Bertrand di Orleans e Bragança, Quaderni di Cristianità, anno I, n. 1, primavera 1985
Il 19 maggio 1984, S. A. I. e R. il principe don Bertrand di Orleans e Bragança — fratello di don Luiz, capo della Casa imperiale brasiliana — è intervenuto alla 2a Conferenza di Studi Monarchici, che si è tenuta a Toronto cotto gli auspici della Monarquist League of Canada, svolgendo una relazione. La traduzione del testo originale in francese, dattiloscritto e fotocopiato, è di Giovanni Cantoni. Il titolo è redazionale.
Considerazioni sullo svolgimento dell’istituto monarchico nell’occidente cristiano dal Medioevo all’Evo Moderno
La «regalità medioevale» evoca enormi ricchezze istituzionali, giuridiche, storiche e culturali. Si tratta di ricchezze che sarebbe opportuno richiamare in questa sede tanto più che, pure essendo conosciute dagli specialisti della storiografia contemporanea, rimangono per la maggiore parte sempre nascoste agli occhi del grande pubblico a causa delle omissioni e delle menzogne che, a partire dalla Rivoluzione francese, hanno intossicato la pubblica opinione a proposito di quasi tutto quello che concerne il passato dell’istituto monarchico nell’occidente cristiano.
Nella impossibilità di abbracciare in questa occasione un argomento tanto vasto, mi sia permesso rilevare soltanto qualcuno dei caratteri della monarchia medioevale, quelli consuetamente più ignorati da parte del grande pubblico.
Anzitutto tengo a sottolineare il fatto che la monarchia medioevale era una istituzione eminentemente organica, cioè che essa non si è instaurata in nessun luogo grazie a conciliaboli di specialisti sapienti e ricchi di esperienza. È un fatto che importa notare perché, molto spesso, gli specialisti, proprio a causa di questa loro qualità, volano molto al di sopra del paese e diventano — da un certo punto di vista — estranei alla popolazione.
Il senso generale dei popoli — che comprende naturalmente anche i sapienti — pendeva verso la monarchia. Si presentava al loro spirito come una evidenza prima e per così dire istintiva il fatto che il coordinamento e la gestione degli interessi specifici e sommi della collettività dovessero incombere a una unica guida, più o meno come è naturale per l’uomo contemporaneo comprendere che l’insieme meccanico di una automobile è subordinato a un solo volante e suppone un solo autista. Quando san Tommaso di Aquino e i grandi luminari del pensiero medioevale, di cui egli era il sole, giunsero a una giustificazione delle tre forme di governo, la totalità oppure la quasi totalità degli argomenti a favore della monarchia esprimevano solamente questo generale consenso che fu alla origine di quel grande e glorioso fatto compiuto costituito dalla esistenza delle numerose regalità in Europa. Queste l’hanno spinta fino al secolo scorso e alcune sono sopravvissute vigorosamente alla tormenta rivoluzionaria, e fra esse più di ogni altra, cari amici canadesi, la vostra, alla quale esprimo subito l’omaggio di tutta la mia simpatia e di tutta la mia stima.
Il pensiero medioevale, sia quello del popolo che quello scolastico, non ha mai patito una specie di monomania simile a quella monomania repubblicana che sta invadendo il mondo dal 1789. Con la stessa naturalezza con cui la maggiore parte delle grandi e delle piccole nazioni medioevali si costituiva in una forma monarchica ed ereditaria, nelle città libere che sono fiorite sul territorio del Sacro Romano Impero Germanico, nella galassia di piccoli Stati municipali svizzeri, nella struttura politica così diversa e così degna dei territori oggi abbracciati dai regni di Belgio e di Olanda, così come in Italia, si costituirono repubbliche sia aristocratiche che democratiche, nel senso medioevale del termine. E questo ebbe risultati politici, sociali ed economici degni di plauso.
Tuttavia questo fatto non impediva che, anche nelle coscienze degli abitanti di queste unità repubblicane, restasse il convincimento che la forma di governo-modello, propria naturalmente dello Stato costituito in tutta la misura della sua grandezza, fosse la monarchia.
