Plinio Corrêa de Oliveira, Cristianità n. 45 (1979)
Per un ordine sociale cristiano nazionale e sovranazionale
Il 13 dicembre scorso il professor Plinio Corrêa de Oliveira, presidente del consiglio nazionale della Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Famìlia e Propriedade (TFP), ha compiuto settant’anni. La data è certamente meritevole di essere ricordata, se non altro per augurare ogni bene al noto pensatore cattolico brasiliano. Ma ha maggiore titolo alla commemorazione e alla memoria un’altra ricorrenza, pure caduta nel settembre scorso, e cioè quella che ne segna il cinquantesimo di apostolato. Tanti sono, infatti, gli anni trascorsi da quando, nel 1928, Plinio Corrêa de Oliveira partecipava al congresso della Gioventù Cattolica, tenuto a San Paolo precisamente dal 9 al 16 settembre di quell’anno. Da allora a oggi la sua vita è stata ininterrottamente e completamente dedicata al servizio della santa Chiesa e della civiltà cristiana, Per rievocare degnamente le due ricorrenze, pubblichiamo, con un titolo complessivo redazionale, una serie di articoli a commento di un discorso di Papa Pio XII. Comparsi in Catolicismo – la prestigiosa rivista cattolica di cultura, edita sotto l’egida di S. E. Rev.ma mons. Antonio de Castro Mayer, vescovo di Campos, in Brasile -, anno I , n. 8, agosto 1951; n. 9, settembre 1951; n. 11, novembre 1951; n. 12, dicembre 1951, i loro titoli originali sono, rispettivamente: O culto cego do numero na sociedade contemporanea, O mecanicismo revolucionario e o culto do numero, A sociedade cristã e organica e a sociedade mecanica e pagã, A estrutura supra-nacional no ensinamento de Pio XII. I testi sono riprodotti nella loro integrità, senza alcun ritocco, neppure nei loro riferimenti a eventi contingenti, per conservare intatti, tra l’altro, il carattere e il sapore del magistero contro-rivoluzionario del professor Plinio Corrêa de Oliveira, magistero che si esercita principalmente nell’intervento in concreto, e che intende rispondere soprattutto a problemi anche storicamente reali. Per facilitare al lettore la possibilità di seguire il commento al discorso pontificio, anche di questo pubblichiamo il testo completo.
1. Il culto cieco del numero nella società contemporanea
Questa rivista pubblica oggi il discorso del Santo Padre Pio XII ai dirigenti del Movimento Universale per una Confederazione Mondiale. Tale documento contiene, nella sua concisione, affermazioni e insegnamenti capaci di orientare i cattolici in una materia della più palpitante attualità. Vogliamo perciò dedicare questo articolo al commento di alcuni suoi passi.
Una certa mentalità oggi molto diffusa, e che potremmo forse chiamare «democratismo ottimista», vede nel modo seguente una strutturazione ideale del mondo futuro:
a. costituzioni politiche che assicurino la elettività e la temporaneità delle funzioni legislative ed esecutive, il carattere vitalizio, la inamovibilità e la irriducibilità degli introiti dei membri del potere giudiziario. Con ciò si sarà assicurata la piena uguaglianza di tutti i cittadini, la onnipotenza della opinione pubblica, la indipendenza dei magistrati;
b. a completamento di queste misure, il voto segreto e il suffragio universale e diretto. L’elettore non subirà la pressione dei potenti, e potrà deporre nell’urna un voto assolutamente libero, che sia la espressione fedele della sua saggezza e del suo patriottismo. La funzione elettorale non sarà riservata a piccole minoranze di aristocratici, di plutocrati o di intellettuali, ma apparterrà a tutta la massa degli uomini onorati e lavoratori. Quindi la nazione si governerà da sola, senza correre il rischio che gli affari pubblici siano sacrificati a piccoli gruppi i cui interessi siano contrari al bene comune;
c. siccome, in ultima analisi, il governo spetterà alla massa, e questa sarà l’autentica sovrana, sarà assicurato l’ideale della libertà umana. Infatti, un popolo sovrano è necessariamente libero, non essendovi espressione più completa della libertà che la sovranità, cioè il potere supremo di fare tutto quello che si vuole. D’altra parte nel computo rigorosamente matematico dei voti trionferà l’ideale della uguaglianza umana. Nessun privilegio assicurerà al suffragio di un cittadino un peso maggiore che a quello di un altro. Tutti potranno ugualmente influire sui destini della patria, uguali in diritti e doveri, così come in amore e in sollecitudine per gli interessi del paese;
d. un sistema tanto capace di armonizzare e di disciplinare la vita sociale deve, per forza, produrre gli effetti migliori se applicato alla vita internazionale. Ogni nazione designerebbe per un super-parlamento mondiale una rappresentanza proporzionale al numero dei suoi abitanti. I membri del super-parlamento eleggerebbero con voto segreto e diretto il presidente della Repubblica Mondiale. Si nominerebbero, possibilmente con atto congiunto del presidente della Repubblica Mondiale e del super-parlamento, i titolari del Potere Giudiziario Universale. Le nazioni sarebbero libere e uguali tra loro nello stesso senso e nella stessa misura in cui lo sarebbero gli individui nella struttura democratica interna di ciascun popolo. Assicurata in questo modo la libertà e l’uguaglianza, le lotte scomparirebbero, perché l’uomo lotta solo quando è oppresso, o quando è umiliato da qualche disuguaglianza. La fraternità nascerebbe necessariamente dall’insieme di due principi così saggi e così sacri. Libertà, Uguaglianza, Fraternità, non è proprio questo il sogno del mondo dalla Rivoluzione francese? Non si sintetizzano in queste parole tutte le aspirazioni di una umanità ansiosa di trovare, infine, la pace e il benessere definitivi? Non sono questi i mezzi nei quali da più di centocinquant’anni gli uomini ripongono il meglio della loro fiducia per realizzare i loro ideali di felicità e di dignità? Non dobbiamo dunque riconoscere che ci troviamo di fronte alla soluzione dei problemi del mondo contemporaneo?
Probabilmente molti lettori troveranno in questa formulazione di principi l’espressione stessa della loro mentalità. Forse la maggior parte non penserà in questi termini punto per punto, ma riconoscerà in quanto è stato detto la linea generale del suo pensiero. Altri sorrideranno con uno scetticismo disincantato. E, infine, non mancherà chi discordi in modo perentorio. E la Chiesa?
