Jean-Claude Chesnais, Quaderni di Cristianità, anno II, n. 5, estate-inverno 1986
Avraham Sifrin è nato a Minsk, in Bielorussia, nel 1923, da una famiglia di origine ebraica. Presto trasferito a Mosca, vi è vissuto fino al 1941, compiendovi gli studi primari e secondari e iniziandovi i corsi di giurisprudenza all’università. Arruolato quindi nell’Armata Rossa, ha preso parte attiva alle operazioni della seconda guerra mondiale. Suo padre, Isaak Sifrin, era stato arrestato per aver scherzato a proposito di Stalin, ed era morto dopo dieci anni di internamento in un campo di lavori forzati. In quanto figlio di un forzato, Avraham Sifrin è stato assegnato a un battaglione di disciplina. Ferito due volte al fronte, è stato congedato con il grado di ufficiale. Dopo la guerra ha concluso gli studi universitari ed è divenuto consulente legale presso il ministero della Difesa. Nel 1953 è stato arrestato e condannato a morte per attività antisovietiche, pena successivamente commutata in venticinque anni di prigione. Rilasciato dopo dieci anni di internamento e quattro di confino, è diventato l’avvocato degli ebrei sovietici desiderosi di emigrare in Israele. Nel 1970 è stato lui stesso autorizzato a emigrare e attualmente vive in Israele, dove dirige il Centro di Ricerche sulle Prigioni, le Prigioni Psichiatriche e i Campi di Lavori Forzati dell’URSS.
Nel febbraio del 1973 è stato chiamato a testimoniare sui Lager sovietici davanti alla sottocommissione d’Inchiesta sull’Applicazione del Decreto e di Altre Leggi di Sicurezza Interna della Commissione Giustizia del Senato degli Stati Uniti, e la sua deposizione è stata raccolta in volume (cfr. U.S.S.R. Labor Camps, U.S. Government Printing Office, Washington 1973; trad. francese, Les Camps de Travail en U.R.S.S.. Éditions des Catacombes, Courbevoie 1975; trad. it., I campi di lavoro in URSS, con una Presentazione di Sergiu Grossu, Edizione Paoline, Roma 1976).
Nel 1980 ha preparato, in russo, Putevoditel’ po lagerjam, tjurmam i psikhiatricheskim tjurmam v SSSR, «Guida ai campi di concentramento, alle prigioni e alle prigioni psichiatriche in URSS», edita in Svizzera sia in inglese che in francese (cfr. The First Guidebook to the URSS, to Prisons and Concentration Camps, Stephanus-Edition, Seewiss/GR 1980; e L’URSS: sa 16ème république. Premier guide des camps de travail et des prisons en Union Soviétique, ibidem).
Jean-Claude Chesnais, ricercatore presso l’Institut National d’Études Démographiques e autore di Histoire de la Violence (Laffont, Parigi 1981; nuova ed., Hachette, Parigi 1982), ha recensito tale guida nell’edizione in inglese e l’ha sottoposta a una sorta di perizia, confrontandone i dati con l’analisi demografica applicata alle statistiche ufficiali dell’URSS, nello studio Le Goulag a-t-il disparu?, in Politique Internationale, n. 33, autunno 1986, pp. 263-271, che viene ripreso con la cortese autorizzazione della direzione della rivista (11, rue du Bois de Boulogne 75116 Paris – tel. 45.00.15.26). La traduzione dal francese è di Marco Invernizzi.
Il GULag è scomparso?
Nonostante la massa di pubblicazioni a essa dedicata, l’Unione Sovietica rimane, in larga misura, terra incognita dal momento che, escludendo qualche piccola enclave, il suo territorio è ancora inaccessibile per il visitatore straniero (1). Quindi come stupirsi del carattere appassionato, perfino fantasmagorico, delle discussioni che suscita?
Per la sua stessa natura, il GULag è al centro delle polemiche più vivaci sviluppatesi attorno al regime sovietico, e questo fatto rende molto difficile distinguere fra la realtà e la finzione. Gli archivi dell’amministrazione penitenziaria sono — si presume — oggetto della massima segretezza; ogni informazione può essere ottenuta solamente in modo indiretto. A fortiori, ogni tentativo di valutazione globale del fenomeno concentrazionario necessita di uno sforzo di raccolta di dati e di verifica accurata. Se la precisione assoluta di questa attività è illusoria, in compenso il rigore è possibile.
