di Michele Brambilla
Le ricorrenze dell’1 e del 2 novembre sono per la Chiesa Cattolica strettamente collegate. Santi e defunti in Cristo fanno parte della medesima “famiglia”, la Chiesa trionfante nei cieli, a cui quella militante si unisce quotidianamente, nella preghiera, dalla Terra. Si passa senza soluzione di continuità da una Messa solenne con i paramenti bianchi alla processione pomeridiana al cimitero. Questa lettura delle due feste cominciò nell’abbazia di Cluny nel secolo XI, quando gli abati iniziarono a far seguire alle solenni celebrazioni di Tutti i Santi un ufficio funebre altrettanto solenne per i monaci deceduti nell’anno.
Ovviamente non si presume la salvezza automatica di nessuno. I testi liturgici per la Commemorazione dei fedeli defunti sono molto attenti a mantenere un atteggiamento d’intercessione a favore delle anime, prendendo le distanze da una visione predestinazionista tipicamente protestante.
Anche Papa Francesco connette strettamente 1 e 2 novembre. «La solennità di Tutti i Santi è la “nostra” festa», dice il Santo Padre all’Angelus di Ognissanti : «non perché noi siamo bravi, ma perché la santità di Dio ha toccato la nostra vita. I santi non sono modellini perfetti, ma persone attraversate da Dio». Per spiegare questo assunto utilizza come esempio le vetrate di una cattedrale gotica. «Possiamo paragonarli alle vetrate delle chiese, che fanno entrare la luce in diverse tonalità di colore. I santi sono nostri fratelli e sorelle che hanno accolto la luce di Dio nel loro cuore e l’hanno trasmessa al mondo, ciascuno secondo la propria “tonalità”. Ma tutti sono stati trasparenti, hanno lottato per togliere le macchie e le oscurità del peccato, così da far passare la luce gentile di Dio».
Le parole «luce gentile» sono una citazione quasi diretta della poesia Lead, Kindly Light del beato card. John Henry Newman (1801-1879): egli la compose durante un periodo di malattia grave, trascorso in Sicilia durante il suo primo viaggio in Italia (1832), compiuto ancora da anglicano. Quell’invocazione di una illuminazione gentile si sarebbe trasformata, lentamente, nel progressivo riconoscimento della luce che promana dalla Chiesa Cattolica, l’unica vera Chiesa. Nel 1846 l’Italia avrebbe accolto un altro Newman, non solo perché ormai cattolico, ma anche perché la carriera accademica aveva smesso di essere il suo unico parametro. Dice il Papa: «La felicità vera non sta nell’avere qualcosa o nel diventare qualcuno; la felicità vera è stare con il Signore e vivere per amore. […] Ecco le beatitudini. Non richiedono gesti eclatanti, non sono per superuomini, ma per chi vive le prove e le fatiche di ogni giorno, per noi». Proseguendo: «Vorrei infine citare un’altra beatitudine, che non si trova nel Vangelo (Mt. 5,1-12), ma alla fine della Bibbia e parla del termine della vita: “Beati i morti che muoiono nel Signore” (Ap 14,13). Domani saremo chiamati ad accompagnare con la preghiera i nostri defunti, perché godano per sempre del Signore».
Non manca un dolente pensiero alle vittime dell’attentato islamista di New York di poche ore prima (31 ottobre), cinque delle quali erano argentine. Oggi 2 novembre il Papa si omaggia i caduti angloamericani del cimitero militare di Nettuno e quelli italiani delle Fosse ardeatine: tragedie antiche e nuove che s’intrecciano e richiedono, allo stesso modo, il suffragio della preghiera cristiana.