di Valter Maccantelli
Le proteste di piazza scoppiate in Iran il 28 dicembre e proseguite nei giorni seguenti causando più di 20 vittime e centinaia di arresti sono un nuovo tassello del mosaico mediorientale, sempre in rapidissimo movimento. È difficile stabilire se, come dichiarato dalle autorità, gli arresti dei primi di gennaio abbiano davvero posto fine ai disordini e in ogni caso è utile esaminare i molti elementi d’instabilità che agitano periodicamente uno dei Paesi più importanti del panorama internazionale.
Secondo molti, le proteste sarebbero semplicemente la riedizione delle cosiddette “primavere arabe” del 2011 in “salsa persiana”. Ma, pur non sottovalutando l’anelito dei giovani iraniani a maggiori spazi di dibattito e di azione, parrebbe esserci in realtà molto di più e qualcosa di diverso.
L’Iran è caratterizzato da un quadro socio-politico molto complesso che, a partire dalla cosiddetta “rivoluzione degli ayatollah” del 1979, si è articolato in un sistema politico ed economico estremamente frammentato. Il solo punto di sintesi è la figura della Guida Suprema (Velāyet-e faqīh), oggi incarnata dall’ayatollah Alì Khamenei, classe 1939, successore del fondatore della Repubblica Islamica e prima Guida, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, secondo una divisione di ruoli e di compiti istituzionali voluta dallo stesso Khomeini per facilitare la gestione centrale e personale del potere che ha funzionato fino a quando si è basata sul carisma del fondatore ma che oggi mostra la corda. Le proteste di questi giorni devono essere quindi lette sovrapponendo, in trasparenza, i diversi livelli della società iraniana e del contesto geopolitico del Medioriente.
La prima chiave di lettura, usata e abusata dai media occidentali, è quella economica. Certamente l’Iran ha difficoltà in campo economico: tra i grandi produttori di materie prime energetiche è uno dei pochi Stati “veri”, con una popolazione di 80 milioni di abitanti e un apparato di welfare molto esteso, ulteriormente accresciutosi durante il doppio mandato presidenziale di Mahmud Ahmadinejad (2005-2013) che è stato caratterizzato da forti accenti “populisti” basati su sovvenzioni sociali a pioggia. Il crollo del prezzo del greggio nel 2014, le sanzioni economiche internazionali per la questione nucleare, il sostegno militare ed economico alle milizie libanesi e yemenite hanno quindi dissanguato le casse dello stato.
In dicembre, il presidente Hassan Rouhani ‒ esponente dei cosiddetti “pragmatisti” ‒, presentando il bilancio annuale al parlamento, ha evidenziato la necessità di una stretta sulle politiche di finanziamento, specialmente quelle relative alla estesissima rete d’istituzioni religiose attive nel settore dell’assistenza, dell’educazione e della formazione del clero, il tradizionale feudo dell’ala conservatrice.
Proprio il dualismo del quadro politico iraniano, ingessato da anni nello scontro fra conservatori e pragmatisti, è la seconda chiave di lettura dei fatti di questi giorni.
È importante notare, come pochi hanno fatto, che in realtà in questo momento sono in atto almeno due diversi filoni di proteste che sembrano avere slogan e finalità piuttosto diverse. Il primo, che ha acceso la scintilla facendo esplodere pure l’altro, è partito dalla città santa di Mashhad (2 milioni e mezzo di abitanti nella provincia di Khorasan, nell’estremo nord-est del Paese). Mashhad non è una città qualunque: sede del mausoleo del veneratissimo imam Ali al-Reza (765-818), una delle residenze preferite di Khomeini, città natale di Khamenei, sede di grandi istituzioni accademico-religiose nelle quali si sono formati molti alti esponenti del clero sciita, è considerata un fortino dell’ala religiosa più conservatrice, nonché roccaforte dei fedelissimi di Ahmadinejad. Qui la rivolta sembra indirizzarsi principalmente contro le politiche economiche di Rouhani ed è probabile che siano fomentate dal fronte ultraconservatore per metterlo in difficoltà.
Da Mashhad le proteste si sono quindi diffuse, anche se in modo assai irregolare, nelle province dell’ovest e nei grandi centri urbani come Isfahan e la capitale Teheran. In queste zone hanno però preso un indirizzo diverso, meno economico e più politico-istituzionale, con slogan diretti non più contro Rouhani, ma addirittura contro Khamenei, incarnazione massima dello spirito della Repubblica Islamica. Al momento non sono chiare le dinamiche di questo secondo filone di proteste di orientamento più laico e giovanilistico, che sembrano non avere una guida unitaria o dei referenti politici. In questo caso non sembra dunque scorretto stilare il paragone, su cui molto s’insiste sui nostri giornali, con i giovani delle prime proteste in Piazza Tahrir o a Gezi Park e che, pur partite probabilmente con intenzioni genuine, hanno ben presto finito con il tirare la volata alle componenti islamiche più radicali.
La terza chiave possibile di lettura sta nel quadro geopolitico regionale e mondiale. Sembra poco probabile che i disordini siano opera diretta di “agenti stranieri”, come sostengono le autorità iraniane, ma certamente sull’altra sponda dello stretto di Hormuz in queste ore la leadership saudita, impegnata da mesi nel tentativo di destabilizzare l’avversario sciita, gongola. Potrebbe trattarsi di gioia effimera perché se quello iraniano, come alcuni sostengono, è l’inizio di un incendio sociale, i sauditi galleggiano sullo stesso mare di benzina. Il presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump twitta sul fuoco ‒ su questo punto assecondato anche dall’apparato del Dipartimento di Stato ancora ampiamente condizionato dalla gestione Obama/Clinton/Kerry e a lui mediamente poco favorevole ‒ perché vede la possibilità di regolare definitivamente, assieme agli alleati israeliani e sauditi, i conti con l’Iran. La Russia, che con l’Iran ha forti legami politici, per il momento ‒ ma forse solo per il momento – tace e certamente la Cina, che in Teheran ha una delle proprie principali fonti di approvvigionamento energetico, osserva da lontano.
È poco probabile che proteste di questo tipo, anche se dovessero protrarsi, possano sovvertire il sistema iraniano, fondato su basi istituzionali complesse ma solide e con un’opinione pubblica che, quando chiamata a esprimersi, manifesta spesso un desiderio di miglioramento, ma quasi mai la volontà di sovvertire il quadro di fondo. In questo momento il pallino è dunque in mano a Rouhani e, soprattutto, ai pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, cuore dell’anima più radicale. Se il presidente iraniano riuscirà a contenere le proteste con le sole forze ordinarie impedendo l’ingresso massiccio sulla scena dei pasdaran, tutto potrebbe rapidamente rientrare nell’alveo delle normali tensioni interne. Se invece il quadro dovesse degenerare e la gestione della repressione passasse alle componenti più dure del regime, allora il rischio di escalation, non solo interna, potrebbe crescere.
Foto da ilpost.it