I quattro dogmi moderni
Cominciamo a distinguere. Nell’insieme di principi, di istituzioni pubbliche e di aspirazioni che abbiamo appena descritto, vi sono quattro note dominanti, che si possono così formulare:
a. l’idea che la direzione degli affari pubblici, sia nazionali che internazionali, può essere legittimamente esercitata solo dal popolo, unico autentico sovrano, da cui emana ogni potere;
b. l’idea che il popolo, unico interessato ai destini dello Stato, e forse del super-Stato mondiale, è per ciò stesso il più competente a dirigere gli affari pubblici;
c. che il regime rappresentativo, consistente (nella sua espressione più ampia e più genuina) nel suffragio universale e nella investitura degli eletti da parte del popolo a tutte le cariche di comando, assicura la manifestazione di un’autentica volontà popolare, e la fedele esecuzione di tutto quanto questa desidera;
d. che l’ordine internazionale esige la creazione di un super-governo mondiale, per ragioni identiche a quelle che dimostrano la necessità dello Stato per mantenere l’ordine tra gli individui.
È facile percepire che questi sono i quattro punti in cui si condensa tutto il pensiero politico della Rivoluzione francese, e che essi sono come i quattro dogmi sui quali si è costruita la società contemporanea. Anche in certe ideologie politiche odierne, in apparenza molto contrastanti con la Rivoluzione francese, come il nazismo e il comunismo, che sono così profondamente antiliberali, si percepisce facilmente l’influenza di questo pensiero. Tanto il dittatore bruno quanto il dittatore rosso basavano o basano tutto il loro potere, almeno in tesi, su plebisciti-monstre, che ratificano in nome del popolo sovrano e onnipotente gli atti del capo dello Stato.
Chiedersi qual è la posizione della Chiesa di fronte a questi quattro grandi dogmi della società contemporanea comporta, in larga misura, la definizione della posizione della Chiesa di fronte al mondo di oggi. L’esame di una materia così delicata può essere fatto solo mediante l’analisi di ognuno di questi «dogmi» alla luce della dottrina cattolica.
Il governo popolare
L’obiettivo di questo articolo sta nello studiare più specificamente gli insegnamenti di Pio XII sul tema di cui ci occupiamo. Perciò tratteggeremo molto rapidamente la posizione della Chiesa, illustrata in modo esauriente dai documenti pontifici che si sono susseguiti da Pio VI a Pio XI, di fronte al dogma della Sovranità popolare.
La Chiesa ha sempre insegnato che il potere non viene dal popolo, ma da Dio, infatti, Dio ha creato la natura umana in modo tale che gli uomini devono necessariamente avere un governo. Poiché Dio è onnipotente, gli sarebbe stato facile crearci senza che avessimo la necessità di avere sopra di noi qualcuno che ci governi. Dio ci ha creati come siamo con un atto libero e saggio della sua volontà onnipotente.
Dunque, a causa di questa adorabile volontà, esistono sulla terra governi a cui gli uomini devono obbedienza. Coloro che esercitano il potere pubblico non lo fanno, quindi, per l’autorità del popolo, ma per l’autorità di Dio.
Ne derivano conseguenze pratiche molto importanti. La prima di esse è che nella concezione cattolica i governanti sono costituiti per comandare, e i sudditi per obbedire. In caso contrario, se il popolo fosse sovrano, il governante non dovrebbe fare altro che obbedire alla volontà del popolo. Altra conseguenza importante è che, secondo la dottrina cattolica, è perfettamente normale che il potere sia esercitato da un monarca, o da una aristocrazia. Al contrario, i partigiani della sovranità popolare sono naturalmente portati ad accettare come unica forma di governo la democrazia, in cui il voto popolare indica coloro che devono esercitare il governo.
Resta da vedere se la Chiesa, che è contraria alla dottrina della sovranità popolare, condanni anche la repubblica democratica, cioè la forma di governo nella quale il supremo magistrato della nazione è eletto con voto popolare.
Dal momento che la nostra natura è tale che nell’infanzia siamo ignoranti, abbiamo bisogno di chi insegni. Quindi è volontà di Dio che esista chi insegni, e l’autorità magisteriale sui discepoli non deriva da una delega da parte di questi, ma da Dio stesso. Tuttavia, è assolutamente certo che Dio, che ha voluto che vi fosse chi insegnasse, ha lasciato al giudizio degli uomini la scelta dei mezzi per la designazione di coloro ai quali incombe il compito di insegnare. E, così, è ugualmente lecito che il professore sia scelto attraverso una libera nomina, per concorso o per promozione dovuta ad anzianità di servizio. Tocca agli uomini adottare una di queste modalità, a seconda delle circostanze di ogni tempo e di ogni luogo. Lo stesso si può dire del governo: esiste per volontà di Dio, ma il modo di scegliere il supremo magistrato può variare a seconda delle circostanze, ed essere in alcuni paesi vitalizio ed ereditario, in altri temporaneo ed elettivo. Se, quindi, con repubblica o più ampiamente con democrazia intendiamo il semplice fatto che la suprema magistratura possa essere ricoperta per via di elezione popolare, è insegnamento esplicito di Leone XIII che essa non contrasti per nulla con la dottrina cattolica.
Questo insegnamento – insistiamo per evitare confusioni pericolose e molto diffuse – comporta però due importanti riserve. Anche nel caso di una repubblica, il supremo magistrato non è uno schiavo della volontà popolare, bensì un autentico governante. D’altra parte, bisogna ricordare che la democrazia non è preferita o imposta dalla Chiesa, contrariamente a quanto un preconcetto molto corrente fa credere. Secondo questo preconcetto il Vangelo predica l’uguaglianza politica, di modo che ogni disuguaglianza offenderebbe lo spirito di umiltà e di mansuetudine insito nell’insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo. La monarchia e l’aristocrazia, che si fondano sulla disuguaglianza, sarebbero quindi contrarie allo spirito evangelico. Niente di più falso! L’umiltà porta a volere che ciascuno stia al posto che gli compete, e non a desiderare che tutti stiano fuori dai rispettivi posti. Così, se vi sono ricchi e poveri, nobili e plebei, colti e incolti, l’umiltà deve portare il cristiano a volere che ciascuno sia trattato per quello che è, e abbia una partecipazione alla cosa pubblica proporzionata ai suoi meriti e al suo rango. È legittimo che un popolo si organizzi democraticamente. Però non è legittimo che consideri ingiuste, retrograde o false le altre forme di governo; che cerchi di imporre la sua particolare forma di governo agli altri con il pretesto del progresso o della civiltà; oppure che, per un amore cerebrale e teorico al democratismo, faccia una rivoluzione come quella del 1789, violando diritti acquisiti, alterando bruscamente tutta la evoluzione storica di una civiltà e distruggendo perfino istituzioni e vite, per ridurre tutto a un nuovo ordine di cose.
