di Michele Brambilla
La mattina della II domenica di Pasqua (8 aprile), che per decisione di Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005) dall’anno 2000 è diventata la festa della Divina misericordia, così come richiesto da Cristo stesso durante le apparizioni a santa Faustina Kowalska (1905-1938), Papa Francesco torna a radunare sul sagrato di San Pietro i “missionari della Misericordia”, inviati in ogni continente durante il Giubileo straordinario del 2016. Il mondo, infatti, si dimostra ancora molto bisognoso del loro ministero, come secondo il Pontefice dimostrano le numerose tragedie a cui egli accenna a margine della recita del Regina coeli (particolarmente forte l’appello per la pace in Siria).
Il tanto male che attraversa il globo non offusca, ma casomai amplifica il desiderio di una salvezza tangibile. Il verbo fondamentale della pagina di Vangelo offerta dalla liturgia (cfr. Gv 20,19-31) è non a caso “vedere”. «Nel Vangelo odierno ritorna più volte il verbo vedere: “I discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20); poi dissero a Tommaso: “Abbiamo visto il Signore” (v. 25). Ma il Vangelo non descrive come lo videro, non descrive il Risorto, evidenzia solo un particolare: “Mostrò loro le mani e il fianco” (v. 20). Sembra volerci dire che i discepoli hanno riconosciuto Gesù così: attraverso le sue piaghe. La stessa cosa è accaduta a Tommaso: anch’egli voleva vedere “nelle sue mani il segno dei chiodi” (v. 25) e dopo aver veduto credette (v. 27)».
I cattolici del secolo XXI devono ringraziare l’incredulità dell’apostolo Tommaso perché ‒ ha detto il Santo Padre nell’omelia alla Messa celebrata il mattino ‒ «[…] non si è accontentato di sentir dire dagli altri che Gesù era vivo, e nemmeno di vederlo in carne e ossa, ma ha voluto vedere dentro, toccare con mano le sue piaghe, i segni del suo amore». Le ferite della crocifissione, rimaste impresse sul corpo del Risorto, ricordano che sulla croce Gesù si è preso carico delle sofferenze di ogni uomo. «Entrare nelle sue piaghe è contemplare l’amore smisurato che sgorga dal suo cuore. Questa è la strada. È capire che il suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi. Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di vedere Gesù toccando il suo amore». Il vocabolo latino “misericordia” unisce il verbo “miserere” (avere pietà) al sostantivo “cor” (cuore): Dio si china su di noi con tutto Se stesso.
Tuttavia questo amore trova spesso delle resistenze, la più tenace delle quali è la rassegnazione. «La rassegnazione sempre è una porta chiusa. L’hanno sperimentata i discepoli […]. Anche noi possiamo pensare: “Sono cristiano da tanto, eppure in me non cambia niente, faccio sempre i soliti peccati”. Allora, sfiduciati, rinunciamo alla misericordia». Sull’onda della sfiducia “cosmica” nei confronti di noi stessi il peccato (qualsiasi sia la sua entità) diventa spesso una «porta blindata» davanti alla Grazia. «Ma quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose. C’è una trasformazione: la mia misera piaga assomiglia alle sue piaghe gloriose. Perché Egli è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie». Scrive dritto pure sulle righe storte.