di Oscar Sanguinetti
Più giovane di De André e di Guccini, entrambi del 1940, Rossi — del 1952 — dal 1977 canta la generazione dei “rivoluzionati” o, almeno, della parte più consistente di essi: non più dei pre-rivoluzionari, non più dei rivoluzionari, ma di quella “generazione di sconvolti”, come la definisce egli stesso in Siamo solo noi, che ne è la diretta erede. La gioventù post-sessantottina — padri, ma soprattutto figli e nipoti o, magari, “figli” degli intellettuali sessantottini montati in cattedra —, rifluita nel divertimento, nell’alcool, nella “vita esagerata”, in cerca di tutto hic et nunc, del “paradise now”, non come utopia sociale o collettiva vissuta tutta e subito — o, quanto meno, riversata nell’azione presente in vista di un futuro a breve —, bensì come puro edonismo, odio per le regole, godimento dell’istante, sensazioni straordinarie propiziate dalle droghe — quelle “aggiornate” degli anni 2000 —, dall’alcool, da “sballi”, dal piacere sessuale, da intimismi e amori da bar, da avventure a breve raggio e di breve durata, trasgressioni “da nano” — che vuole “andare al massimo”, ma invano —, visto che quella “da gigante” è fallita miseramente.
Una prospettiva dunque, quella di “Blasco”, radicalmente secolarizzata, dove il senso del peccato è assente, totalmente egocentrica e priva di interesse per la ricaduta sugli altri dei propri atti — “una vita maleducata”, in sostanza —, quindi sostanzialmente “spericolata”, ma senza responsabilità vere, immatura, quando non proprio infantile. Le sue canzoni raccontano l’esperienza di una generazione attraverso vicende di cui l’autore è protagonista eminente, come la sua turbolenta biografia, costellata di trasgressioni e di arresti, racconta. Esplicitamente ateo e sostenitore dell’eutanasia, nonché iscritto da sempre al Partito Radicale, vicino alle sue battaglie per “de-moralizzare” sempre più la società italiana, la sua musica affascina anche quei cultori della “vita che se ne frega” che da sempre allignano nell’estrema destra esistenziale e politica.
La sua musicalità si avvale non più di motivi melodici, dalla ballata alla tarantella, ma per lo più adopera “basi” di “rock duro”, sulle quali s’innesta la voce roca del cantante. Non è un caso che le canzoni di Rossi, a differenza dell’“artigianato” di De André e di Guccini, siano un oggetto di fabbrica, un prodotto “industriale” discografico di largo consumo — ben 32 album finora! —, concepito e realizzato da parolieri e tecnici del suono di alto profilo, in grado di produrre testi gradevoli e musiche ad alta presa ritmica. “Non a caso”, ho detto, perché le canzoni di Rossi riflettono l’ethos, la cultura, di un’epoca in cui la tecnocrazia e i grandi centri di produzione mediatica di massa hanno vinto sullo spontaneismo e sull’ideologia libertaria e propongono i loro temi e i loro modelli con la stessa logica di una bibita o di un telefonino. Rossi non è forse il caso estremo: il massimo della “prefabbricazione” di un cantante di successo, partendo da una base oggettivamente povera — tanto come idee, quanto come doti artistiche —, ma del tutto plasmabile, si raggiunge probabilmente con personaggi come Lorenzo Cherubini “Jovanotti”.
Terzo “guru” di una generazione, di gran lunga meno raffinato degli altri due, la sua presa a livello del popolo giovane — ed enormemente meno dovizioso del suo mentore — è immensa e lo testimoniano i numeri degli spettatori ai suoi concerti, di cui detiene il record assoluto in Italia. Migliaia saranno altresì i giovani che, imitandone lo stile di vita, cercheranno — i più colti forse un po’ nietzscheanamente, gli altri perché “di moda” e perché tocca corde ancora sensibili — di imitarne le gesta “al di là del bene e del male” e di seguire i motivi e i modelli espressivi delle sue canzoni, dando vita poi a stili di vita tutt’altro che encomiabili, auto-referenziali, proni allo squallore di atti di maleducazione e micro-violenze sui più deboli e i più vicini.
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De Andrè, Guccini, Rossi: tre cantanti-simbolo delle tre dimensioni che attraversa la fiammata rivoluzionaria che ha il suo momento più “caldo” nel 1968. Se De André canta l’utopia pacifistica e umanitaristica, l’individualismo libertario e anarcoide, Guccini canta l’ideologia e il movimento, nonché lo stile di vita di chi a essi s’ispira, Rossi è probabilmente il cantore del nichilismo morale ed esistenziale, in cui fatalmente sfocia l’impegno rivoluzionario delle origini, dopo quella “liquidazione del Sessantotto” — tralignato nel terrorismo —, il cui simbolo sarà il film americano La febbre del sabato sera.
Il Sessantotto “storico” si esaurirà nel breve volgere di un decennio, ma il Sessantotto mito e il Sessantotto “cultura”, ossia modo di leggere il reale, sedimenterà nel senso comune collettivo e nelle “lotte per i diritti civili”, veri o presunti — lo si vedrà con drammatica evidenza nella sconfitta della ragione in occasione dei due referendum, quello contro il divorzio del 1974 e quello contro la legalizzazione dell’aborto nel 1981 —, più spesso travestimenti dell’egoismo individualistico più radicale, e continua a scatenare i suoi effetti perversi ancora ai nostri giorni, responsabile primo di quella “dittatura del relativismo” e di quella agglutinazione di “coriandoli” “rancorosi” a cui è ridotta la società odierna.
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