Relativamente a tutto ciò che è contenuto nel primo principio, si giunge quindi alla conclusione che la Chiesa accetta solo questo: la repubblica è una forma di governo lecita.
Quando Leone XIII definì questo punto, sul finire del secolo XIX, fece scalpore. Non mancò chi accusasse il grande Pontefice di patteggiare per opportunismo con i principi trionfanti della Rivoluzione francese. Un semplice studio delle organizzazioni politiche vigenti nel Medioevo con la completa approvazione della Chiesa, mostrerebbe che il pensiero cattolico si era definito in questo senso molto prima della Rivoluzione. In certi comuni svizzeri, tedeschi, italiani del Medioevo, il governo era esercitato da persone elette dal popolo, senza che nessuno pensasse di vedervi una infrazione alla dottrina cattolica. Lo scalpore prodotto dall’insegnamento di Leone XIII fu dovuto al fatto che il suo pensiero non fu ben compreso. Chi voglia studiare a fondo il tema troverà nei documenti di Pio XII direttive geniali per essere illuminato perfettamente in proposito.
La infallibilità dell’elettorato
Esaminiamo il dogma della infallibilità popolare. Che cosa ne pensa la Chiesa? Se vogliamo intenderlo alla lettera, la risposta può essere soltanto negativa. Dopo il peccato originale, tutti gli uomini sono soggetti all’errore. Soltanto il Magistero della Chiesa possiede il privilegio della infallibilità. Ma questo privilegio gli deriva unicamente dalla assistenza divina promessa da Gesù Cristo. Siccome Cristo non ha promesso la infallibilità al popolo, è chiaro che il suffragio universale è fallibile. Un cattolico coerente può soltanto sorridere della ingenuità di coloro che immaginano che la istituzione del suffragio universale, diretto e segreto, per il fatto stesso di affidare alla saggezza popolare la gestione degli affari pubblici, garantisca automaticamente l’assennatezza di tutte le soluzioni che si intendano dare ai problemi relativi al bene comune.
Mutatis mutandis, dobbiamo solo ripetere a questo proposito ciò che abbiamo già detto a proposito del dogma precedente. Delle tre forme di governo – monarchia, aristocrazia, democrazia – nessuna, considerata in sé stessa, conduce necessariamente alla verità, o necessariamente all’errore. Il maggiore o minore margine di «fallibilità» di ciascuna forma di governo varia a seconda delle circostanze di tempo, di luogo, di indole, di tradizioni, di cultura peculiari a ogni paese.
Quindi, dobbiamo esaminare quali sono le condizioni necessarie perché il governo del popolo porti a soluzioni esatte dei problemi nazionali.
Popolo e massa
Molte di queste condizioni dovrebbero essere ricordate. La più importante di esse è che il popolo sia realmente popolo e non massa. Infatti democrazia è governo del popolo e non governo della massa.
A questo riguardo, Pio XII, nel suo radiomessaggio natalizio del 1944, stabilisce una distinzione che non è esagerato definire geniale, e che apre tutto un orizzonte nuovo per gli studi di sociologia cattolica: «Popolo e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, “massa” sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali – al proprio posto e nel proprio modo – è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l’impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl’istinti o le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell’ultra bandiera. Dalla esuberanza di vita di un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune» (1). Così, dunque, il primo elemento che differenzia il popolo dalla massa è il fatto che si denomina popolo una comunità umana in cui tutti gli uomini hanno principi, convinzioni, movimento proprio, nozione chiara dei loro diritti e doveri; mentre la massa, costituita da uomini privi di idee, di principi, di formazione morale, senza nessuna iniziativa propria, ha come unica norma la immaginazione, che trascina i suoi membri in un senso o in un altro, a seconda del soffio della demagogia partitica o del governo.
Pio XII ricorda poi un’altra distinzione tra popolo e massa: «In un popolo degno di tal nome, tutte le ineguaglianze, derivanti non dall’arbitrio, ma dalla natura stessa delle cose, ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione sociale – senza pregiudizio, ben inteso, dalla giustizia e della mutua carità – non sono affatto un ostacolo all’esistenza ed al predominio di un autentico spirito di comunità e di fratellanza. Che anzi esse, lungi dal ledere in alcun modo l’uguaglianza civile, le conferiscono il suo legittimo significato, che cioè, di fronte allo Stato, ciascuno ha il diritto di vivere onoratamente la propria vita personale, nel posto e nelle condizioni in cui i disegni e le disposizioni della Provvidenza l’hanno collocato» (2).
Popolo e plebe
Quest’ultimo punto merita rilievo. Il popolo non è soltanto la plebe, e neppure soltanto la maggioranza: è tutta la popolazione. La giusta uguaglianza non è quella che elimina le classi superiori dissolvendole nella plebe, ma quella che rispetta l’esistenza di tutte le classi sociali assicurando a ciascuno «il diritto di vivere onoratamente la propria vita». E questo non vuol dire che si deve dare ai plebei il diritto di vivere come nobili: né ai lavoratori manuali di vivere come borghesi; né agli illetterati di vivere come uomini colti: ciascuno ha, per certo, diritto a una vita onorata, diversa dalle detestabili condizioni di vita di una certa parte della classe operaia di oggi, senza però esorbitare dalle «condizioni in cui i disegni e le disposizioni della Provvidenza l’hanno collocato». Popolo, quindi, nel linguaggio della Chiesa non è la maggioranza, e neppure la classe più modesta, ma tutta la popolazione di un paese, in quanto psicologicamente dotata di forte personalità individuale e collettiva: di una vita propria che anima lo Stato invece di lasciarsi da esso asfissiare; di una reale differenziazione di categorie sociali, dotate tutte di modello di vita e di cultura peculiari, ma tali che nessuno di questi modelli sia inferiore a quello che conviene alla naturale dignità dell’uomo.
