di Maurizio Milano
Il 14 giugno, con 129 voti a favore, 125 contrari e un’astensione, la Camera dei Deputati argentina ha approvato la depenalizzazione dell’aborto, che era sino a quel momento permesso solo alle vittime di stupro o nei casi in cui la gravidanza fosse a rischio per la vita della madre. La proposta di legge ‒ che nei prossimi giorni passerà al vaglio del Senato ‒ introdurrebbe la possibilità di abortire legalmente entro la 14esima settimana in qualunque caso e in alcuni casi particolari anche oltre. Nell’occasione, il presidente Mauricio Macri si è comportato pilatescamente: pur cattolico e personalmente contrario all’aborto, ha scelto di non porre veti e ha anzi invocato la libertà di coscienza, congratulandosi poi con tutti: «C’è stato un dibattito storico, come avviene nelle democrazie. Siamo stati capaci di gestire le diverse visioni con rispetto e tolleranza, ascoltandoci e comprendendo che la via del dialogo è l’unica che fa bene al futuro. Dunque congratulazioni a tutti, ora la discussione continua al senato». Insomma, il “metodo” democratico come garanzia ultima di verità e di bene, nel più perfetto spirito massonico, senz’alcun riferimento ai “contenuti”, cioè al diritto naturale e alla metafisica. Per di più la proposta di legge è contraria alla Costituzione e contro il Codice civile e commerciale in vigore dal 2015, dove viene affermato e riconosciuto esplicitamente che «la persona umana esiste dal momento del suo concepimento».
I rapporti di forza nel Paese erano e sono sul filo del rasoio, e non stupisce quindi che le forze liberal abbiano messo in gioco tutte le proprie energie per far pendere la bilancia dal lato filoabortista. Tra le pressioni esterne si segnala il rapporto dell’organizzazione non governativa internazionale Human Rights Watch secondo cui, ogni anno, in Argentina verrebbero effettuati circa 500mila aborti clandestini, un numero evidentemente gonfiato per suscitare allarme. Nella propaganda dei movimenti di sinistra e delle femministe si aggiunge poi il solito repertorio dei “casi pietosi”, tra cui la vita della madre a rischio negli aborti clandestini, onde suggerire che gli aborti dovrebbero essere allora legalizzati poiché così sarebbero sicuri e gratuiti, e pure “pochi”, come amava dire anche l’ex first lady Hillary Clinton prima di arrivare ad affermare che l’aborto è come un vero e proprio “diritto” della donna.
Si tratterebbe, cioè, solo di combattere gli aborti clandestini, e la legalizzazione servirebbe a ridurre l’incidenza delle interruzioni volontarie di gravidanza. Ma non è affatto così. L’esperienza internazionale insegna che le leggi creano sempre costume: una volta varata una legislazione favorevole all’aborto, le coscienze vengono progressivamente anestetizzate e gli aborti diventano normali, venendo un po’ alla volta percepiti appunto come un “diritto” fino al punto d’invocare l’obbligo per i medici, per gl’infermieri e per le strutture ospedaliere di praticarli anche contro la coscienza degli obiettori e contro la volontà del contribuente contrario di finanziarli con le proprie imposte. Da “delitto” a “diritto” nello spazio di una generazione, come anche la storia italiana insegna. Una legislazione abortista è infatti quanto di più contrario al bene comune si possa immaginare: per di più, in tempi di “suicidio demografico”, è una vera e propria follia persino sul piano economico.
Oltre al solito copione della propaganda liberal pare però che questa volta ci sia stato anche il ricatto economico-finanziario dei cosiddetti “poteri forti”. Siccome l’Argentina è nuovamente a rischio di default ‒ non certo una novità, come ricorderanno molti risparmiatori, anche italiani, che hanno subìto perdite pesanti sui titoli obbligazionari del Paese sudamericano a inizio secolo ‒ sembra che gli aiuti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale siano stati subordinati al varo proprio della legge abortista. La prima ha ufficialmente chiesto l’approvazione della depenalizzazione dell’aborto nella riunione preparatoria del G-20, svoltasi in marzo a Buenos Aires. E ben note sono le posizioni in materia del secondo, cioè del principale creditore del Paese sudamericano: dalla repressione demografica ‒ aborto, anticoncezionali e sterilizzazione ‒ alla diffusione dell’ideologia gender ‒ anch’essa sterile ‒ il bersaglio degli attacchi rimangono sempre la famiglia naturale e la vita, la libertà di religione e quella di coscienza. Una vera e propria “colonizzazione ideologica” iniziata nel lontano 1968, con cui i Paesi ricchi impongono l’aborto legale e l’ideologia gender ai Paesi poveri, come Papa Francesco continua a ricordare.
Tra l’altro, nella piattaforma elettorale di Macri non era presente alcun riferimento all’aborto: perché quindi introdurre un tema così divisivo proprio adesso che il Paese si trova ad affrontare lo spettro di un’altra crisi economica, finanziaria e sociale? Una “coincidenza” quanto meno sospetta.
Che insegna la “lezione argentina”? Che mentre un tempo la sovranità di un Paese era garantita, soprattutto, dalla forza militare e dalle alleanze politiche, oggi è sempre più la potenza economica e finanziaria a rilevare. Quando un Paese è fortemente indebitato, e non riesce ad imprimere una crescita economica forte e sana alla propria compagine sociale, inizia progressivamente a perdere quote di sovranità, come d’altronde capita a qualsiasi debitore nei confronti dei propri creditori. E diviene così un ostaggio facilmente ricattabile, su tutti i fronti.
Anche per l’Italia, quindi, il recupero della piena sovranità nazionale presuppone la messa in sicurezza dei propri conti pubblici, per non prestare il destro a facili pressioni e ricatti internazionali. Chi vuole davvero il fine deve volere anche i mezzi, pena il cadere in un “sovranismo” velleitario, senza speranza di successo: un tema su cui il nuovo governo farebbe bene a riflettere.
Martedì, 19 giugno 2018