Tre idee sono profondamente radicate nell’opinione pubblica occidentale: 1. il GULag è un’istituzione staliniana ormai appartenente al passato; 2. supponendo che questo fenomeno esista ancora, occupa ormai un posto marginale; 3. in ogni caso, i prigionieri politici vi costituiscono assolutamente una minoranza.
Simili convinzioni non sono fondate: nessuna di esse resiste all’analisi sia statistica che geografica oppure storiografica. Infatti, in questo campo, tutte le informazioni raccolte da fonti indipendenti concordano: il GULag è nato nel 1918; ha conosciuto il suo apogeo durante il periodo dal 1937 al 1953; poi è regredito — senza tuttavia mai scomparire — durante l’era di Krusciov; ma, da una ventina danni, tende a ritrovare un ruolo che aveva perduto.
Le prove dell’esistenza del GULag
Quando si tratta del passato, l’esistenza del GULag è ammessa unanimemente. D’altra parte, essa è stata riconosciuta per due volte dallo stesso regime sovietico: nel 1932, i documenti ufficiali fanno stato di circa 3 milioni di prigionieri messi al lavoro forzato in campi di concentramento; e, nelle sue Memorie, Krusciov parla a lungo del GULag e dei «milioni» di detenuti a cui ha restituito la libertà. Ma si sa che, di fatto, il GULag è precedente a Stalin, che è stato istituito da Lenin solo qualche mese dopo la Rivoluzione d’ottobre — istruzione del 23 luglio 1918, relativa all’istituzione del lavoro forzato — e che, contrariamente alle affermazioni di Krusciov, non è mai completamente scomparso?
La popolazione dei campi non è mai scesa sotto i 2,5 milioni di detenuti (2). Secondo la stima, considerata molto prudente, della Commissione d’inchiesta britannica, i cui risultati sono stati comunicati alle Nazioni Unite nel 1950, 10 milioni di persone svolgevano allora lavori forzati. In realtà la popolazione dei campi era molto superiore. Secondo le testimonianze di alcuni alti responsabili sovietici — fra cui Kravtchenko — e di numerosi capi dell’NKVD, arrestati a partire dal 1938 e che hanno avuto accesso agli archivi segreti dell’amministrazione dei campi, e per ammissione dello stesso Stalin, il numero di prigionieri politici ha raggiunto i 15 milioni di persone (3).
Di conseguenza, si comprendono meglio i milioni di morti non naturali riportate in quest’epoca dalle statistiche ufficiali. Sulla base di calcoli molto sofisticati, l’esperto di statistica Rosefielde ha provato che, dal 1929 al 1949, il numero di decessi imputabili all’industrializzazione forzata andava dai 16 ai 26 milioni, e di questi almeno 2/3 sono da mettere sul conto del GULag.
Si può immaginare che, alla morte di Stalin, l’amministrazione dei campi, fino ad allora onnipotente, avrebbe accettato di buon grado di cessare ogni attività per far piacere al «nuovo principe»? Si è mai vista un’industria e, a maggior titolo, un’amministrazione, riconvertirsi in un attimo? Siamo seri: non diversamente dai campi nazionalsocialisti, i campi sovietici non avrebbero potuto scomparire spontaneamente, senza trauma esterno. La vita e l’opera di Sifrin ne sono, d’altra parte, la dimostrazione più clamorosa: avendo vissuto tutta l’era di Krusciov in stato di detenzione, la sua testimonianza sull’universo concentrazionario è schiacciante, spesso insopportabile.