Questi requisiti, come si vede, sono il contrario di quelli che avrebbe la società livellata e amorfa sognata dai rivoluzionari del 1789, e dai loro autentici successori, i socialisti dei nostri giorni.
Un tale «popolo», organico, gerarchizzato, vivo, può realmente pronunciarsi con saggezza a proposito di un determinato numero di problemi nazionali e soprattutto regionali. Mai però la massa, che per definizione è quasi soltanto capace di sbagliare.
Massa e suffragio
Passiamo al terzo «dogma». Il suffragio universale, basato sul computo numerico dei voti tutti uguali tra loro, esprime in modo adeguato la volontà del popolo?
Popolo è una società organica e gerarchica. Il suffragio popolare semplicemente numerico esprime o nasconde i caratteri gerarchici e organici del popolo?
La risposta non è difficile. Se tutti si possono ugualmente pronunciare su tutto, e nel computo dei voti di fatto tutti valgono allo stesso modo, di fatto questo sistema sarebbe idealmente conveniente per la massa, e molto difficilmente si adatterebbe a un autentico popolo.
Ne deriva che il sistema che conferisce alla semplice maggioranza numerica dei cittadini il diritto di formare la maggioranza nel potere legislativo, dirigere a suo piacimento quello esecutivo, ecc., molto difficilmente rappresenterà l’autentico popolo.
In altre parole, attraverso il suffragio universale è molto difficile che il popolo influisca sulla cosa pubblica.
Non sorprende quindi che nel discorso di Pio XII che Catolicismo oggi pubblica, si legga: «Dappertutto oggi la vita delle nazioni è disintegrata dal culto cieco del valore numerico. Il cittadino è elettore. Ma, come tale, egli non è in realtà che una delle unità il cui totale costituisce una maggioranza o una minoranza; che uno spostamento di qualche voto, anche di uno solo, basterà a capovolgere. Di fronte ai partiti egli conta soltanto per il suo valore elettorale, per l’apporto che il suo voto dà: del suo posto e del suo ufficio nella famiglia e nella professione non si tratta» (3).
Una società dominata dal «culto cieco del valore numerico» è massa, e non popolo. Pio XII vede una delle manifestazioni più caratteristiche di questo dominio del valore numerico proprio in un sistema elettorale che fa astrazione da tutto quanto l’elettore è nella struttura organica del popolo, per vedere in lui semplicemente un numero, una unità impersonale e anonima, perduta nella massa. Ci sembra che in un tale sistema lo Stato non sia altro che «un’agglomerazione amorfa d’individui» che «contiene in sé e […] aduna meccanicamente in un dato territorio»; mentre in realtà dovrebbe essere «l’unità organica e organizzatrice di un vero popolo» (4).
Nuovi indirizzi
Che fare? Evidentemente esaminare la possibilità di mutare indirizzo: «Dopo tutte le prove passate e presenti si oserebbero giudicare sufficienti le risorse ed i metodi odierni di governo e di politica? In realtà è impossibile risolvere il problema dell’organizzazione politica mondiale senza accettare di allontanarsi talvolta dalle vie battute, senza fare appello all’esperienza della storia, ad una sana filosofia sociale, e anche a un certo intuito dell’immaginazione creatrice», ci dice Pio XII nel discorso ai membri del Movimento Universale per una Confederazione Mondiale.
Ma, in quale direzione andare? Questo stesso discorso ci dà, in proposito, preziose indicazioni di carattere positivo, indicando l’indirizzo del futuro in una dipendenza delle istituzioni politiche e dei costumi dall’ordine organico naturale.
In questa direzione si incontrerà la soluzione per il problema di una struttura internazionale del mondo. E questo ci condurrà allo studio del quarto «dogma» contemporaneo.
Lasciamo, però, questi due punti per un altro numero di Catolicismo.
2. Il meccanicismo rivoluzionario e il culto del numero
Nel numero precedente di Catolicismo abbiamo esaminato il discorso dì Pio XII ai dirigenti del Movimento Universale per una Confederazione Mondiale, che contiene importanti insegnamenti relativi alla struttura dello Stato e della società internazionale ai nostri giorni.
In tale commento abbiamo mostrato come la Chiesa – secondo gli insegnamenti di Leone XIII – non giudica inammissibile nessuna delle forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. Tuttavia, il concetto di democrazia, nato dalla Rivoluzione francese, e fondato sui quattro grandi dogmi della sovranità popolare, della infallibilità popolare, della fedeltà assoluta al suffragio universale come espressione della volontà popolare, e della organizzazione della repubblica democratica rappresentativa universale, è incompatibile con il pensiero della Chiesa.
Un grande equivoco
Quando democratici alla maniera del 1789 e cattolici parlano di «governo del popolo», vi sono abitualmente tra loro due gravi equivoci, uno sulla parola «governo», l’altro sulla parola «popolo». A causa di questi equivoci la collaborazione tra gli uni e gli altri ha parvenze di possibilità. Quanto alla parola «governo», per i cattolici, tutto il potere viene da Dio, sovrasta i sudditi, e consiste nel dirigere il popolo; al contrario, per gli uomini del 1789 il potere viene dal popolo, i sudditi dettano la loro volontà ai governanti, e governare non significa dirigere la nazione, ma fare la volontà della massa. Quanto alla parola «popolo», per la Chiesa esso è la società umana nella quale ciascun uomo è dotato di convinzioni e principi personali stabili, logici, capaci di determinare durevolmente tutto uno stile di vita e di azione; una società nella quale i gruppi sociali, definiti e costituiti, sono ricchi di vita; una società nella quale le classi sociali sono ammesse, riconosciute e gerarchizzate; una società, infine, nella quale vi sono élites per ereditarietà, per cultura, per capacità, amate, ammirate, riconosciute, e classi popolari che vivono, nella modesta ma profonda dignità della loro condizione, la vita laboriosa, tranquilla, piena, che compete a figli di Dio. Al contrario, per gli uomini del 1789, il popolo è solo la «massa», cioè una moltitudine inorganica di persone tutte uguali, tutte anonime, tutte modellate, uniformizzate, standardizzate, che vivono di un pensiero non individuale ma collettivo, che non procede dalle profondità mentali di ciascuno, ma dai capricci e dalle passioni della demagogia. Per gli uomini del 1789, «governo del popolo» è governo della massa. Per i cattolici è la partecipazione alla cosa pubblica di una società orientata da élites.
