Pierre Faillant de Villemarest, Cristianità n. 161 (1988)
Pierre Faillant de Villemarest (1922-2008), è un ex combattente della resistenza, un membro dei servizi francesi di controspionaggio, giornalista e scrittore. Collabora regolarmente a Cristianità negli anni 1980 e 1990 affrontando un numero inverosimile di argomenti. I suoi contributi sono essenziali per orientare il pubblico e la dirigenza di Alleanza Cattolica su questioni di non sempre facile interpretazione. Negli anni 1980 è spesso in Italia, ospite dell’associazione, con la quale tiene relazioni a convegni e partecipa a conferenze e incontri ristretti. Particolarmente significativo è il convegno su Le Resistenze dimenticate, svoltosi a Milano il 1° dicembre 1984, durante il quale viene costituita la sezione italiana della CIRPO (cfr. Marco Invernizzi, “Le Resistenze dimenticate”. “Per rompere la congiura del silenzio sulle opposizioni attive contro il socialcomunismo” una CIRPO anche in Italia, in Cristianità, anno XII, n. 116, dicembre 1984, pp. 3-5). Le sue analisi sull’evolversi dello scenario europeo e mondiale fra apogeo dell’impero socialcomunista di obbedienza moscovita, sulla sua crisi dovuta all’impotenza di reggere il confronto con il mondo libero, la perestrojka, “ristrutturazione”, di Mikhail Gorbaciov e poi l’implosione dell’URSS sono magistrali e decisive per aiutare i militanti anticomunisti a capire che cosa davvero accade.
La “normalizzazione” della Cecoslovacchia nel 1968
All’inizio del 1988 Mikhail Gorbaciov, ricevendo a Mosca l’attuale numero uno del Partito Comunista Cecoslovacco, Milos Jakes, celebrava «la solidarietà indefettibile» e «l’unità di vedute sulle questioni essenziali per l’edificazione del socialismo», che caratterizza i rapporti fra il Cremlino e il governo di Praga.
L’8 luglio scorso, Nikolai Ryzkov, primo ministro dell’Unione Sovietica, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Praga, aggiungeva che l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia — il cui ventesimo anniversario è caduto il 21 agosto — «era giustificato». E in occasione di un dibattito fra Mikhail Gorbacíov e i comunisti polacchi, alla domanda di uno dei rari invitati non appartenenti al partito se avrebbe fatta sua la «dottrina Breznev» nel caso in cui questo o quello Stato volesse maggiore autonomia nei confronti dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov non ha risposto, ha parlato di un altro problema …
Queste affermazioni e questo silenzio mostrano adeguatamente la continuità della strategia sovietica dal 1945 a oggi, in presenza o in assenza di perestrojka! Se vi fosse un’apertura reale dei governi dell’Est verso l’Ovest, sulla scia degli sviluppi economici desiderati dai demo-tecnocrati che reggono il Mercato Comune, quelli aprirebbero le loro frontiere a tutti i cittadini dell’Est desiderosi di visitare l’Occidente. Ma non se ne parla assolutamente, se non alle condizioni ben note, a partire dalla concessione dei visti.
La stampa occidentale, ciononostante, non ha esitato a dipingere Milos Jakes, che è succeduto al vecchio Gustav Husàk all’inizio del 1988, come una sorta di Mikhail Gorbaciov cecoslovacco. E numerose redazioni a tutt’oggi prferiscono non insistere su quanto è accaduto nell’agosto del 1968, mentre l’accumularsi di rivelazioni, da vent’anni a questa parte, permetterebbe anche di abbozzare una narrazione dettagliata delle condizioni in cui fu prima preparata poi realizzata l’invasione-repressione.
Milos Jakes sarebbe dunque un liberale? Significa dimenticare che nel 1968 era niente meno che responsabile della Commissione Centrale di Controlli del Partito Comunista Cecoslovacco, cioè capo della polizia del partito, quindi un corrispondente di primo piano dell’apparato sovietico, compreso il KGB.
D’altronde, nel dicembre del 1968, partecipava agli intrighi intesi a espellere a poco a poco l’«amabile» Alexander Dubcek, e arrivava quasi a urlare, nel corso di una sessione del Comitato Centrale, che bisognava «farla fìnita con quanti chiedono di discutere, di redigere mozioni, di cercare il sostegno dell’opinione pubblica!».