Il censimento dei campi
L’opera di Sifrin — ex condannato a morte, sopravvissuto alla galera — è una guida dei campi e delle prigioni sovietiche (4). Ottenute da verifica di migliaia di testimonianze, tutte le informazioni sulle caratteristiche principali dei campi vi sono registrate con precisione: nome, indirizzo, specializzazione, dimensione e talora anche numero di telefono del capo campo; il testo è illustrato da più di centocinquanta schizzi. Senza pretendere di essere esauriente, l’autore — oggi emigrato in Israele e direttore del centro di ricerca sul complesso penitenziario sovietico — ha potuto, al termine di una decina d’anni di indagini, censire circa 2.500 luoghi di detenzione. Non vi è repubblica, città, distretto, che non abbia il suo campo di concentramento. La qualità della guida è stata sottoposta a una perizia geografica da Roger Brunet: ebbene, sia per quanto riguarda la toponomastica che la localizzazione nello spazio oppure la specializzazione economica, il controllo delle informazioni, sulla base di atlanti dettagliati, conferma la validità globale della fonte (5).
Anche — e soprattutto — le regioni più inospitali del Grande Nord e della Siberia sono occupate e colonizzate dai forzati: Sifrin ha elencato 41 campi in queste terre inabitabili. I detenuti vi svolgono i lavori più pericolosi — disinnesco di mine, prove di armi, estrazione di uranio, e così via —, sotto la sorveglianza di cani e di uomini armati, a temperature che vanno da 40 a 50 gradi sotto zero; essi hanno diritto soltanto a razioni da fame.
A questi campi di sterminio si aggiungono campi «a regime duro», nei quali si trovano persone di ogni tipo: militanti regionalisti — ucraini, baltici, georgiani, tatari, tagiki… —, obiettori di coscienza, ebrei che hanno richiesto un visto di emigrazione per Israele, cristiani che hanno rifiutato di abiurare la loro fede oppure di denunciare loro correligionari, giovani che si sono rifiutati di essere inquadrati nei Giovani Pionieri o nei Komsomol, e così via. Questi campi, il cui numero si avvicina al migliaio, rappresentano circa il 40% dell’insieme della rete penitenziaria.
Quanto al resto — approssimativamente 1.300 insediamenti —, si tratta dei campi «a regime ordinario», la cui esistenza e spesso la cui localizzazione hanno potuto essere provate in modo certo. Queste installazioni raccolgono tanto dissidenti che ubriaconi oppure autori di minuscoli furtarelli … Nessuno è al riparo dalla barbarie, poiché nell’elencazione compaiono ben 119 campi per donne e bambini.
A partire dal 1978, anche prima di aver avuto la possibilità di raccogliere l’insieme della sua documentazione, Sifrin ha potuto procedere a una stima del numero totale di detenuti su tutto il territorio sovietico. Estrapolando le cifre ottenute per le zone geografiche meglio censite, giunge a una cifra totale di 5 milioni. Questo procedimento è certamente suscettibile di una inclinazione all’aumento, perché tende a tener conto soltanto delle concentrazioni penali più forti; ma non per questo è meno rivelatore di una realtà atroce.
Se si vuole ragionare su un’ipotesi bassa, la popolazione dei 1.157 campi, il cui numero di detenuti è conosciuto, giunge a 1.478.000 individui, ossia, in media, a 1.277 detenuti per campo. Esteso ai 2.375 campi censiti nel 1980, questo risultato fornisce un bilancio di 3,03 milioni di persone in questo modo private della libertà. Ripetiamolo, questa cifra costituisce assolutamente un minimo, poiché il censimento è incompleto. Infatti, esistono pochissime testimonianze di prima mano sulle regioni desertiche della Siberia e dell’Estremo Oriente sovietico, perché nessuno ne fa ritorno. Nel 1985, Sifrin ammette che il numero reale di campi potrebbe giungere al doppio di quello conosciuto, il che porterebbe il numero di prigionieri a 6 milioni (6).
La mortalità nei campi è spaventosa. A questo proposito, la documentazione da lui fornita abbonda di dettagli così orribili da poter sembrare inverosimili e, di conseguenza, da poter provocare una reazione d’incredulità.
Tuttavia le informazioni sono confermate da tre fonti completamente indipendenti: le fotografie, scattate da satelliti della NASA, riprendenti numerosi punti del territorio sovietico; un’inchiesta condotta congiuntamente da servizi diplomatici occidentali allo scopo di verificare i dati presentati nell’opera; infine, l’analisi demografica applicata alle statistiche ufficiali dell’URSS. Limitiamoci a quest’ultima fonte, che ha il vantaggio di essere esauriente.