Stabilite queste nozioni generali, sottolineiamo la giustezza delle osservazioni del Santo Padre Pio XII sul suffragio universale, semplice computo numerico di voti in cui le opinioni degli elettori sono prese in considerazione soltanto secondo la loro quantità e che, quindi, è molto più adeguato a esprimere l’opinione della massa che non il pensiero dell’autentico popolo.
Il problema che si pone a questo punto è il seguente: se, secondo la dottrina cattolica, «governo del popolo» non è assolutamente ciò che intendono gli uomini del 1789 («intendono», diciamo, e non «intendevano», dal momento che oggi vi sono più uomini del 1789 che in pieno Terrore, poiché il numero dei rivoluzionari non ha fatto che crescere continuamente), come potrebbe esistere, nell’ordine concreto dei fatti, ciò che la Chiesa intende per legittimo «governo del popolo»?
Vita organica e unitarismo meccanico
Ritorniamo al testo del discorso pontificio. Leggendolo con attenzione, vedremo che Pio XII stabilisce una serie di antitesi:
a. il mondo «deve essere esente dall’ingranaggio di un unitarismo meccanico», per giungere a una organizzazione che «si armonizzasse con l’insieme delle relazioni naturali, con l’ordine normale e organico che regge i rapporti particolari degli uomini e dei diversi popoli»;
b. questo «unitarismo meccanico» esiste attualmente «nel campo nazionale e costituzionale» sotto la forma di un «culto cieco del valore numerico». In altre parole, «il cittadino è elettore. Ma, come tale, egli non è in realtà che una delle unità il cui totale costituisce una maggioranza o una minoranza; che uno spostamento di qualche voto, anche di uno solo, basterà a capovolgere. Di fronte ai partiti, egli conta soltanto per il suo valore elettorale, per l’apporto che il suo voto dà». Al contrario, si dovrebbe avere anche considerazione «del suo posto e del suo ufficio nella famiglia e nella professione», di cui negli attuali sistemi elettorali «non si tratta»;
c. questo «unitarismo meccanico» si manifesta «nel campo economico e sociale» nel senso che «non c’è nessuna unità organica naturale tra i produttori», e, al contrario, «l’utilitarismo quantitativo, la sola considerazione dei costi di produzione, è l’unica norma, che determini i luoghi di produzione e la distribuzione del lavoro, dal momento che è la “classe” che divide artificialmente gli uomini nella società e non più la cooperazione nella comunità professionale»;
d. «nel campo culturale e morale», invece di dominare i valori oggettivi e sociali, «la libertà individuale, liberata da tutti i vincoli, da tutte le norme, da tutti i valori oggettivi e sociali, non è in realtà che una mortale anarchia, soprattutto nella educazione della gioventù»;
e. nella sfera internazionale è necessario evitare che penetrino nella futura organizzazione mondiale «i germi mortali dell’unitarismo meccanico»; e al contrario, questa organizzazione «avrà una autorità effettiva solo in quanto salvaguarderà e favorirà dovunque la vita propria di una sana comunità umana, di una società in cui tutti i membri insieme concorrono al bene dell’intiera umanità».
Libertà cristiana e meccanicismo rivoluzionario
In tali antitesi si delineano con chiarezza due vie, una che si deve seguire e un’altra che si deve evitare. Precisiamo, per un confronto, entrambe le linee, situando il pensiero pontificio nel quadro generale della dottrina tradizionale.
I
Dottrina cattolica: Gli uomini sono naturalmente diseguali per il loro valore intellettuale e morale, per la loro capacità artistica, per la loro costituzione fisica, per le tradizioni di cui vivono, per l’educazione che hanno ricevuto, e per tutte le minute peculiarità individuali, di anima e di corpo, che derivano da ciò che un essere ha di più profondo e specifico, e che caratterizzano la sua personalità. Da questo fatto naturale deriva la struttura gerarchica della società.
Pensiero rivoluzionario: Nega la struttura gerarchica della società, e, di conseguenza, non prende in nessuna considerazione le disuguaglianze di anima e di corpo degli uomini, e neppure le loro caratteristiche individuali. Lo Stato non conosce uomini concreti, come sono nella vita e nella realtà, ma uomini in tesi, uomini in astratto, uomini impersonali e anonimi.
II
Dottrina cattolica: Secondo la logica dei fatti, l’ordine naturale delle cose, espresso attraverso le mille e mille disuguaglianze legittime esistenti tra gli uomini, dà naturalmente origine a tutta una serie di rapporti tra persone, famiglie, gruppi sociali, gruppi economici o professionali, classi, che sono prodotti dalla realtà stessa, e costituiscono il gioco fecondo delle forze vive della società.
Pensiero rivoluzionario: Tutto questo non è a conoscenza dello Stato e compete al puro campo dell’attività privata. La vita dello Stato ignora tutti questi fatti, e non li prende in nessuna considerazione.
III
Dottrina cattolica: La ragione di essere dello Stato sta nel conservare questa vita nella linea del decalogo e del bene comune; nel favorirla in tutti i modi; e, quindi, nel modellarsi come è necessario perché questa vita segua il suo corso, sempre più ricca della linfa della realtà naturale. Fioriscono così liberamente le famiglie, i gruppi sociali, le classi sociali, gli organismi che promuovono la vita culturale, la carità ecc. Non vi è una legge statale uniforme per tutti. Ciascuno si struttura secondo il costume, le necessità di ogni giorno, le circostanze storiche, ecc. Questi organismi quasi infinitamente diversificati tra loro nelle nazioni molto vaste e popolose, devono avere la possibilità di intervenire nella vita pubblica, ciascuno nella misura della sua natura, della sua funzione storica, della posizione che occupa nell’insieme degli altri organismi.
Pensiero rivoluzionario: Lo Stato non prende in considerazione tutta questa sfera di attività, perché corre il rischio di snaturarle lasciandosi impregnare da essa. Questo rischio diventa più incombente nel caso che si formino grandi famiglie, grandi istituzioni, grandi classi sociali che influenzino lo Stato. Perciò esso, che in via di principio non dovrebbe conoscere tali problemi, interviene in essi, per ridurre al suo controllo le forze sociali. È il punto di transizione dal liberalismo al socialismo.