Lo stesso Alexander Dubcek era l’uomo che si è sempre dipinto e che si continua a dipingere? Significa dimenticare che, nato in Unione Sovietica nel 1922 ed educato in questo paese, è ritornato a Praga soltanto nel 1945, sui furgoni dell’esercito sovietico, alla cui ombra elezioni truccate dovevano poco dopo coprire la progressiva presa del potere da parte dei comunisti, attraverso l’opera sovversiva nei ministeri.
Dal 1955 al 1958 Alexander Dubcek segue corsi presso le scuole superiori del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, dopo i quali comincia la sua ascesa a Praga, dove, dieci anni dopo, stigmatizza «le tendenze antisovietiche e le passioni nazionaliste».
In altre parole, sia Alexander Dubcek sia Milos Jakes esprimono soltanto tendenze e metodi diversi all’interno del quadro del partito unico e in vista degli stessi obbiettivi, identici oggi come ieri.
E, disgraziatamente, in esilio non è nato nessun organismo che abbia saputo raccogliere attorno a sé i cecoslovacchi che amano veramente la loro nazione. Esistono solamente gruppetti di intellettuali, forse coraggiosi, ma rimasti marxisti, oppure socialdemocratici, che tirano l’acqua al proprio mulino, sostenuti dai mass media, ma che non rappresentano assolutamente i popoli ceco e slovacco.
La tecnica dell’operazione-lampo, messa in opera vent’anni fa per occupare la Cecoslovacchia per la seconda volta, merita di essere ricordata dal momento che il 21 agosto 1968 è ormai un fatto storico e perché sarebbe identica se, un giorno, si abbattesse sui nostri paesi la stessa operazione-lampo.
Il 17 luglio 1968 il governo di Mosca autorizza a difendere a Praga l’ordine nuovo. Alla guida delle forze del Patto di Varsavia era stato designato un nuovo capo di stato maggiore, e attorno a lui si era disposta una decina di generali. Ufficialmente ci si apprestava a svolgere, come ogni anno, anche se con un numero maggiore di effettivi, grandi manovre congiunte di truppe sovietiche e degli Stati Satelliti, in Cecoslovacchia e attorno a essa. Poi, il 17 agosto — come mi ha rivelato una personalità propria allora fuggita in Occidente — due dozzine di ufficiali del KGB, travestiti da turisti, giungono a Praga dove sono discretamente presi in carico da W. Salgovic, vice ministro degli Interni, all’insaputa del suo superiore e — per altro — membro del Politburo cecoslovacco, fatta eccezione per i collaborazionisti V. Bilak e Alois Indra!
Questi direttori d’orchestra dell’invasione del paese e delle future repressioni sapevano che l’ora X era la notte fra il 20 e il 21 agosto. Nei due giorni precedenti, il capo dell’operazione «Disinformazione» presso lo stato maggiore sovietico — nientemeno che il futuro maresciallo Nikolai V. Ogarkov — mette in moto un dispositivo segreto … che sarebbe identico oggi, se si trattasse di occupare i nostri paesi, grazie ad agenti ben piazzati nelle strutture occidentali e grazie a mezzi tenici perfettamente a punto. Non solo i radar della NATO sono completamente ciechi e sordi per quarantotto ore, ma rapporti contraddittori circolanti negli ambienti alleati, perfino in seno alla stessa organizzazione, accrescono l’incertezza: il governo di Mosca avrebbe deciso l’invasione oppure no? Vi sarebbero quindi stati movimenti di truppe? Non se ne coglieva nessuno, anche dove continuava la sorveglianza; e non si vedeva nulla, nelle vicinanze della Cecoslovacchia, poiché l’accecamento era completo.
Nella notte del 20 agosto, alle ore 23 e 40, un aereo dell’Aeroflot sovietica chiede alla torre di controllo di Ryzyne Praga di poter effettuare uno scalo tecnico, poiché ha noie da esaminare urgentemente. Al momento dell’atterraggio sbarcano un centinaio di uomini che si impadroniscono della torre di controllo, poi degli edifici centrali. Sono gli Spetnaz, le truppe speciali di intervento, e fra esse numerosi ufficiali superiori del KGB. In pochi minuti l’aeroporto è isolato da Praga e l’accesso è vietato a chiunque.
