di Michele Brambilla
Il Vangelo assegnato all’XI domenica del Tempo ordinario (cfr. Mc 4,26-34) offre ai fedeli due parabole, come afferma Papa Francesco alla recita dell’Angelus del 17 giugno. «Nella prima parabola (cfr vv. 26-29), il Regno di Dio è paragonato alla crescita misteriosa del seme, che viene gettato sul terreno e poi germoglia, cresce e produce la spiga, indipendentemente dalla cura del contadino». Nella seconda, «[…] Gesù paragona il Regno di Dio a un granellino di senape. È un seme piccolissimo, eppure si sviluppa così tanto da diventare la più grande di tutte le piante dell’orto: una crescita imprevedibile, sorprendente».
Il messaggio complessivo è quindi un invito all’umiltà e alla capacità di stupirsi di fronte all’azione del Signore, che va oltre gli sforzi umani degli evangelizzatori: «[…] mediante la predicazione e l’azione di Gesù, il Regno di Dio è annunciato, ha fatto irruzione nel campo del mondo e, come il seme, cresce e si sviluppa da se stesso, per forza propria e secondo criteri umanamente non decifrabili. Esso, nel suo crescere e germogliare dentro la storia, non dipende tanto dall’opera dell’uomo, ma è soprattutto espressione della potenza e della bontà di Dio, della forza dello Spirito Santo che porta avanti la vita cristiana nel Popolo di Dio».
Avevano forse ragione i protestanti a parlare di sola gratia? Ovviamente no. Il Signore vuole solo salvare da quella tendenza, definita più volte dal Papa “neo-pelagianesimo”, che confida fin troppo nelle forze umane, dimenticando l’esistenza del peccato originale. L’uomo corre sempre il rischio di voler addomesticare o piegare l’azione divina: «Il Signore sempre ci sorprende. È un invito ad aprirci con più generosità ai piani di Dio, sia sul piano personale che su quello comunitario. Nelle nostre comunità occorre fare attenzione alle piccole e grandi occasioni di bene che il Signore ci offre, lasciandoci coinvolgere nelle sue dinamiche di amore, di accoglienza e di misericordia verso tutti».
Pensando alla Giornata mondiale del rifugiato, il Pontefice sente il dovere di formulare l’auspicio «[…] che gli Stati coinvolti […] raggiungano un’intesa per assicurare, con responsabilità e umanità, l’assistenza e la protezione a chi è forzato a lasciare il proprio Paese. Ma anche ciascuno di noi è chiamato ad essere vicino ai rifugiati, a trovare con loro momenti d’incontro, a valorizzare il loro contributo, perché anch’essi possano meglio inserirsi nelle comunità che li ricevono. In questo incontro e in questo reciproco rispetto e appoggio c’è la soluzione di tanti problemi».
L’aggettivo «forzato», assieme agli altri che cesellano accuratamente il discorso di Francesco, permette di comprendere come il Santo Padre non inviti affatto ad un’accoglienza indiscriminata e irrazionale, ma sproni a farsi carico di coloro che sono davvero nel bisogno, sfruttando appieno i mezzi offerti dalla diplomazia, che può intervenire per fermare crisi come quella dello Yemen, dove, ricorda il Papa, sono ripresi gli scontri tra sunniti e sciiti. «Faccio appello alla Comunità internazionale», ha detto, «perché non risparmi alcuno sforzo per portare con urgenza al tavolo dei negoziati le parti in causa ed evitare un peggioramento della già tragica situazione umanitaria».