IV
Dottrina cattolica: Lo Stato non può scegliere arbitrariamente la sua forma di governo. Esso sarà monarchico, aristocratico o democratico nella misura in cui lo stesso ordine naturale delle cose produrrà con una lenta e graduale evoluzione storica l’una o l’altra di queste forme.
Pensiero rivoluzionario: Lo Stato deve sempre essere democratico, e dirigere la vita sociale in modo che la costituzione di aristocrazie sia impossibile.
V
Dottrina cattolica: La modalità attraverso cui le famiglie, e gli altri gruppi sociali intermedi, intervengono nella vita politica, è determinata a poco a poco dalla vita stessa dei gruppi e della società piuttosto che da un piano puramente teorico e prestabilito.
Pensiero rivoluzionario: La forma dello Stato è il meccanismo teoricamente scelto dai pensatori del 1789. Non consegue dalla vita, ma da un piano fatto a tavolino. Tutto questo piano deve essere messo in opera dalle diverse unità sociali come i pezzi di un meccanismo svolgono la parte prestabilita da chi li ha ordinati. Si muovono non per la vita che è presente dentro a essi, ma per il movimento che a essi viene dallo Stato.
Da questo si capisce che cosa il Sommo Pontefice chiama «meccanico», e che cosa chiama «vitale». Rimane da vedere qual’è il rapporto tra questi concetti e il culto del numero, di cui ci parla nel suo discorso.
Il culto del numero e il meccanicismo rivoluzionario
Numero è una parola che suppone la nozione di quantità. Ben distinta da questa è la nozione di qualità. Il culto del numero è la instaurazione di un ordine di cose nel quale la quantità sia criterio supremo. Evidentemente, tale ordine di cose è profondamente diverso da un altro in cui si ponesse nel dovuto rilievo il fattore «qualità». Nella concezione rivoluzionaria, essenzialmente ugualitaria, il fattore qualità è necessariamente pregiudicato a favore della quantità. Infatti, se tutti sono uguali, devono avere la stessa cultura, la stessa educazione, lo stesso modello di vita, la stessa influenza, lo stesso prestigio. E questo porta per forza all’idea di dare più valore alla alfabetizzazione che alla formazione delle élites; di fare diventare più abbondante la produzione invece di renderla anche migliore; di modellare e standardizzare tutto, come conviene al tipo astratto di uomo, al quale tutti devono livellarsi, non essendo loro lecito rimanere al di qua o al di là del modello ufficiale.
Per uno Stato meccanico, nel quale tutta l’attività si fa esclusivamente sotto l’impulso delle leggi, dei decreti, delle circolari ministeriali e dei regolamenti, per una società composta di uomini anonimi e uguali perduti nella massa, ogni uomo non è altro che un numero. E ogni unità umana ha bisogno di unità di cultura, di alimentazione, di abitazione, necessarie perché possa prolungare la propria esistenza e moltiplicare la propria discendenza.
La quantità è l’ideale naturale, l’unico obiettivo raggiungibile da parte dello Stato meccanico. Molto diverso è il problema visto dal punto di vista della qualità, poiché questa può nascere soltanto dalla formazione delle élites di nascita e di cultura, dal perfezionamento delle potenzialità spirituali esistenti in misura tanto disuguale tra gli uomini, e della libera proiezione di queste disuguaglianze in tutto il corpo sociale, ben inteso nei limiti in cui lo permettono la giustizia e la carità insegnate dalla stessa dottrina della Chiesa.
Allontanandosi dalle «vie battute»
Come si costituirebbe lo Stato, nelle attuali condizioni della società, secondo i principi che sono appena stati enunciati? In altri termini, se si liberasse l’umanità contemporanea dal busto di ferro delle leggi, delle ordinanze, dei decreti, dei regolamenti di conio socialista che in tutti i modi tolgono a essa la naturale possibilità di sviluppo, in che direzione andremmo?
È come chiedersi che direzione prenderebbe nell’aria un passero che fosse liberato dalla gabbia. È imprevedibile. Si potrebbe semplicemente dire che volerebbe. Ma nessuno riuscirebbe a stabilire preventivamente punto per punto che movimenti farebbe, che direzioni prenderebbe nella libera espansione della sua natura viva.
Consideriamo una società autenticamente e profondamente cattolica, fermamente disposta a svolgere la propria attività nella più rigorosa osservanza dei principi del decalogo, e una pubblica autorità che consideri come sua missione più elevata punire il male e stimolare il bene – prendendo le parole «male» e «bene» proprio nel senso in cui le intende la Chiesa – e ci chiediamo come si strutturerebbe, nel caso che si liberasse dal culto del numero, dalla tirannia degli organi meccanici che rendono falso il suo andare come lo farebbero apparecchi ortopedici nel caso di uomini con i piedi sani. Che forme di governo che forme di organizzazione sociale, culturale, economica, assumerebbero tali società?
Dice Pio XII nel suo discorso che «in realtà è impossibile risolvere il problema dell’organizzazione politica mondiale senza accettare di allontanarsi talvolta dalle vie battute, senza fare appello all’esperienza della storia, ad una sana filosofia sociale, e anche a un certo intuito, dell’immaginazione creatrice». Con il concorso di tutti questi elementi, storia, sana filosofia, intuito dell’immaginazione creatrice, animo risoluto ad abbondonare le strade battute dal meccanicismo numerico del 1789, è possibile fare congetture per il futuro? In una certa misura no; infatti, come abbiamo detto a proposito del passero liberato dalla gabbia, vi è molto di imprevedibile nell’operare degli esseri viventi. Ma, d’altro lato, posto che la natura umana e la legge di Dio non mutano, posto che in passato abbiamo già avuto società costituite da libero sviluppo delle energie naturali legittime, è possibile prevedere alcune linee generali del futuro. Lo vedremo nel prossimo articolo.
3. La società cristiana e organica e la società meccanica e pagana
Continuando a estrarre i tesori di dottrina che si trovano nel discorso pontificio ai dirigenti del Movimento Universale per una Confederazione Mondiale, che abbiamo commentato in articoli precedenti, dopo avere analizzato i passi di questo documento relativi agli errori di struttura della società moderna, dobbiamo ricercare quali siano le linee generali che dovrà avere, secondo il pensiero di Pio XII, la società cristiana del futuro.