L’aggravamento della mortalità maschile
Dopo essere diminuita regolarmente nel corso dei decenni precedenti, del resto come in ogni altra parte nel mondo, la mortalità sovietica è cominciata ad aumentare a partire dalla metà degli anni Sessanta. Dal 1964 al 1984, il numero totale dei decessi è passato da 1,58 a 2,97 milioni; in altre parole, è pressoché raddoppiato. Ma, nel frattempo, la popolazione è aumentata ed è invecchiata; dunque, bisogna tener conto di questo cambiamento di composizione demografica per valutare la variazione intrinseca dei rischi di morte in Unione Sovietica. Dopo il 1980, i calcoli rivelano un’eccedenza annuale dell’ordine di 500.000 decessi; questa eccedenza riguarda principalmente il sesso maschile: l’aumento è stato due volte e mezzo più ,forte per gli uomini che per le donne. Fra il 1965 e il 1980, la durata della vita media degli uomini è diminuita di 4 anni: oggi si situa attorno ai 62 anni, e questo fatto la pone non soltanto a un livello molto inferiore a quello dei paesi satelliti, ma anche al di sotto del livello di numerosi paesi latinoamericani, e perfno di quello della Cina. Inoltre, essa è sensibilmente inferiore a quella della popolazione nera degli Stati Uniti, di 66 anni nel 1983. Secondo i dati pubblicati fino alla metà degli anni Settanta — le autorità hanno sospeso la pubblicazione dei tassi di mortalità per sesso e per età dal 1974 —, i più colpiti sono i giovani adulti maschi.
Alcuni sono tentati di attribuire questa brutale recrudescenza dell’eccesso di mortalità maschile — la differenza del rischio di mortalità alla nascita fra i due sessi è dell’ordine di 12 anni, la cifra più elevata del mondo — all’aumento massiccio del consumo di alcool. L’Accademia delle Scienze di Novosibirsk, nel 1984, ha pubblicato un rapporto che attribuisce all’etilismo un decesso su tre. L’Unione Sovietica è certamente, di gran lunga, il campione per tutte le categorie dell’intossicazione etilica: ma imputare l’aggravarsi dell’eccesso di mortalità maschile soltanto a questo fattore equivale a ignorare alcuni fatti elementari: 1. l’alcolismo in URSS non è un fenomeno nuovo; 2. questo alcolismo è soprattutto un alcolismo domestico, che riguarda sempre più le donne; 3. l’URSS conta più di 50 milioni di musulmani, a priori non bevitori e, soprattutto, in pieno sviluppo demografco; 4. le morti legate all’eccesso di alcool sopravvengono piuttosto dopo i 40 anni che prima.
Il confronto delle piramidi delle età costruite sulla base degli ultimi censimenti della popolazione, nel 1970 e nel 1979 (7), mostra che, fra i giovani adulti, la mortalità maschile è tre volte superiore a quella femminile. Ora, la mortalità delle donne sovietiche è a sua volta molto superiore a quella dei paesi meno favoriti d’Europa, come Portogallo e Romania. Altrettanto istruttivo è il confronto con la Finlandia, paese di grandi bevitori dove, d’altronde, fino all’inizio degli anni Sessanta, la mortalità maschile era paragonabile, tanto nel livello che nella strutturazione per età, a quella dell’Unione Sovietica. E tuttavia, dal 1974, lo scarto fra questi due paesi variava nell’ordine del doppio per la fascia d’età fra i 15 e i 45 anni!
Come spiegare un simile eccesso di mortalità maschile senza richiamare l’ipotesi di una riattivazione del GULag? Infatti, chi popola i campi se non giovani adulti maschi? Immaginando — ipotesi molto moderata — una popolazione di prigionieri di 4 milioni — il che suppone che solamente un quarto dei campi sarebbe sfuggito al censimento di Sifrin — e una mortalità penitenziaria inferiore della metà a quella del periodo staliniano — 50 invece di 100 su mille —, si giunge a un numero annuale di 200.000 decessi nel GULag (8). Come non osservare che — curiosamente — l’inversione delle curve di mortalità coincide con la svolta strategica operata in quest’epoca? Rinunciando allora a competere economicamente con i paesi occidentali, i dirigenti sovietici si sono posti come obbiettivo di raggiungerli militarmente. Così la militarizzazione forzata va, a poco a poco, a sostituire l’industrializzazione forzata. Il siluramento di Krusciov non è il simbolo migliore di questo nuovo orientamento?
