di Michele Brambilla
La parabola dei vignaioli omicidi (cfr. Mt 21,33-34), con i contadini che uccidono il figlio del padrone dopo averne massacrato anche i messaggeri, è stata da sempre interpretata come l’immagine d’Israele che, non avendo ascoltato la voce dei profeti, non ha poi conseguentemente riconosciuto il Messia quando Egli è venuto nella carne.
Così rammenta anche Papa Francesco all’Angelus di domenica 8 ottobre, XXVII del Tempo ordinario . «Questo racconto illustra in maniera allegorica quei rimproveri che i Profeti avevano detto sulla storia di Israele», ha detto il Pontefice. «È una storia che ci appartiene: si parla dell’alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’umanità ed alla quale ha chiamato anche noi a partecipare». Chiamando in causa tutta l’umanità esclude dunque subito quelle interpretazioni del brano evangelico che attribuiscono a tutti gli Ebrei come popolo, indistintamente, l’accusa di “deicidio”. Corollario di tale accusa era tutto un filone epico, che si condensò nell’anonimo poema medioevale Vindicta Salvatoris, in cui s’immaginava che Gesù avesse suscitato, come vendetta personale, la spedizione del generale romano Tito (69-81) ‒ poi imperatore ‒ che nel 70 represse una ribellione in Giudea distruggendo il Tempio di Gerusalemme. Immagini che però sono radicalmente contrarie al testo evangelico, di cui la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa Cattolica con le religioni non cristiane, Nostra aetate, pubblicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) nel 1965, ha doverosamente fatto piazza pulita. Dice infatti quella dichiarazione: «[…] se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura».
Papa Francesco torna quindi oggi a ribadire la cogenza della domanda posta dal padrone della vigna nella parabola evangelica: «“Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?” […]. Questa domanda sottolinea che la delusione di Dio per il comportamento malvagio degli uomini non è l’ultima parola! È qui la grande novità del Cristianesimo: un Dio che, pur deluso dai nostri sbagli e dai nostri peccati, non viene meno alla sua parola, non si ferma e soprattutto non si vendica!».
Se Dio si fosse vendicato dell’antico popolo eletto, pure il semplice credente dovrebbe ora tremare, poiché le offerte di misericordia assomiglierebbero a un ricatto ipocrita. Invece il Signore è davvero amore, «[…] ci aspetta per perdonarci, per abbracciarci. Attraverso le “pietre di scarto” – e Cristo è la prima pietra che i costruttori hanno scartato – attraverso situazioni di debolezza e di peccato, Dio continua a mettere in circolazione il “vino nuovo” della sua vigna, cioè la misericordia; questo è il vino nuovo della vigna del Signore: la misericordia. C’è un solo impedimento di fronte alla volontà tenace e tenera di Dio: la nostra arroganza e la nostra presunzione».
L’errore di fondo delle posizioni antigiudaiche è la presunzione d’innocenza, matrice di ogni odio rivoluzionario. L’unica urgenza che il credente deve, invece, sentire è «[…] di rispondere con frutti di bene alla chiamata del Signore, che ci chiama a diventare sua vigna». Come ha fatto Arsenio da Trigolo O.F.M. (1849-1909), fondatore delle suore di Maria Santissima Consolatrice, beatificato giusto 24 ore prima dell’Angelus nel Duomo di Milano (concelebranti il card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le cause dei santi, e l’arcivescovo ambrosiano, mons. Mario Delpini), come ricorda lo stesso Santo Padre nei tradizionali saluti che seguono la recita della preghiera mariana.