Mi si permetta di insistere. Si ammirava la monarchia per istinto e per buon senso, come pure per riflessione e per ragione. E questo anche quando le circostanze concrete portavano qualcuno a desiderare per un paese una forma di governo non monarchica.
Per riassumere e per passare a un’altra caratteristica della monarchia medioevale, si era monarchici combinando operazioni mentali sane, elementari e tuttavia assimilabili da parte della cultura la più elevata. Allo stesso modo di come si è monarchici per quanto concerne il regime interno della famiglia, dal momento che si riconosce, si venera e si ama il padre come il proprio capo naturale.
Sì, la monarchia medioevale era familiare. Si trovava naturale che, secondo il vecchio proverbio, come il padre è il re dei suoi figli, il re fisse il padre dei padri. Questo ci porta a prendere in considerazione il suo carattere familiare.
Questa monarchia vitalizia ed ereditaria, così denigrata dai rivoluzionari del secolo XVIII e da quanti sono loro succeduti fino ai nostri giorni, sembrava naturale all’uomo medioevale come la continuità di caratteri genetici, della tradizione, del nome e del patrimonio all’interno di una stessa famiglia. La continuità aveva per i nostri antenati un fascino che si perde ai nostri occhi di vassalli —,forse non sarebbe esagerato dire di schiavi — del turbine scatenato del mondo moderno. Le novità? Certamente, l’uomo medioevale le amava, ma come frutti dell’albero enorme e opulento della tradizione.
La continuità era tenuta in conto di condizione di una certa sapienza senza la quale i popoli potevano forse essere bene amministrati, ma mai governati bene. Si tratta di una sapienza che i soli studi dei saggi, per quanto siano splendidi e rispettabili, non bastavano a conferire loro. Essi la potevano comprendere e ammirare meglio di chiunque altro, ma non è loro dato di generarla da sé stessi.
Si tratta di quella forma di sapienza, frutto della continuità, della amorosa identificazione dell’uomo con la sua funzione nel corso di tutta una vita, nel corso dell’ampia successione di vite che caratterizza le dinastie. Questa continuità conferisce, con la forza discreta e potente del passato, una certa sapienza che si trova perfino nel semplice buon senso dell’uomo medio.
L’uomo medioevale apprezzava tanto questa continuità che ne fece un principio di molte organizzazioni professionali, estendendo la successione ereditaria non soltanto alla nobiltà militare e terriera, ma anche alle stirpi degli artigiani, come quelle degli orologiai, e perfino alla condizione degli umili — e, per altro, quanto degni di simpatia! — come coloro che lavoravano la terra con le proprie mani.
La caratteristica paterna della autorità regale si faceva sentire nello Stato medioevale non soltanto attraverso l’imperium che sottomette legittimamente i più piccoli ai più grandi, in vista del bene comune, ma anche attraverso il servitium. In quanto padre il re dà ordini. La sua autorità non ha nulla delle debolezze che, nei nostri Stati contemporanei, hanno dato luogo a tante disfatte. Tuttavia il re-padre associa a sé, di buon grado, quelli fra i suoi figli che hanno raggiunto una maturità sufficiente per partecipare in modo armonioso alla gestione degli interessi familiari. Parlamenti, stati generali, diete, corti oppure consigli, bene accetti e anche tenuti in elevata considerazione dai re, sono nati e hanno avuto una influenza sempre più grande nella Europa cristiana. Fra i re e queste assemblee rappresentative vi erano sia collaborazioni che tensioni; tuttavia, senza la gelosia e la diffidenza aggressiva quasi istituzionale che si sono manifestate in Inghilterra durante il tragico regno di Carlo I, e in Francia al tempo di Luigi XVI, fino a diffondersi alla fine in modo quasi epidemico a una grande parte delle monarchie europee dei secoli XIX e XX.
L’autorità suprema accettava la rappresentatività come un completamento equilibrato e non come manette umilianti. Gli organismi rappresentativi vedevano nel servizio al re — personificazione della nazione — la loro stessa ragione di essere.
