Indubbiamente oggi l’identità è un principio sotto attacco. Non soltanto l’identità sessuale messa in dubbio dall’ideologia gender, ma anche e ancor prima l’identità della famiglia, sostituita da diverse tipologie alternative, l’identità nazionale, messa in discussione dal disprezzo della specificità delle diverse culture, e infine la stessa identità della fede cristiana, messa in discussione dal non uso o addirittura dal disprezzo nei confronti del Catechismo della Chiesa Cattolica, forse il più grande dono del pontificato di San Giovanni Paolo II.
Tuttavia l’identità è minacciata anche da chi vorrebbe difenderla. Infatti, essa non è una clava da usare dialetticamente contro i “diversi”: diventerebbe nazionalismo o familismo, maschilismo o femminismo, cioè diventerebbe, come è diventata storicamente, un errore contrario e non l’affermazione della verità, che rifiuta le contrapposizioni dialettiche.
Così, per la fede cristiana, l’identità presuppone l’obbedienza, una virtù difficile da praticare ma fondamentale per una identità autentica. Obbedire non significa soltanto riferirsi al Magistero, in particolare quello pontificio, ma fare di questa virtù un atteggiamento costante della propria vita cristiana, dalla famiglia al lavoro e alle relazioni ecclesiali. L’identità è un atteggiamento politicamente scorretto dopo la Rivoluzione antropologica del Sessantotto, che ha minato anzitutto il principio d’autorità in ogni ambito della vita relazionale. Obbedire è tanto più difficile quando si avvertono dei dubbi o si hanno delle incertezze su quanto viene affermato dalle autorità. Chi ha un minimo di esperienza familiare sa quanto sia facile obbedire a un genitore che ti chiede ciò di cui sei convinto o che ti fa piacere, ma l’obbedienza non consiste nel dire di sì soltanto quando sei d’accordo.
La crisi che investe oggi la Chiesa non è soltanto una crisi di fede segnata da un ritorno del modernismo sotto forma di relativismo che porta tanti a negare i principi fondamentali della fede cattolica. Fra questi princìpi c’è anche l’obbedienza. Essa non consiste soltanto nel non attaccare pubblicamente le autorità, come invece fecero, per esempio, i modernisti con San Pio X a inizio Novecento o i teologi progressisti contro San Giovanni Paolo II durante il suo pontificato e come hanno fatto pochi giorni fa qualche decina di cattolici che credo desiderino essere definiti tradizionalisti.
Obbedire, nel caso del Magistero, significa trasmettere lealmente l’insegnamento di tutti i pontefici e in particolare di quello regnante, non solo senza attaccarlo ma neppure prescindendo da esso come fosse una cosa nociva.
L’obbedienza e l’identità, sono strettamente legate all’apostolato. Apostolo è colui che è inviato da un Altro a comunicare il dono ricevuto, nel nostro caso la fede che salva e porta alla felicità eterna. L’apostolo è fedele al mandato ricevuto nella misura in cui non trasmette se stesso, né le sue opinioni sulla fede, che siano l’esaltazione dialettica della Parola (Lutero) o della Tradizione, ma trasmette la Parola e la Tradizione attraverso il Magistero del Pontefice regnante.
Mai come oggi la Chiesa ha bisogno di questi apostoli, fedeli e obbedienti. Quando il card. Bassetti scrive nella sua prima prolusione al consiglio permanente della CEI che bisogna perseguire il “sogno missionario” di arrivare a portare a tutti il Vangelo, dice la cosa fondamentale che tutti dobbiamo sinceramente sforzarci di mettere in pratica.
Sinceramente non so quanti siano convinti che questo sia il messaggio centrale da privilegiare del Magistero di Papa Francesco, che il presidente della CEI riprende nel suo discorso. Nei tanti che amano esaltare il Papa, spesso dimenticando quanto riprende dai suoi predecessori, mi pare sfugga questa convinzione missionaria. E allora pongo la domanda: siamo tutti convinti che la conversione missionaria della Chiesa sia la priorità da seguire?