesi si apre con l’esposizione da parte dell’orchestra del primo tema, forse il più celebre. È la stessa linea melodica su cui i solisti canteranno, in stile imitativo, il verso «Stabat Mater dolorosa». È un brano che anche cineasti ostili al cristianesimo come il regista danese Lars von Trier hanno prescelto per descrivere il dolore di un’anima trafitta e rassegnata.
La struttura della sequenza è sostanzialmente bipartita: le prime otto terzine sono di natura descrittiva; con il verso «Eja Mater Fons Amoris» inizia, invece, la preghiera vera e propria alla Vergine: le si chiede la grazia di sentire la violenza del suo dolore, per riuscire a piangere con Lei, e di far sì che il nostro cuore arda per amore di quel Figlio che è sottoposto a torture e frustate per i peccati del suo popolo.
Sebbene non manchino episodi in cui Pergolesi indulge a uno stile da teatro lirico “laico” (il Quae maerebat, per esempio), in altri emerge un senso di commossa partecipazione (si ascolti il Quis est homo). Intimo e sublime, infine, è il movimento Largo assai, in forma di duetto come quello iniziale, dove alcune dissonanze, appena accennate e subito risolte, significano lo sgomento dell’anima dinanzi alla prospettiva della (propria) morte che si trasforma però, in speranza cristiana di salvezza: «Quando il corpo morirà, fa’ [o Maria] che all’anima sia donata la gloria del paradiso».