Da Avvenire del 16/11/2017. Foto da articolo
La “crisi del debito” del Venezuela procede come da copione. Martedì Standard & Poor’s ha certificato il “default selettivo” di Caracas, dopo il mancato pagamento di 200 milioni di dollari in obbligazioni, scadute – dopo l’ennesima proroga – il 12 novembre. Il giorno successivo è arrivato il “salvagente russo”. L’accordo siglato a Mosca – e sottoscritto per il Venezuela dal ministro delle Finanze, Simón Zerpa – non salva la nazione dal naufragio. Quantomeno, però, le offre una boccata d’ossigeno. La Russia ha accettato di ristrutturare una parte del proprio credito: 3,15 miliardi di dollari su un totale di otto. Il Venezuela potrà restituire tale quota nei prossimi dieci anni, con cifre minime nei primi sei, liberando risorse con cui saldare le altre pendenze. L’International Institute of Finance stima il suo debito estero totale intorno ai 150 miliardi di dollari, di cui 60 contratti dallo Stato e 45 in capo all’azienda petrolifera pubblica Pdvsa. Per tale ragione, la compagnia è stata collocata da Fitch in “default ristretto”.Di fronte a tali cifre è evidente che la “mano tesa” del Cremlino non può essere risolutiva. Grazie all’alleggerimento, però, il governo del presidente Nicolás Maduropotrebbe riuscire a saldare entro dicembre gli altri 1,4 miliardi di dollari di bond (obbligazioni) in scadenza. Nel 2018, però, dovrà sborsarne altri otto. Lo farà? Maduro e il suo entourage continuano a ripetere di sì. «Nessun Paese è solvente quanto il Venezuela », ha detto il ministro della Comunicazione, Jorge Rodríguez. La Cina – a cui Caracas deve 28 miliardi – è disposta a crederci. «Il governo e i venezuelani hanno la capacità di gestire adeguatamente i propri affari», ha detto il titolare della diplomazia, Geng Shuang. Al di là degli alleati storici – Mosca e Pechino, appunto –, il resto della comunità internazionale nutre forti dubbi. È vero che finora Maduro ha sempre pagato. Ma lo è altrettanto che, con le presidenziali del 2018 in vista, all’esecutivo occorrono risorse da investire per arginare il crescente malcontento sociale. Econ riserve inferiori ai 10 miliardi, un terzo rispetto all’epoca di Hugo Chávez. Allora, però, il prezzo internazionele del petrolio – il 95 per cento dell’export venezuelano –, superava i cento dollari. Ora sfiora i 50. Il brusco calo ha fatto venire al pettine i nodi della gestione chavista, che sui fondi del greggio aveva costruito il suo sistema di prezzi fissi e aiuti a pioggia. Ma che poco o nulla aveva fatto per diversificare la produzione e migliorarla. Dipendente dalle importazioni ma con molte meno risorse per ottenerle, il Paese s’è ritrovato a corto di cibo e medicine. La recessione ha provocato l’esplosione del mercato nero, mentre l’economia è cominciata ad andare in affanno. Fino all’attuale collasso. «Finora, Maduro ha scelto di sacrificare le importazioni per far fronte ai debiti nel timore che il suo petrolio fosse tagliato fuori dal circuito internazionale. Del resto, senza vendite greggio non ci sono dollari per importare», afferma Luis Vicente León, politologo, economista e direttore della società di consulenza Datanalisis.
Una nuova emergenza minaccia ora, però, le già risicate finanze venezuelane, con effetti imprevedibili sulla politica del governo. La produzione petrolifera ha raggiunto il minimo storico: 1,9 milioni di barili al giorno. Alla fine degli anni Novanta era quasi il doppio: 3,2 milioni. La contrazione è dovuta principalmente a tre fattori: mancanza di investimenti, distorsioni del cambio e ineficcienza della dirigenza, scelta in base alla fedeltà all’esecutivo. Il 40 per cento delle raffinerie è fuori uso per mancanza di pezzi di ricambio. A ciò si somma la corruzione che dirotta nel mercato nero – come documentato nei giorni scorsi da Avvenire – almeno 100 mila barili al giorno.