Proprio il senso di servitium si manifestava in’ modo più specifiico in ciò che è stata una terza caratteristica della monarchia medioevale, cioè la sussidiarietà. Il re medioevale non era monopolizzatore. Suscitava di buon grado i corpi autonomi nel suo paese. Li vedeva crescere e moltiplicarsi con una compiacenza paterna, come il pastore devoto che non teme per il suo potere, ma, assolutamente al contrario, si sente felice e arricchito contemplando la crescita e il moltiplicarsi delle sue pecore. Da questo lo straordinario e vitale fiorire ed espandersi di autonomie federali, municipali, universitarie e corporative che caratterizzavano la monarchia medioevale e delle quali alcune costituiscono ancora oggi, e a giusto titolo, ragione di fierezza del Regno Unito.
Le cose andavano a tale punto in questo modo che, quando all’interno di uno di questi corpi si sviluppava qualche sintomo di debolezza oppure di disgregazione sì che non poteva esservi posto riparo ad intra dal corpo stesso, le autorità di tale organismo chiedevano al re-padre di fare uso del suo potere supremo e di ristabilire l’ordine all’interno di questo organismo. E il re-padre interveniva, non per esercitare sull’organismo in difficoltà una azione «colonialistica» che ponesse termine alla sua autonomia, ma, al contrario, per preservare questa stessa autonomia, ponendo tale organismo nelle condizioni di vivere senza lasciarsi annientare dalla anarchia. Si manifestava la funzione paterna e sussidiaria della Corona.
«Colonialismo» è usato in questa occasione in antitesi a «paternalismo». Quando penso alla funzione tanto altamente simbolica e morale della regalità nel Commonwealth britannico, mi balza agli occhi il carattere tradizionalmente paterno che questa regalità ha saputo conservare attraverso i secoli. Ecco il bell’esempio di elevatezza spirituale, di intelligenza politica e di personalità nazionale che il vostro Canada offre al mondo. Esso, infatti, si appresta a superare i confini del secolo XX sempre più forte, più potente e più rispettato fra gli altri popoli, sempre più fedele — oserei anche dire cavallerescamente ed elegantemente fedele — al dolce legame paterno, glorioso e così ricco di forza unitiva che si esprime oggi nella personalità mirabile da numerosi punti di vista di Sua Maestà la Regina Elisabetta II.
Nessuno di noi ignora che dalle profondità oscure del mondo contemporaneo, da cui soffiano ovunque i venti del dubbio, della negazione e della rivolta, escono voci ostili alla parola «paternità». Non perdiamo tempo ad analizzarle in questa sede. Non mi sembra neppure che lo meritino. Dove la parola «padre», e il suo nobile complemento, la parola «madre», sono viste di mal’occhio, si bestemmia implicitamente contro la legge di Dio, che ci ordina di onorare il padre e la madre.
In questo rapido abbozzo, come ho già detto, intendo mettere in risalto solamente qualche tratto fra quelli più dimenticati oppure taciuti della regalità medioevale. Questi tratti sono scomparsi dalla regalità durante l’Evo Moderno? Non lo credo. Il robusto tronco monarchico cristiano ed europeo non poteva perdere così rapidamente e così facilmente caratteristiche essenziali.
