«La specie che sopravvive non è quella più forte, ma quella che si adatta meglio. Quindi noi siamo dentro democristiani, un po’ di destra, un po’ di sinistra e un po’ di centro, possiamo adattarci a qualsiasi cosa quindi vinceremo sempre noi sul clima, sull’ambiente, sulla terra». Queste parole di Beppe Grillo, riferite al Movimento 5 Stelle, danno la misura abbastanza esatta di cosa sia lo strano agglomerato politico che ha preso oltre il 30% dei voti espressi dal 73% dell’elettorato italiano.
L’epoca delle ideologie è veramente alle spalle. Il primo partito italiano è così post-ideologico da usare le ideologie del passato per annunciare il trasformismo totale. Se potesse vedere la scena della politica attuale, il padre del trasformismo, Agostino Depretis (1813-1887), certamente incoronerebbe Luigi Di Maio proprio erede.
Si dovrà studiare e capire chi siano i 5 Stelle e cosa preparino per il Paese. Ma quello che è certo è che se non si hanno idee, di alcun tipo, neppure quelle idee sbagliate che tanti danni hanno prodotto nella storia, rimane il potere, soltanto il puro esercizio del potere, magari in nome dell’“onestà”, che non può peraltro essere l’unico volto con cui presentarsi all’elettorato. A meno di non volersi riferire ai progetti esoterici attribuiti, prima della sua morte, all’altro guru del movimento, Gianroberto Casaleggio (1954-2016).
Il movimento politico fondato da Grillo insiste sull’aspetto post-ideologico. Su la Repubblica , Di Maio ha scritto: «Il voto ha ormai perso ogni connotazione ideologica. I cittadini non hanno votato per appartenenza o per simpatia, hanno votato per mettere al centro i temi che vivono nella propria quotidianità e per migliorare la propria qualità di vita». Vero e in parte giusto. Non si tratta di tornare alle ideologie. Queste hanno cercato di cambiare la realtà, imponendo una visione del mondo concepita da uomini che del reale esasperava un aspetto. La nazione è divenuta nazionalismo, la classe si è tramutata in comunismo e in dittatura del proletariato, la libertà separata dalla verità ha prodotto invece il dispotismo del desiderio.
Non si tratta di inventare idee, ma di ritornare al reale: e la realtà dice che l’Italia muore perché non nascono più bambini, perché uccidere i concepiti è diventata una legge e una abitudine, perché la famiglia non viene né protetta né valorizzata, perché al posto di promuovere il lavoro viene proposto il reddito di cittadinanza con i soldi che non ci sono. Ora, i 5 Stelle nulla dicono a proposito di questi temi reali; e quando vengono invitati a parlare d’inverno demografico, si sottraggono, come è avvenuto durante quest’ultima campagna elettorale.
Osserviamola, dunque, questa “espressione politica” del relativismo o, forse meglio, della rete, che governa importanti città e che potrebbe guidare il Paese, che rifiuta i vecchi schemi destra-sinistra, fascismo-antifascismo, per prendere voti a destra e a manca, sfruttando la protesta e la disperazione di chi è senza lavoro al Sud, ma ottenendo risultati significativi anche in altre parti d’Italia.
Probabilmente si tratta di un voto che nasce dalla disperazione, soprattutto al Sud: le abbiamo provate tutte negli ultimi 50 anni, dalla proposta politica dell’armatore Achille Lauro (1887-1982) al Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante (1914-1988), dal PCI alla DC, e non abbiamo ottenuto nulla. Perché non provare con chi ci offre uno stipendio?
Si deve però fare attenzione a non giudicare questa forza politica, e soprattutto chi l’ha votata, con le categorie della modernità. Siamo di fronte alla disperazione nichilista dell’epoca post-moderna, siamo di fronte al relativismo: cerchiamo di capire e di agire perché non diventi una «dittatura del relativismo», per usare le celebri parole del card. Joseph Ratzinger nell’omelia precedente il Conclave dal quale uscì Benedetto XVI.
Un’altra storia è invece il voto alla Lega: nasce dalla speranza di potere estendere il buon governo di Lombardia e Veneto al resto d’Italia. Ma ne parleremo fra qualche giorno.
Marco Invernizzi
Venerdì 9 marzo 2018, Santa Francesca Romana