di Valter Maccantelli
Quando, come succede sempre più spesso, i media riportano la notizia che nella notte precedente aerei israeliani hanno colpito postazioni iraniane in Siria causando vittime fra il personale addetto, è facile farsi prendere dal timore dello scoppio di una guerra fra Israele e Iran dalle conseguenze devastanti. In realtà, la cosa potrebbe anche non succedere, per varie ragioni.
L’occasione prossima di conflitto è stata individuata nell’annosa questione fra Israele e Siria sul controllo della alture del Golan, una regione montuosa a nord del Lago di Tiberiade, incastrata fra Israele, Libano, Sira e Giordania. La sua importanza è sempre stata dettata dall’essere una “balconata” dalla quale a ovest si domina la pianura di Galilea e lanciando un sasso verso est si colpisce Damasco.
Negli ultimi anni, la zona aveva perso d’importanza perché Israele si sentiva rassicurato dal fatto che il regime siriano era impegnato in altre faccende e che la fascia di sicurezza in Libano, assieme alla presenza del contingente UNIFIL, la Forza d’interposizione in Libano delle Nazioni Unite (con una forte partecipazione di soldati italiani), lo garantivano nei confronti dei nemici circonvicini.
La sconfitta dell’ISIS/Daesh, il netto miglioramento di salute del regime di Bashar al-Assad e la vittoria elettorale del fronte sciita in Libano hanno riacceso i timori dello Stato ebraico.
Adesso che la polvere della sanguinosa rissa siriana comincia a posarsi, emerge che l’Iran, nell’ambito del suo sostegno militare ad Assad, ha posizionato alcune delle proprie postazioni militari, gestite direttamente o tramite Hezbollah, nella fascia che separa Israele da Damasco della quale il versante orientale del Golan è parte essenziale. Da questa zona sono partite nei mesi scorsi alcune bordate di missili e artiglierie verso Israele. Essendo la zona occupata da una moltitudine di milizie e divisa in infiniti settori di occupazione la provenienza filoiraniana di questi attacchi non è certa ma, per non sbagliare, Israele sta dicendo all’Iran di “farsi più in là”: non certo un messaggio pacifico, ma neppure una dichiarazione di guerra esplicita.
Le speranze di “pace” ‒ dove le virgolette sono d’obbligo – poggiano anche su di un attore sempre additato, ma spesso sottovalutato, specialmente sul piano diplomatico: la Russia.
Vladimir Putin, fra i leader mondiali, è quello che ha maggiore interesse a una stabilizzazione della regione: è rientrato alla grande nello scenario mediorientale con l’intervento in Siria, ha ristabilito una presenza militare importante nel Mediterraneo e vuole abbassare il rischio di un supporto jihadista alle insorgenze musulmane del Caucaso. Sa bene che una guerra rovinerebbe la sua scacchiera.
Iran e Siria sono già suoi alleati fedeli e nessuno dei due si lancerebbe in una guerra dichiarata sapendo di non avere alle spalle il supporto di Mosca, supporto che Putin non ha alcuna intenzione di fornire.
Per combattere una guerra bisogna essere almeno in due e Putin ha il pieno controllo di uno dei due fronti, quello filoiraniano. Questo gli permette di fare qualche mossa anche sull’altro lato del fronte: Israele. È del tutto evidente che Benjamin Netanyahu gioca nella squadra avversaria con ancora maggiore convinzione da quando alla Casa Bianca c’è Donald J. Trump, con il quale è emersa una “chimica” del tutto particolare.
Questo non vuol dire che Gerusalemme voglia o possa ignorare completamente l’opposizione russa a una guerra aperta con l’Iran. Oramai un sesto della popolazione israeliana è formata dai cosiddetti rusin, ebrei russofoni immigrati dall’ex Unione Sovietica e dai suoi satelliti. Considerati parte integrante della nazione, rappresentano una minoranza importante di orientamento politico conservatore che Netanyahu non vorrebbe trascurare e che Putin ha inserito nei piani della propria diplomazia culturale.
Già nel luglio 2011, al summit delle minoranze religiose ed etniche della Russia, Putin, allora primo ministro, aveva dichiarato che «Israele è per noi un Paese speciale. È praticamente un Paese russofono». Il 9 maggio, Netanyahu è stato l’invitato d’onore alla parata per la celebrazione della vittoria nella Grande Guerra Patriottica sovietica contro la Germania nazionalsocialista, la ricorrenza civile più importante in Russia. Dopo una serie d’incontri serrati in cui le due delegazioni e i leader si sono ampiamente studiati, nei comunicati finali Netanyahu e Putin si sono reciprocamente riconosciuti il ruolo d’interlocutori. Non è molto ma è già qualcosa, tanto che, tramite un canale militare sempre aperto, Israele avvisa puntualmente le truppe russe in Siria di tempi e luoghi dei propri raid, onde evitare incidenti.
In questa partita che si gioca fra Iran, Siria e Israele, la diplomazia russa ‒ meno twittata e più praticata di quella occidentale ‒ sta giocando un ruolo per nulla secondario: può non piacere a molti, ma può essere utile per qualcosa che almeno assomigli a una pace.
12 Maggio 2018