Tuttavia lo scontro di molteplici fattori religiosi e filosofici, culturali, politici, sociali, economici e anche di altra natura, che hanno segnato il passaggio dal Medioevo all’Evo Moderno, ha portato, tra l’altro, al declino della fede e, con essa, del distacco personale. A lutti i livelli della scala sociale, al desiderio tradizionale della eterna beatitudine si è venuto sovrapponendo il desiderio di una vita terrena felice. I navigatori, i guerrieri e i primi pionieri ai quali il mio Brasile lontano e caro deve la sua origine, come il vostro Canada nel quale ho la gioia di trovarmi ora, e l’intero continente americano, venivano qui proclamando il loro desiderio di espandere la Cristianità. Tuttavia, nello stesso tempo, nelle loro anime era esplicito il desiderio di arricchimento nazionale e individuale. Si tratta di un desiderio indiscutibilmente legittimo, ma che avrebbe conservata la sua dimensione vera soltanto se, in proporzione alla sua crescita, fosse aumentata anche la fedeltà a Dio e alla sua legge. Sappiamo bene che, in questo campo come in tanti altri, sempre di più è accaduto il contrario, e questo fatto ha profondamente modificato la fisionomia dell’Europa. Chiaramente, questa non è stata l’unica modifica. Né si può ugualmente pretendere che tutte le modifiche introdotte allora siano state cattive. Ma nell’animo tanto degli individui che dei popoli, la espansione dell’egoismo può essere paragonata a quella di un gas tossico. Esso penetra ovunque, distrugge molte cose ed esercita una, certa azione malefca perfino su quanto non si era lasciato annientare.
Nella società e negli Stati europei questa ipertrofia dell’egoismo si fece sentire profondamente, sfigurando, per esempio, la immagine del re-padre, dell’imperium, e del servitium, dei corpi autonomi, e cosi via.
Era iniziata l’età dell’assolutismo. Essa avrà termine solo con il secolo XVIII, all’epoca delle rivoluzioni.
Non pretendo, con la descrizione che mi appresto a fare, di tracciare un quadro completo della evoluzione dell’Evo Moderno, ma soltanto delle trasformazioni che si sono succedute nell’istituto monarchico a causa della perdita di alcune fra le sue caratteristiche più profonde.
Sant’Agostino divideva gli uomini in due grandi categorie: la prima era costituita da quanti portano l’amore a Dio al punto di dimenticare sé stessi; e l’altra da quanti portano l’amore di sé stessi al punto di dimenticare Dio. Il mondo seguente il Medioevo, essendo lavorato dai fermenti di decomposizione delle grandi rivoluzioni del secolo XVI, ha sempre più abbandonato la prima categoria per entrare nella seconda. In ciascuno dei membri dell’ordine antico si faceva sentire una forte tendenza alla propria ipertrofia. Quella che è stata definita l’anarchia, feudale del Medioevo al tramonto ha costituito, infatti, la rivolta ipertrofica di ciascuno dei gradi della gerarchia nobiliare. Questa anarchia ha portato al suo punto culminante la rivolta contro i re. Questi ultimi, per potere sopravvivere, si sono visti obbligati a rafforzare i loro stessi poteri e ad ampliare anche la potenza della Corona. Benché assolutamente legittimo, questo movimento di autodifesa si è rapidamente mescolato a una tendenza alla ipertrofia del potere regale. Riducendo gli attributi della nobiltà a proporzioni esigue, le autonomie regionali, municipali e corporative non avevano più da sé stesse i mezzi di difesa sufficienti. A poco a poco la Corona si mise a divorare tutte le autonomie. Questo, a mio modo di vedere, non differisce molto dal divorare il proprio paese. Si era instaurato l’assolutismo regio: fecondo e anche trionfale per certi aspetti, ma anche autentica sanguisuga di ogni vitalità e presenza opprimente e inaccettabile per altri aspetti. Invece di essere come un albero che, con i suoi rami, protegge tutta la vegetazione che spunta attorno a sé, la regalità assolutistica può essere paragonata a un altro albero che, per crescere oltre misura, assorbe la ricchezza del suolo, di cui viveva la vegetazione circostante. Albero gigantesco, senza dubbio alcuno. Può simboleggiare in modo adeguato il despota illuminato. Tuttavia, albero fatale all’equilibrio ecologico: cioè, passando dalla metafora alla storia, la regalità assoluta è stato un fattore quasi onnipotente di rottura dei vecchi equilibri nazionali organici.
Da ciò, una mancanza di sicurezza, il malcontento, le rivendicazioni più spinte. Lo Stato monarchico onnipotente con attorno a sé il caos, e ai suoi piedi tutto un terreno che cominciava a smuoversi.
