di Michele Brambilla
Giunge quindi anche per il rito romano la solennità di Cristo Re dell’universo, con la quale si conclude l’anno liturgico contemplando il Signore nella Sua gloria, che neppure la morte ha potuto scalfire per sempre. La pagina di Vangelo assegnata alla festa è Mt 25,31-46, il brano in cui si rappresenta il Giudizio universale, dando alla liturgia del giorno un tono marcatamente escatologico che non aveva in origine.
Papa Pio XI (1922-39) istituì infatti la festa di Cristo Re nel 1925, mentre la sovranità di Dio sulla creazione e la dottrina sociale della Chiesa erano calpestate dal Messico alla Russia, e aveva lo scopo di riaffermare con forza che Gesù è Re qui ed ora, poiché Egli era presente al momento della creazione e vi ha posto leggi che devono essere rispettate. La traslazione della festività operata dalla riforma liturgica (1970) ha sovrapposto all’intentio originale il significato dell’antica XXIV domenica dopo Pentecoste.
Concentrandosi sulla visione offerta dalla pagina di san Matteo, Papa Francesco inquadra i due gruppi che Gesù individua: coloro che hanno corrisposto al versetto 40, «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me», e quelli che lo hanno disatteso, rifiutando Cristo nel suo volto di carne.
Il Vangelo rivela come questo sia fonte di enorme stupore. «I giusti rimangono sorpresi, perché non ricordano di aver mai incontrato Gesù, e tanto meno di averlo aiutato in quel modo. […] Questa parola non finisce mai di colpirci, perché ci rivela fino a che punto arriva l’amore di Dio: fino al punto di immedesimarsi con noi, ma non quando stiamo bene, quando siamo sani e felici, no, ma quando siamo nel bisogno».
Viene alla mente l’episodio della vita di san Martino di Tours (316-97) in cui Cristo si presenta a Martino, allora solato romano, sotto le spoglie di un povero infreddolito (anonimo latino, Vita Martini, § 3) ricevendone il mantello. Il Dio incarnato si fa sorprendentemente mendicante del nostro amore perché «[…] in questo modo nascosto Lui si lascia incontrare» per rivelare compiutamente il Suo volto misericordioso.
«Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, cioè sul nostro concreto impegno di amare e servire Gesù nei nostri fratelli più piccoli e bisognosi. Quel mendicante, quel bisognoso che tende la mano è Gesù; quell’ammalato che devo visitare è Gesù; quel carcerato è Gesù; quell’affamato è Gesù». Così interpretano Mt 25 i monasteri benedettini, che fin dal secolo VI ricevono il povero e il viandante «adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità» (Regula Sancti Benedicti, LIII).
Il pauperismo mette in contrapposizione le opere caritatevoli con aspetti altrettanto importanti come lo splendore del culto. Negli antichi monasteri l’accoglienza del povero non era vissuta affatto in contraddizione con le molte ore spese nel coro a cantare l’Ufficio divino: l’uomo spirituale legge tutto sotto un unico sguardo, quello di Dio. Così, secondo il Papa, deve fare ognuno di noi nel quotidiano, poiché il Re «[…] viene a noi ogni giorno, in tanti modi» con il volto di chi ci sta accanto.