di Marco Invernizzi
A quattro mesi dalle elezioni politiche italiane e a un mese dalla nascita del governo inedito fra M5S e Lega, è necessario fare il punto, riassumere quanto accaduto e cercare di capire come guardare al futuro immediato.
L’Italia ha un governo “strano”, nel senso che unisce due forze politiche diverse. La prima è un “non partito”, il M5S, che raccoglie il rancore popolare contro la classe politica al potere iniziato nel 1992 con “Tangentopoli” e continuato durante il ventennio caratterizzato dallo scontro fra “berlusconismo” e “antiberlusconismo”. Il movimento fondato da Beppe Grillo ha dato una voce a questo risentimento, quella che non ha trovato soddisfazione nei governi di Centrodestra e di Centrosinistra alternatisi al potere negli ultimi anni. Movimento privo di riferimenti ideologici precisi, il M5S si caratterizza privilegiando la “democrazia diretta” e la “democrazia digitale” (qualunque cosa queste siano nella realtà e qualunque cosa il M5S intenda con queste espressioni) rispetto alla democrazia rappresentativa, e auspicando una disarticolazione profonda della società. Giova ricordare come il suo comportamento passato rispetto ai temi etici sia sempre stato negativo, cioè positivamente favorevole alle proposte di legge contro vita e famiglia.
La Lega è invece ‒ per paradossale che possa sembrare il dirlo ‒ il partito più vecchio oggi presente nel Parlamento italiano e tuttavia è un partito molto cambiato negli ultimi anni: cioè da quando cerca di estendere la propria proposta politica, già localistica, a tutto il Paese, abbandonando la prospettiva del secessionismo (vero o presunto, agitato o strategicamente utilizzato che fosse) per assumere posizioni cosiddette “sovraniste”.
Commentatori e analisti giudicano “populista” il nuovo governo guidato da Giuseppe Conte, cioè un governo che riprende le tesi del nazionalismo, che si oppone alle élite in questo caso dell’Unione Europea e al “globalismo” (qualsiasi cosa l’espressione significhi) commerciale ed economico per riscoprire valori “identitari”. L’itinerario è ben descritto nel libro di Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica (Marsilio, Roma 2018), che radiografa l’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale (1939-1945) a oggi.
Il dato reale è questo. È dunque evidente che questo governo corre dei rischi, anche per l’alleanza tra forze politiche appunto diverse su cui si regge, e ciò è vero soprattutto per i princìpi inerenti le basi fondamentali della convivenza umana. Probabilmente non accadrà nulla di negativo, nel senso che il processo legislativo di disgregazione morale dovrebbe arrestarsi, ma al contempo non si registreranno neppure miglioramenti. Cosa fare, dunque? Auspicare l’impossibile o lavorare sulla realtà per migliorarla? Sottolineare il positivo, che c’è (basti pensare ad alcuni ministri attuali, uomini che si sono battuti veramente per la famiglia e che erano presenti ai Family Day), oppure lasciarsi prendere dalla disperazione politica?
È evidente che il ritorno alle prerogative degli Stati nazionali può essere una soluzione capace di frenare il “globalismo” sfrenato, ma non deve far dimenticare il male che il nazionalismo e gli Stati nazionali hanno fatto all’Europa, soprattutto in occasione della Prima guerra mondiale (1914-1918).
Il lavoro culturale da fare è arduo, soprattutto in un mondo che legge poco e che riflette sempre meno. Ma quella culturale è la parte che ci tocca, quella che oggi manca.
Contro questo governo è partita una campagna di odio ideologico che lascia sconcertati. Basta leggere la Repubblica per credere. Non si aspettano i fatti, le mancanze, gli errori. Si insulta, soprattutto il ministro dell’Interno, dando del “razzista” a chi pensa di risolvere il dramma dei profughi in maniera diversa e non demagogica. Chi ha vissuto gli anni 1970 ricorda che chi esercitava la violenza quotidiana nelle scuole e nelle università lo faceva dando del “fascista” a chi non era d’accordo e, appunto perché “fascista”, quegli non aveva diritto di parola, diritto che allora si chiamava agibilità politica. Se oggi qualcuno pensa che i trafficanti di uomini disperati siano dei malfattori e molte ong sfruttino il business dell’immigrazione per fare (tanti) soldi, è “razzista”; e se qualcuno pretende che l’Italia non sia lasciata sola dagli altri Stati membri della UE nella gestione degli sbarchi, è un inguaribile “razzista”.
Anche i cattolici sono divisi e confusi, e come tutti sono (siamo) poco informati. Partiamo da quanto ha detto il Papa nel Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2018:«Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un’occasione di incontro con Gesù Cristo». Accogliere e annunciare il Salvatore è semplicemente un dovere, anche se è cosa non sempre facile da mettere in pratica.
Il problema però adesso non è soltanto l’accoglienza, ma il modo in cui organizzarla, dando ai profughi anzitutto il diritto di potere rimanere in condizioni dignitose nei propri Paesi (come ha detto Papa Benedetto XVI nel Messaggio per la giornata del migrante e del rifugiato del 2013), e quindi rendere efficace e ordinato il diritto di potere emigrare, così come quello degli Stati di regolarne il flusso.
Si tratta ovviamente di un tema enorme, che malauguratamente viene spesso affrontato con due atteggiamernti ideologici contrapposti, capaci solo di generare divisione. Il governo ha cominciato a lavorare da un mese e ha già costretto gli altri Paesi a occuparsi del problema, smettendo di lasciare sola l’Italia, almeno a parole. Lasciamolo lavorare senza seguire chi ha dichiarato una guerra ideologica a prescindere dalle intenzioni e dai risultati.
Viviamo una crisi profonda, antropologica prima che politica. Non dimentichiamo che alle recenti elezioni amministrative oltre metà degli italiani non sono andati a votare. Sono italiani privi di speranza, anche perché non hanno ricevuto una formazione umana adeguata che li aiuti a superare le difficoltà e a sacrificarsi per un mondo migliore. Inoltre hanno paura, come è normale, di una ideologia immigrazionista che non c’entra con il dovere di accogliere e di aiutare i poveri. Vanno aiutati a non perdere le speranze e a non disprezzare il bene che esiste, anche da un punto di vista politico, che va valorizzato e fatto conoscere. E non dimentichiamo che Dio non abbandona il Suo popolo, se questo si sforza di rimanergli fedele. Pur essendo minoranza nel Paese, i cattolici hanno il dovere di portare la speranza a chi l’ha perduta o non l’ha mai avuta. Ai migranti e a chi fugge dalle guerre, certamente, ma anche ai nostri poveri, che aumentano, come segnala l’Istat, e a tutti coloro che nell’Europa dell’inverno demografico vivono sempre più nella solitudine e nella tristezza, indipendentemente dal “conto in banca”.
La nostra speranza è certa, perché fondata sull’amore di Dio, generoso e fedele. Non dimentichiamo mai di trasmetterla a tutti.
Venerdì, 29 giugno 2018