Iniziava l’epoca delle rivoluzioni. Anzitutto, la Rivoluzione francese e i suoi molteplici corollari in altri paesi, toglievano la corona allo Stato, sia abbattendo la monarchia, sia riducendola a una semplice funzione di rappresentanza … Il simbolo sacro e venerato del potere fu parzialmente — oppure completamente — ridotto a un oggetto archeologico per gli eruditi oppure di bigiotteria per i mondani.
Come aveva fatto in altri tempi l’anarchia feudale nei confronti dello Stato monarchico, le rivoluzioni liberali si misero a scuotere e a corrodere le repubbliche senza corona e laicizzate del secolo XIX. Come i re ipertrofici dei secoli dell’assolutismo, anche queste repubbliche hanno messo in moto un processo di ipertrofia; e questo ci ha condotto all’epoca dello Stato repubblicano tecnocratico, burocratico, dirigistico, a oltranza.
Se l’imperialismo russo non giunge a conquistare il mondo, la dinamica totalitaria del dirigismo «illuminato», cioè, nel linguaggio del secolo XX, del dirigismo tecnico e burocratico, finirà per condurci di per sé a una fine simile.
Signori, il mio compito in questo congresso tanto degno di simpatia e ricco di avvenire, si limita a questo quadro che vi ho appena descritto e che avrei auspicato più breve. Ho parlato del passato e del presente. Anche del futuro immediato, che comincia già a divorarci. Andrei oltre i limiti naturali del mio tema se vi parlassi di un futuro un poco più lontano, cioè della disgregazione anarchica che i comunisti sperano di potere raggiungere nell’ordine, sotto il segno della ecologia e attraverso il lavoro di una umanità improvvisamente trasformata con «un brusco salto qualitativo» di natura tanto enigmatica che la direi anche quasi cabalistica. Si tratta di utopie, di chimere relative a una umanità smarrita e che non giunge a trovare un riposo illusorio per le tensioni e i disordini attuali, se non in sogni deliranti.
Come risparmiare alla umanità queste ultime aberrazioni, queste umiliazioni somme?
I mali possono essere arrestati ed evitati soltanto facendo cessare le cause che li hanno provocati. Abbiamo visto come uno degli elementi più dinamici e più profondi di questa crisi sia stata la decadenza religiosa che ha degradato la fine del Medioevo. Oggi — vogliate scusare questo passaggio brusco da un argomento a un altro — la crisi che deriva da questo fattore è penetrata fino negli ambienti e nelle istituzioni che essa aveva perseguitato nel modo più crudele. Il principe repubblicano, socialista e anche comunista comincia a diventare abbastanza frequente. In tutte le religioni che si gloriano del nome di Gesù Cristo si moltiplicano i chierici atei.
È necessario, dunque, che una profonda restaurazione della fede sia il punto di partenza di tutti gli altri movimenti rigeneratori di cui il mondo ha tanto bisogno.
Io sono cattolico, apostolico, romano praticante non soltanto per la cara tradizione delle Case da cui provengo, ma anche per convinzione personale, radicata nel più profondo del mio essere, e auspico di tutto cuore questo recupero religioso per la mistica Sposa del nostro Signore Gesù Cristo. Lo auspico anche per il mio Brasile, del quale non posso pronunciare il nome, nel corso di questa esposizione, senza amore e senza ammirazione. Lo auspico anche per questo Canada, per il quale provavo simpatia già da lontano e il cui contatto personale mi ha insegnato ad ammirare e ad amare ancora di più.
La vostra associazione, Signori, è una di quelle dalle quali ci si può attendere una azione salutare, che può frenare la corsa del mondo verso l’abisso. Essa comporta la affermazione di un principio che ha raggiunto tutto il suo splendore durante i secoli di .fede e che, per altro senza anacronismi, presenta molto di questo splendore nell’atmosfera del Canada di oggi, e, se Dio vuole, del Canada di domani, del Canada di sempre.
Signori, continuate a lottare in modo degno di lode. Siate. con la protezione di Dio, coronati da successo. I miei auguri e le mie preghiere vi accompagneranno.
Bertrand di Orleans e Bragança