di Maurizio Brunetti
In prossimità della vetta degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) – itinerario escogitato dal fondatore della Compagnia di Gesù per aiutare il prossimo a vincere se stesso, ordinare la propria vita e, così, procedere più speditamente sulla strada della santità – si trova la “Contemplazione per ottenere l’amore”. In questa, l’“esercitante” chiede la grazia di «[…] una conoscenza intima di tanti benefici ricevuti da Dio» e riflette, fra le altre cose, su come Dio operi e sia attivo per ciascuno di noi in tutte le realtà di questo mondo.
L’eloquente epifania di Dio nel creato è anche il tema principale della prima parte del Salmo 18, presente fra le letture liturgiche di oggi: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani».
Tale “prima rivelazione”, che s’impone a chiunque – cristiano oppure no – abbia orecchi attenti e occhi non velati, viene celebrata nel testo scritturale con singolare intensità poetica. Dal canto proprio, il Salmo XVIII, composto dal veneziano Benedetto Marcello (1686-1749) nel 1724, ne costituisce una felice resa musicale.
Sebbene ricordato come filologo, poeta, autore satirico e, soprattutto, compositore, Benedetto Marcello non era un musicista di professione. Membro della più alta nobiltà veneziana, il suo lignaggio lo destinava al Maggior Consiglio, l’assemblea sovrana della Repubblica di Venezia. Ecco perché a ventun anni avrebbe interrotto gli studi musicali per intraprendere quelli di giurisprudenza. Sarebbe, infatti, diventato avvocato, amministratore, magistrato e uomo politico. Il suo Estro poetico-armonico (1724-1726), comunque, lavoro che mette in musica, per voci miste e varie compagini strumentali, i primi cinquanta Salmi – e quindi anche il Salmo 18 –, ancora oggi stupisce per la fantasia delle soluzioni armoniche, la mole e la rigorosità contrappuntistica. L’opera procurerà all’autore l’epiteto di “Pindaro e Michelangelo della musica”.
La versione di cui si propone l’ascolto è una della varie esecuzioni disponibili del coro En Clara Vox e dell’Orchestra Gruppo d’Archi Veneto.
Il testo musicato è in lingua italiana, il che potrebbe apparire alquanto esotico per un pezzo di musica sacra del secolo XVIII. In realtà, già nel secolo XIII esistevano versioni in lingua volgare di singoli libri delle Sacre Scritture. Tali opere – non fa eccezione la prima versione integrale in lingua italiana della Bibbia per opera del camaldolese Niccolò Malermi (1422-1481) – più che uno strumento di evangelizzazione, erano qualificabili come divertissement per eruditi, in tempi in cui chi sapeva leggere e scrivere conosceva di solito anche il latino. Negli stessi anni, la Chiesa Cattolica, per rendere più familiari le Scritture al popolo analfabeta, oltre a moltiplicare gli affreschi a soggetto biblico nelle cattedrali, promuoveva piuttosto Laude Drammatiche e Sacre Rappresentazioni.
Effettivamente, però, nel 1724 occorreva ancora un permesso speciale per leggere la Bibbia nelle edizioni in lingua volgare. Era l’effetto di un provvedimento emanato da Papa Paolo IV (1555-1559) per ostacolare la diffusione delle eresie protestanti, destinato a essere superato solo nel 1757. A essere precisi, infatti, il testo musicato da Benedetto Marcello è una Parafrasi poetica del Salmo 18 composta dal patrizio veneziano Girolamo Ascanio Giustiniani (1697-1749), in una versione linguistica – avvertono il poeta e il compositore – non sempre «rigorosa e castigata».
La parafrasi del Salmo è divisa in cinque sezioni che presentano la caratteristica alternanza di andamenti contrastanti. Tralasciando un’analisi sia pure sommaria di ciascuno, è d’immediato impatto il tema giubilante d’esordio che esprime l’esplodere dello stupore dinanzi alla magnificenza e l’immensità dei cieli. Tale stupore si trasforma inevitabilmente in gioioso inno di lode e di ringraziamento. La bellezza e la regolarità del cosmo, del resto, sono il segno inciso nel creato della fedeltà amorosa di Dio che dona alle sue creature l’essere e la vita, l’acqua e il cibo, la luce e il tempo.
Il testo, nonostante la sovrapposizione di varie voci, rimane quasi sempre percepibile: ciò è dovuto alla scelta del compositore di adottare uno stile che non ricerca tanto i virtuosismi canori quanto la chiarezza del madrigale cinquecentesco.
È noto come il Sole, paragonato nelle ultime strofe cantate a un atleta che, una volta levatosi, non conosce sosta o stanchezza, possa ragionevolmente essere figura di Gesù che fa il proprio ingresso nella pienezza della vita nuova della risurrezione. Adottando questa chiave di lettura, si comprende di più l’aderenza musicale del tema concitato e brillante all’ultima terzina: «Non v’è mare, non terra, non popolo […] cui non giunga il calor […] benefico»… di Cristo risorto!
Di seguito, la parafrasi del Giustiniani.
- I cieli immensi narrano
Del grande Iddio la gloria,
E ‘l firmamento lucido
A l’universo annunzia
Quanto sieno mirabili
De la sua destra l’opere - Al dì che nasce
Di lui ragiona
Il dì che more;
Ed una notte
Racconta a l’altra
la sapienza
del loro Autore - Non avvi popolo
Cotanto barbaro
Da cui non odasi
Tal favellar.
Lor suono spandesi
Sino ne gli ultimi
Remoti termini,
Che bagna il mar. - Per magnifica tenda l’Altissimo
Diede al Sol questi cieli; e per talamo
Donde a guisa di sposo levandosi
Qual fastoso campion robustissimo
la carriera esultando incomincia,
Da oriente veloce muovendosi,
E del cielo poggiando su ’l vertice
Segue il corso leggiero, instancabile
Sin che arrivi a posarsi a l’occaso: - Non v’è mare, non terra, non popolo,
Non v’è pianta, non fera, non arbore
Cui non giunga il calor suo benefico.