« Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe » (Mt 6,7-15).
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Gesù insegna ai discepoli a pregare. È la famosa “preghiera del Signore”, detta comunemente “Padre nostro” dalle parole con cui incomincia. Non è “una” preghiera, ma “la” preghiera. I Padri della Chiesa l’hanno spesso commentata mossi dalla convinzione che in questa preghiera c’è tutta l’essenza della preghiera cristiana. Sant’Ignazio di Loyola, per esempio, nei suoi Esercizi, ci insegna a concludere qualunque preghiera con il Padre nostro, per aver ben chiaro che qualunque preghiera noi facciamo è sempre e solo la sottolineatura di qualcosa che è già contenuto nella Preghiera del Signore. Essa è strutturata in sette domande. Sette è il numero della perfezione, di un ciclo concluso. Come dire: tutto quello che possiamo desiderare, cercare, sperare è contenuto qui. Lo stesso ordine delle domande ci aiuta a disporci nell’atteggiamento giusto della preghiera: « Il primo gruppo di domande ci porta verso di lui, a lui: il tuo Nome, il tuo Regno, la tua volontà. È proprio dell’amore pensare innanzi tutto a colui che si ama » (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2804).
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Anche l’inizio, la prima parola è molto significativa, perché se è vero che il Dio di Israele è concepito come il Padre del suo popolo (Es 4,22) era molto raro che ci si indirizzasse a lui come al Padre di un singolo ebreo. Invitando i suoi discepoli a chiamare Dio “Padre”, li introduce ad una intimità insolita con Dio. In aramaico Gesù si rivolge a Dio con la parola, “Abbà”, usata abitualmente dai bambini nei confronti del loro genitore (Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6). Oggi diremmo “papà”. Questo termine estremamente confidenziale è unito – paradossalmente – con l’espressione « che sei nei cieli ». Lo stesso Dio che si fa intimo a noi, che si fa vicino e “tenero”, tanto da permetterci di chiamarlo “papà”, è il Dio tre volte santo, che abita nei cieli, cioè in quel luogo, che è un non-luogo, che trascende ogni luogo. Nella misura in cui Dio è accolto nel nostro intimo, esso si fa “cielo”, cioè paradiso. L’intimità con Dio ci fa già essere in paradiso. Ma io magari sto ancora male, soffro, come posso dire di essere già in paradiso? È perché ancora non me ne accorgo pienamente. Chi è colpevolmente lontano da Dio è già nell’inferno, l’inferno è in lui: magari però sta (relativamente…) bene, perché ancora non se ne accorge. Accorgersi di quello che siamo, di dove stiamo andando, di qual è la nostra vera situazione, questo è pregare con il cuore.
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