Parlando della vita internazionale, il Pontefice ha detto che la Chiesa vuole la pace: «Essa la vuole, e perciò si adopera a promuovere tutto ciò che, negli schemi dell’ordine divino, naturale e soprannaturale, contribuisce ad assicurare la pace. Il vostro movimento, Signori, si dedica a realizzare una organizzazione politica efficace del mondo. Niente di più conforme alla dottrina tradizionale della Chiesa, più conforme al suo insegnamento circa la guerra legittima o illegittima, soprattutto nelle congiunture presenti. Bisogna giungere dunque ad una organizzazione di tal genere, non fosse che per farla finita con una corsa agli armamenti in cui da decine di anni, i popoli si rovinano e si esauriscono in pura perdita.
«Voi siete d’opinione che, per essere efficace, l’organizzazione politica mondiale debba avere forma federalistica. Se con ciò intendete che essa deve essere esente dall’ingranaggio di un unitarismo meccanico, siete anche in questo d’accordo con i principii della vita sociale e politica fermamente enunciati e sostenuti dalla Chiesa. In realtà nessuna organizzazione del mondo sarebbe vitale se non si armonizzasse con l’insieme delle relazioni naturali, con l’ordine normale e organico che regge i rapporti particolari degli uomini e dei diversi popoli. Senza di che, qualunque ne fosse la struttura, le sarebbe impossibile sostenersi e durare.
«Perciò noi siamo convinti che prima cura debba essere quella di stabilire saldamente o di ripristinare questi principii fondamentali in tutti i campi: nazionale e costituzionale, economico e sociale, culturale e morale».
Passando al campo politico, Pio XII ha detto: «Dappertutto oggi la vita delle nazioni è disintegrata dal culto cieco del valore numerico. Il cittadino è elettore. Ma, come tale, egli non è in realtà che una delle unità, il cui totale costituisce una maggioranza o una minoranza; che uno spostamento di qualche voto, anche di uno solo basterà a capovolgere. Di fronte ai Partiti, egli conta soltanto per il suo valore elettorale, per l’apporto che il suo voto dà: del suo posto e del suo ufficio nella famiglia e nella professione non si tratta».
Ognuno alla vita economica e sociale il pontefice afferma che: «Non c’è nessuna unità organica naturale tra i produttori dal momento che l’utilitarismo quantitativo, la sola considerazione dei costi di produzione, è l’unica norma, che determini i luoghi di produzione e la distribuzione del lavoro, dal momento che è fa “classe” che divide artificialmente gli uomini nella società e non più la cooperazione nella comunità professionale».
In campo culturale e morale, a sua volta: «La libertà individuale, liberata da tutti i vincoli, da tutte le norme, da tutti i valori oggettivi e sociali, non è in realtà che una mortale anarchia, soprattutto nella educazione della gioventù».
E, più avanti, il Santo Padre conclude: «Se dunque nello spirito del federalismo, la futura organizzazione politica mondiale non può, per alcun pretesto, lasciarsi prendere nel gioco del meccanismo unitario, essa avrà un’autorità effettiva solo in quanto salvaguarderà e favorirà dovunque la vita propria di una sana comunità umana, di una società in cui tutti i membri insieme concorrono al bene dell’intiera umanità».
Le sottolineature, è chiaro, sono nostre. Le abbiamo introdotte nei testi per facilitarne lo studio.
Organicità e meccanicità
In questi vari passi, uno più importante dell’altro, il Pontefice usa costantemente due metafore, «organismo» e «meccanismo». L’«organismo» corrisponde sempre a ciò che è retto, buono, lodevole. Il «meccanismo» a sua volta corrisponde a ciò che è fuori strada, inadeguato, errato.
L’esatta comprensione delle direttive pontificie esige quindi l’approfondimento dell’analisi di queste metafore.
Un organismo animale o umano e un meccanismo, hanno tra loro qualcosa di comune. Tanto l’uno come l’altro sono un insieme di pezzi diversi tra loro, ordinati gli uni agli altri in modo da costituire un solo insieme, e ciascuno dei quali svolge una funzione che costituisce parte di un’opera comune.
A dispetto di tante analogie, le diversità tra organismo e meccanismo sono così profonde che si potrebbero dire quasi infinite. Tutte derivano da una diversità che va dall’inerte, statico, morto, a ciò che è animato, agile, vivo:
I. Gli organi di un corpo agiscono per un movimento che viene loro dalla vita presente in essi; il movimento procede dalle profondità stesse del loro essere. I pezzi di una macchina sono incapaci di muoversi da soli. Tutto il movimento viene loro dall’esterno. Propriamente non si muovono: sono mossi.
II. Gli organi viventi hanno una non piccola capacità di adattarsi da sé stessi a nuove condizioni di esistenza e di funzionamento. Si tratta di un adattamento delicato, generalmente lento, fatto al millimetro, ma precisissimo e durevole. La macchina è soltanto come è stata fatta, e da sé stessa non si adatta a niente. Quando qualcuno la adatta a un altro fine, può farlo drasticamente, perché la materia è cieca, e non è necessario usare riguardi per fondere un pezzo di metallo o lavorare il marmo.
III. Dotato di vita propria l’organo ha una certa porzione di indipendenza. Così nessuno di noi è libero di imporre alle sue gambe o alle sue braccia la grossezza e la forma che vuole. Al contrario, quanto è posticcio, artificiale, meccanico, è assolutamente soggetto all’uomo. E perciò uno zoppo può dare alla sua gamba di legno o di caucciù un colore, un peso, una forma che gli sembrino più pratici o più estetici.
IV. Siccome la natura è opera diretta di Dio, e il meccanismo è più direttamente opera dell’uomo, nonostante il fatto che tutto quanto è meccanico dipenda molto più dalla scienza, tutto quanto è organico è molto più perfetto. Così, per esemplificare, per quanto la scienza perfezioni le gambe e le braccia meccaniche – e in questo senso ha fatto meraviglie – qualsiasi uomo preferirà a una di queste «meraviglie» la sua gamba o il suo braccio naturale, anche se difettosi.
