di Angelo Pastore
È diventata esperienza comune notare una certa perturbazione nelle dinamiche umane del guardare, del vedere con attenzione più o meno cosciente. Basta salire su un tram per osservare solo teste chine sui rispettivi dispositivi elettronici, talvolta ancora chiamati cellulari, ma la cui funzione uditiva del telefonare viene grandemente sopravanzata dalla funzione visiva del mostrare, anzi dello scorrere, a colpi di pollice, migliaia di immagini. Spesso immagini di sé stessi. E anche per strada o in casa le persone non si guardano più in volto, ma sui luminosi specchi dei propri smartphone nelle reciproche foto.
Si percepisce qualcosa di distorto riguardo al concetto stesso di immagine, dell’atto del vedere, e in ultimo dell’immaginario, che è la risultante culturale di ciò che è possibile vedere e di ciò che si può pensare possibile.
È stato calcolato che, cinque anni fa, sui social network basati sullo scambio di immagini (Instagram, Snapchat, e così via) vi erano circa 300 milioni di immagini, mentre oggi alcuni tentativi di stima portano alla cifra orientativa di oltre 2,5 miliardi di immagini. È un dato sorprendente, perché inimmaginabile e solo provvisorio, continuerà a crescere, e tuttavia, trattandosi di immagini statiche, da solo non dà appieno il senso di stordimento che invece danno i dati di diffusione dei video.
È ormai acclarato che in media vengono caricate solo su YouTube, la piattaforma video di Google, circa 300 ore di video ogni minuto. Per vedere di fila tutti i video caricati in un solo anno dovrebbero essere necessari circa 18mila anni. Nessuno potrà mai farne esperienza. Si tratta di video di qualsiasi dimensione e di qualsiasi qualità, brevi di pochi minuti e film completi di ore, softporn, comici, trash, scientifici, religiosi, politici, comici, orrendi, assurdi; autoprodotti, riciclati, oppure girati ad hoc per la piattaforma in questione. Sono visti all’incirca da un miliardo di persone di oltre 88 Paesi diversi e 76 lingue, nella metà dei casi su dispositivi mobili. E YouTube è solo una parte, anche se preponderante, a cui si sommano Facebook, Hulu, Vimeo, Chili, Netflix, e qaunt’altro. Una Babele tascabile, a portata di mano, che non punta più al cielo, svuotato di qualsiasi sacralità, ma direttamente ai nostri occhi, la porta dell’anima, secondo alcuni.
Le prime tecnologie dell’immagine in movimento – il cinema – tenevano conto della qualità della nostra retina, che trattiene per pochi istanti un’immagine anche dopo l’attimo in cui è stata esposta. Le odierne tecnologie video, basate su pixel e led, non danno invece alcuna tregua alla capacità percettiva dei nostri occhi, consentono di vedere tutto, sempre, ad altissima definizione, come se fosse la realtà, anzi con l’obiettivo conturbante di aumentare la realtà.
Oggi molti si presentato come “esperti di media” e sono in grado di discettare per ore sulle meraviglie, o sulle criticità, di questo tipo di offerta, di realtà parallela. Ma c’è da chiedersi se non servano, piuttosto, degli “esperti di uomini” per capire se questa sovrumana disponibilità di immagini in movimento corrisponda alla natura umana, alle sue peculiarità fisiche e psichiche o non le si opponga tendendo a modificarle, e in quale direzione?
Dentro questa vorticante Babele di storie, efficacemente sempre disponibili e ipnotiche, forse bisognerebbe cominciare a pensare a un’ecologia del vedere, a un’educazione dello sguardo che impari a riconoscersi e rispettarsi come umano, connaturato al bisogno di una realtà in cui il vero coincida con il giusto e il bello.