Tre minuti dopo questo primo aereo, e con una frequenza di un altro aereo ogni tre o quattro minuti, in trentacinque minuti atterrano dieci apparecchi da trasporto — Antonov 12 e 24 — e scaricano truppe speciali, che si dirigono immediatamente verso Praga.
Alle ore 23 e 22, duecentomila uomini delle truppe del Patto di Varsavia hanno cominciato, da parte loro, a entrare in Cecoslovacchia dalla Germania Orientate, dalla Polonia e dall’Ungheria, mentre le poche divisioni sovietiche di stanza in permanenza nel paese non si sono ancora messe in moto per non attirare l’attenzione.
All’alba del 21 agosto 1968, lavoratori cechi si accorgono, andando al lavoro, che carri armati e autoblinde sovietiche prendono posizione in piazza San Venceslao, a Praga. Secondo un dispaccio della stessa agenzia governativa d’informazione CTK si raccolgono in gruppi e fanno «bastione con i loro corpi, per bloccare questa avanzata».
Rapidamente dei giovani saltano sui carri armati, tentano di incendiarli e disegnano sui loro fianchi croci uncinate per indicare che si stanno comportando come i nazionalsocialisti. Verso le ore 20, lo sciopero è generale. Per più giorni emittenti radio clandestine trasmettono notizie e parole d’ordine. Una resistenza intelligente non da’ tregua agli invasori rivolgendosi a loro in lingua russa, cambia la segnaletica stradale per disorientare i loro movimenti e spera che questi avvenimenti aprano gli occhi ai comunisti ingannati e riuniscano contro l’Unione Sovietica quanti sino ad allora li sono stati solamente per rassegnazione oppure per opportunismo. Si tratta di una resistenza nazionale e spirituale. Infatti il cardinale Josef Beran, mons. Jan Chryzostom Korec, mons. Stepan Trochta e, dietro a loro, centinaia di sacerdoti, sono uomini di fede, coraggiosi e patrioti. Sostengono una protesta popolare che evita le provocazioni insensate, ma che non manca di manifestare i propri sentimenti. Ma, come nel caso della Polonia e dell’Ungheria, nel 1956, i governi occidentali moltiplicano passi e richieste, dirette o indirette, affinché Praga si pieghi e nulla possa disturbare il Nuovo Ordine che si è instaurato in Europa dopo Teheran e dopo Yalta. Uno dei direttori d’orchestra contro l’atteggiamento del popolo cecoslovacco è Willy Brandt che, qualche mese dopo, sarà il nuovo cancelliere della Germania Federale. Chi ricorda quanto dichiara Charles de Gaulle il 24 agosto, alla fine del terzo giorno di questa resistenza popolare contro i mezzi corazzati dell’Unione Sovietica? “La Francia è pronta a unirsi a tutti gli Stati europei, e soprattutto all’Unione Sovietica, decisi a prospettare una politica più umana, quella della pace”. Si tratta di una pace da costruire sui cadaveri di Praga e di Bratislava, di una pace cogestita in Europa con l’invasore, di una pace che giustifica la tirannide di Mosca. Qualche giorno fa, a proposito del Muro di Berlino e delle sue vittime, il portavoce dell’ex cancelliere federale Helmut Schmidt «giustificava» il Muro, le sue vittime e il riscatto a peso d’oro degli uomini e delle donne fatti ogni anno prigionieri dalla Gestapo tedesco-orientale, perché avevano tentato di evadere! Questo traffico di carne umana renderebbe più «umane» le relazioni fra Est e Ovest! E, come se non bastasse, il signor Boelling — questo il nome dell’uomo politico tedesco — ha ringraziato i governi di Mosca e di Berlino Est per aver elevato questo muro e i suoi prolungamenti in filo spinato e minati, fra le due Germanie.
Questa è la politica occidentale vent’anni dopo gli avvenimenti di Praga del 1968. E il cancelliere federale Helmut Kohl si appresta a fare una visita ufficiale a Mosca, nel mese di ottobre, per celebrare la distensione fra Est e Ovest, proprio quando cade l’anniversario delle repressioni del 1956 in Ungheria.
Mikhail Gorbaciov ha tutte le ragioni per essere sorridente. Infatti l’Occidente lo paga tutti i giorni per aiutarlo a conservare il Nuovo Ordine nato dalla guerra, e i governi delle due Germanie sono a suo fianco, come Stalin aveva dalla sua parte quello di Berlino nell’agosto del 1939.