di Maurizio Milano
Come abbiamo già accennato, la visione keynesiana dell’economia si traduce inevitabilmente nel crony capitalism: un “capitalismo clientelare” fatto d’intrecci malsani tra imprese e politica, che falsifica la concorrenza libera e leale, spiazza l’iniziativa privata, genera utili privati e perdite pubbliche, malversazioni, prezzi troppo elevati dei beni e dei servizi prodotti, investimenti cattivi e allocazioni erronee delle risorse. È insomma una distorsione perversa dell’economia di mercato che danneggia le imprese sane, i consumatori, i contribuenti, i poveri e gl’indifesi, in primis i giovani e le famiglie con figli.
In Italia, la disoccupazione si aggira su valori molto elevati: circa l’11% contro una media dell’area euro di circa il 9%. Siccome la moneta cattiva scaccia la moneta buona, le imprese e i giovani più validi si trasferiscono sempre più all’estero, inaridendo le fonti stesse della ricchezza nazionale e diminuendo le opportunità per tutti. La fuga dalla responsabilità e la conseguente abdicazione alla libertà diffondono poi una mentalità parassitaria e assistenzialistica, incline all’invidia sociale: non si pensa più a “creare”, bensì solo a “ridistribuire” – emblematico a proposito è il “reddito di cittadinanza” –, riducendo sempre più le dimensioni della torta da spartire. Con il panem et circenses si corrompono le “virtù” di un popolo: si atrofizzano la laboriosità e la creatività imprenditoriale, l’austerità e la tensione al risparmio/investimento, s’incentiva il consumismo facendo evaporare il ceto medio, avvizzire il benessere materiale e crescere la conflittualità sociale. La crisi delle social-democrazie occidentali, accelerata dal suicidio demografico in atto, deve far prendere coscienza, prima che sia troppo tardi, della fine del paradigma di “crescita a debito” e dell’inevitabile fallimento dei sistemi socio-economici para-socialisti.
Se non ci sono facili scorciatoie, come fa allora un Paese a crescere “realmente” e nel lungo termine? Come si può uscire dall’impasse di una crisi economico-finanziaria in essere da un decennio e mai risolta, checché ne dicano governi e media?
«Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gn 3,19): questa è e rimane, ahinoi, la condizione dell’uomo post-peccatum. Come insegna la Scuola austriaca di economia, la crescita autentica non nasce da alchimie contabili-finanziarie, ma si sviluppa sempre e solo a partire dal lavoro e dal risparmio, attraverso un lento processo di accumulazione di capitale, non solo materiale ma anche di conoscenze, catalizzato dall’iniziativa imprenditoriale, che fa salire produttività e salari reali realizzando beni e servizi utili alle famiglie. Un processo che parte dal basso, spontaneamente e senza pianificatori centrali, in cui il sistema dei prezzi e la concorrenza orientano le scelte di consumo, risparmio e investimento dei vari attori economici con una moneta sana e bilanci pubblici in pareggio.
Non una crescita anarchica, ovviamente, ma lo sviluppo organico di un’«[…] economia libera», con un mercato efficiente inserito all’interno di un «[…] solido contesto giuridico», come insegnava Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005) nella lettera enciclica Centesimus Annus del 1991; una libertà espressione di un tessuto sociale articolato e vitale, con un ruolo dello Stato limitato a pochi, importanti compiti, secondo una logica di sussidiarietà, come auspicava Papa Pio XI (1922-1939) nell’enciclica Quadragesimo Anno del 1931 (cfr. nn. 80-81). Il focus non è sul “consumo” – che la visione keynesiana vorrebbe “stimolare” – bensì su lavoro, risparmio e investimenti, con la famiglia e i corpi intermedi protagonisti del dinamismo economico e sociale, nella prospettiva «tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario».
Che fare, quindi? Premesso che non esistono cure semplici e veloci per mali gravi e cronicizzati – meglio non farsi illusioni, siamo dentro una crisi generazionale –, l’unica strada percorribile parte dal “meno spese & meno tasse”, insieme, per riportare i conti sotto controllo e far dimagrire il Moloch pubblico, riducendo l’humus su cui proliferano le caste e le lobby specializzate nell’“assalto alla diligenza” della ricchezza del Paese. Se si vuole davvero ricuperare la piena sovranità dell’Italia in Europa, si deve risolvere anzitutto questa criticità: un compito da statisti, certamente, ma del tutto simile a quanto farebbe un qualsiasi buon padre, che si sacrifica per far quadrare entrate e uscite del bilancio familiare senza illudersi di poter vivere indefinitamente al di sopra dei propri mezzi per lasciare i propri debiti in eredità ai figli.
Il prossimo Governo italiano, se vorrà davvero rilanciare la crescita e l’occupazione, dovrà inevitabilmente ridurre la confiscatoria imposizione fiscale che ci opprime, affrontando seriamente il nodo gordiano della spesa pubblica: bisogna partire tagliando almeno una ventina di miliardi di euro annui. Serviranno idee chiare, e poi velocità e inflessibilità nell’applicarle. In caso contrario, i vari gruppi d’interesse che, come spiega l’economista statunitense Milton Friedman (1912-2006), compongono il cosiddetto “triangolo di ferro” – i beneficiari delle politiche precedenti, i burocrati che prosperano su questi, i politici demagoghi in cerca di voti – si coalizzeranno ed eserciteranno il proprio potere di veto, intralciando ancora una volta e in ogni modo l’operato del nuovo esecutivo (cfr. La tirannia dello status quo, trad. it., Longanesi, Milano 1984, p. 53). Un “blocco sociale” che dal 1994 si è visto tristemente all’opera più volte per affossare sul nascere i tentativi di riforma dei vari governi di Centrodestra presieduti dall’on. Silvio Berlusconi. Una cosa il futuro governo non deve fare: cedere alle lusinghe del “partito della spesa pubblica”, avviando la carrozza italiana al Paese dei Balocchi. Le orecchie lunghe non si farebbero attendere, la fatina buona non è in vista e non ci si può certamente fidare del “Grillo” parlante. Potrebbe infatti finire molto male.
Martedì, 6 marzo 2018, Beata Rosa da Viterbo