Prigionieri «politici» oppure criminali?
Ci siamo fermati a una stima minimale di 4 milioni di prigionieri. Il rapporto del fisico Orlov riconosceva — dal canto suo — l’esistenza, nel 1979, di 5 milioni di detenuti, includendo i condannati a pene «brevi», cioè a meno di tre anni. Le valutazioni sono così abbastanza vicine. Il tasso d’internamento si situa dunque, per dire il meno, attorno al 1,5%. Supera nettamente la media americana: tuttavia, la criminalità proprio negli Stati Uniti è la più elevata nel mondo sviluppato; la popolazione penale, del resto, non è ivi soltanto proporzionalmente la più rilevante di tutti i paesi industrializzati, ma giunge, ai nostri giorni, al suo record storico: quasi 2 abitanti su 1.000 sono incarcerati. Malgrado questo record, le cifre sovietiche sono 8 volte superiori.
In queste condizioni, delle due l’una: o i prigionieri politici non esistono e l’homo sovieticus è infinitamente più criminale dell’homo americanus; oppure la criminalità non ha nulla d’eccezionale e, in questa ipotesi, le prigioni sono popolate da prigionieri politici. Se si ammette che la criminalità passibile d’incarcerazione è equivalente negli Stati Uniti e in Unione Sovietica, la conclusione si impone da sé: tutt’al più un detenuto su otto è un criminale di diritto comune; tutti gli altri, cioè l’enorme maggioranza, sono in realtà prigionieri politici, nel senso in cui l’intendiamo noi, cioè condannati per divergenza d’opinione. L’ordine di grandezza merita tanto più di essere preso in considerazione in quanto confermato da osservazioni relative al periodo staliniano. Militante comunista deportato in Russia, lo scienziato tedesco Weissberg ha potuto provare che la percentuale di criminali di diritto comune «non supera allora mai dal 15% al 20% del numero totale dei detenuti» (9). Questo illumina la vera natura dei GULag: si tratta di una gigantesca rete di campi di lavoro forzato.
Il modo di produzione schiavistico
La funzione politica del GULag è ben nota: si tratta di isolare — anzi, di liquidare — oppositori del regime. Il suo ruolo economico non è meno importante: si tratti del periodo passato di superindustrializzazione oppure del presente periodo di supermilitarizzazione, l’obiettivo consiste nel realizzare le grandiose ambizioni dei dirigenti. Per questa ragione il GULag è un ingranaggio essenziale nel funzionamento dell’economia sovietica: la mano d’opera servile vi esegue, spesso nelle regioni più inospitali e a costi che sfidano ogni concorrenza, lavori di cui nessun cittadino libero vorrebbe assumersi l’onere. È stato anche calcolato che, per l’economia sovietica, il profitto così realizzato equivaleva, in percentuale, all’ammontare della spesa per il petrolio di un paese come la Francia, nel 1983 (10).
Inoltre, il ruolo del GULag va, infatti, ben al di là di questo contributo evidente; la sua funzione è essenziale nel regolare l’insieme del sistema sovietico. Esso permette, su un territorio immenso ed etnicamente molto diviso, di neutralizzare ogni velleità d’opposizione, nello stesso tempo assicurando la mobilitazione forzata di un esercito di schiavi, che garantisce la superiorità militare, così paradossale, dell’URSS. Con la sua doppia funzione interna — controllo per mezzo del terrore — ed esterna — intimidazione nei confronti dell’estero per mezzo della potenza delle armi —, il GULag costituisce la chiave di volta del sistema sovietico. Il suo stesso permanere lo attesta: è un anello centrale della catena del totalitarismo sovietico.
L’informazione contro la disinformazione
I fatti sono dunque questi: l’Unione Sovietica ha restaurato la schiavitù. I campi di lavoro forzato non soltanto non sono scomparsi durante l’era di Krusciov, ma tendono, da una ventina d’anni, a ripopolarsi.
Bisogna trarre le lezioni di questo fenomeno per guidare la nostra condotta. Come possono i dirigenti sovietici osare denunciare con veemenza i crimini nazionalsocialisti e, nello stesso tempo, in pieno periodo di pace, condurre — per mezzo di campi di concentramento che, nel loro orrore, non hanno niente da invidiare ai loro omologhi hitleriani — una guerra di sterminio contro gli elementi più dinamici della loro stessa popolazione? L’Occidente deve proprio ricevere regolarmente, nelle sedi internazionali, lezioni di morale? Ogni giorno il GULag uccide molte centinaia di persone. Questo fatto non sarà mai sufficientemente denunciato. Perché è così poco noto? Senza dubbio perché la Russia è un paese separato dal mondo e perché i deportati sono, nella loro grande maggioranza, umili lavoratori anonimi. Ma anche e soprattutto perché — eterna cattiva coscienza dell’occidente! — il GULag fa parte di quei tabù di cui nessuna personalità occidentale osa parlare pubblicamente, per paura di essere qualificata come «sostenitore della reazione».
La firma del documento finale della conferenza di Helsinki, ottenuta in pieno periodo di recrudescenza del GULag, ha dimostrato, ancora una volta, l’ingenuità e la capacità di dimenticare dei governi occidentali. Le campagne di seduzione di Gorbaciov non modificano nulla della triste realtà sovietica, segnata da un ritorno al modo di produzione schiavistico anche se fermamente smentito dalle autorità. Di fronte a un tale atteggiamento — già adottato da Stalin al suo tempo — l’informazione dei cittadini occidentali rimane il miglior mezzo di pressione sul regime sovietico, che non può tollerare un costante deterioramento della sua immagine internazionale. Personaggio ambiguo, il signor Gorbaciov, neo-staliniano per numerosi aspetti dei suoi discorsi e del suo comportamento, ostenta nondimeno alcune inclinazioni «liberali». Di queste tendenze antagonistiche, quale prevarrà? Oggi nessuno sarebbe in grado di dirlo.
Comunque, in un paese come l’URSS, la migliore — e certamente la sola — vera espressione di una volontà di liberalizzazione sarà questa: l’abolizione della schiavitù.
Jean-Claude Chesnais
Note:
(1) Il numero delle «città proibite» supera il centinaio.
(2) In proposito, cfr. le diverse fonti utilizzate da S. Rosefielde (Soviet Studies, 1981, pp. 51-87) e la valutazione dell’incidenza demografica del fenomeno da parte dello stesso autore (ibid., 1983, pp. 385-409).
(3) Cfr. l’opera del drammaturgo georgiano Yuri Krotkov, vicino alla cerchia di Stalin, The Red Monarch, W. W. Norton and Company, 1979.
(4) Cfr. AVRAHAM SIFRIN, The First Guidebook to the URSS, to Prisons and Concentration Camps, Stephanus, 1980.
(5) Cfr. Roger Brunet, in L’espace géographique, n. 3, 1981, pp. 215-232.
(6) Cfr. L’Astrolabe, numero speciale, dicembre 1985.
(7) Per il 1979, cfr. M. Feshbach, in Soviet Economy, 1985, p. 179.
(8) Infatti, se, fra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, il numero di forzati passa almeno da 2,5 a 4 milioni — con una mortalità corrispondente che passa, diciamo, da 100.000 a 200.000 all’anno —, il rilancio del GULag spiega soltanto 1/5 dell’incremento della mortalità sovietica. Aggiungiamo che, secondo il dipartimento di Stato americano, la popolazione del complesso concentrazionario sovietico è superiore a 4 milioni di persone: cfr. il rapporto sul lavoro forzato in URSS, presentato davanti alla Commissione per gli Affari Esteri della Camera dei Rappresentanti, Washington, 9 febbraio 1983.
(9) Alexander Weissberg-Cybulski, Hexensabbat (trad. francese, L’Accusé, Fasquelle, 1953).
(10) Cfr. P. Arnaud, in L’Astrolabe, numero speciale, cit.