V. Nella macchina, tutti i pezzi ubbidiscono come schiavi all’impulso di chi li aziona. Fondamentale è, quindi, la parte della volontà di chi li dirige. Con una macchina vi è un solo mezzo possibile di comando: la dittatura. E quando la macchina è renitente vi è una sola soluzione: aprirla, smontarla e applicare la tenaglia e il martello a ciò che è storto. Un organismo vivente è molto più libero, e la meccanica è sempre stata, è e sarà sempre più efficace della chirurgia. Nell’organismo umano, il successo delle attività del corpo dipende dalla collaborazione naturale, viva, in un certo modo (si noti bene la restrizione) libera, di ogni parte.
Applichiamo ora alle società umane i concetti di «organico» e «meccanico».
Descriviamo due società del passato, una organica e l’altra meccanica.
Una società organica e cristiana
In un certo senso, la famiglia è la più viva di tutte le società. Infatti, benché sia lo Stato che altri gruppi sociali inferiori nascano dallo stesso ordine naturale delle cose, nessuna società è così imperiosamente e per così dire urgentemente creata dalla natura quanto la famiglia. Possiamo concepire la società umana vivente embrionalmente in una struttura familiare, anteriormente alla esistenza dello Stato. Non possiamo concepire lo Stato vivente anteriormente alla famiglia, o senza essa.
D’altro lato, non vi è società per la quale siamo così naturalmente portati. Tutte le disposizioni di spirito necessarie al regolare funzionamento della famiglia esistono in noi almeno in un certo modo – spontaneamente: il rispetto dei figli per i genitori, la comprensione, l’amore, il mutuo aiuto tra i membri. Paragonata alla famiglia, qualsiasi altra società sembra fredda, rigida; in un certo senso, artificiale.
Uno dei tratti caratteristici della civiltà cristiana edificata in Occidente dopo le invasioni barbariche, è consistito nel fare della famiglia non solo una istituzione di vita puramente domestica e privata, come è oggi, ma l’unità motrice di tutte o quasi tutte le attività politiche, sociali e professionali.
La proprietà immobiliare era spesso più familiare che individuale. La casa, la terra, il feudo erano considerati molto più come patrimonio della famiglia che dell’individuo. Lo stesso accadde nell’artigianato e nel commercio, nei quali si manifestò la tendenza a trasmettere la professione di padre in figlio, per diverse generazioni.
Se esaminassimo il campo della scienza e delle arti, vedremmo anche in esso con quanto frequenza i membri di una famiglia si dedicassero allo stesso ramo.
Nell’amministrazione, sia feudale che comunale o regale, nelle finanze, nella diplomazia, nella guerra, in tutti i campi, insomma, notiamo che la famiglia in quanto tale era, in tutta la misura del possibile, la grande unità d’azione e di propulsione. I feudi, le corporazioni, le università, i comuni, non vi era nulla che sfuggisse alla penetrazione della famiglia. A tale punto che lo Stato – un regno, per esempio – non era altro che una famiglia di famiglie, governata da una famiglia: la famiglia reale.
Con le riserve con cui immagini come questa devono essere usate, si può dire che la famiglia penetrava tutte le parti dell’organismo sociale, come le arterie penetrano e irrorano tutte le membra del corpo umano. E in questo modo la famiglia comunicava qualcosa di particolarmente vivo, plastico, organico, a tutte le istituzioni politiche, sociali, economiche, ecc.
Considerando la struttura e la vita di queste istituzioni, come per esempio corporazioni, università, comuni, colpisce la loro «naturalità».
I tratti tipici di queste diverse specie di organismo non furono prestabiliti da nessun teorico accademico e fantasioso. Al contrario, nacquero lentamente da un adattamento quotidiano alle necessità e ai problemi di ogni momento. Per questo vi era in essi qualcosa di profondamente reale, a un tempo vivo e agile, stabile e solido.
E lo Stato? Anch’esso era qualcosa di molto meno freddo, impersonale e spigoloso di quello che è diventato dopo il 1789. Per gli intrecci del sistema feudale, un re – incarnazione dello Stato – poteva possedere feudi in territorio straniero. Così, le sovranità si confondevano le une con le altre, le nazioni si interpenetravano, e, soprattutto in certe zone di frontiera, era difficile stabilire con chiarezza quando cominciasse un paese e finisse l’altro. Qualcosa di complesso, come i tessuti di un corpo; e non semplice, come le linee di uno schema meccanico.
Se consideriamo i rapporti tra il tutto e le parti, lo Stato e gli organi sociali di cui era costituita la nazione, l’impressione di organicità vitale si fa ancora più pronunciata: ogni organo è un piccolo tutto, quasi un regno di misura piccola o persino minuscola, dotato nella sua sfera di certe funzioni di governo, legislative, esecutive o giudiziarie. Così, nella famiglia, il padre era un autentico re in miniatura, per il potere che esercitava sulla sposa e sui figli. Caratteristico era l’assioma: il padre è re dei figli; il re è padre dei padri. In alcune famiglie erano peculiari anche le leggi di successione, e diverse da quelle che si applicavano in tutte le altre.
Anche nei feudi il signore era un re in miniatura, legislatore, governatore e giudice nell’orbita che gli spettava.
Quanto alle corporazioni, esse pure svolgevano funzioni «di lavoro» – per usare il termine moderno – oggi molto spesso affidate agli organi legislativi, esecutivi o giudiziari dello Stato.
Il re – semplificando molto le cose, è chiaro – aveva solo la funzione suppletiva di fare ciò che da soli questi diversi organi non avrebbero potuto realizzare, cioè la tutela degli interessi comuni e supremi che esorbitavano dall’ambito specifico di tutti gli organi, il mantenimento di un giusto equilibrio tra essi, e la vigilanza affinché, all’interno di ciascuno di essi, non venissero offesi i principi fondamentali della morale e della civiltà cristiana.
Considerando nel suo insieme questo quadro molto sommario, si vede quanto esso è organico. Ogni elemento cellulare ha funzioni assolutamente peculiari. Ciascuno ha, per l’esercizio delle sue funzioni, attribuzioni che gli spettano per diritto proprio, e si muove per una energia che opera da dentro a fuori, e non da fuori a dentro. Il buon andamento del tutto dipende molto più dal buon andamento di ogni parte, che dalla semplice azione dell’organismo centrale.
Una società inorganica
Come sarebbe un ordine di cose inorganico?
Sarebbe quello che assomigliasse a una macchina, cioè quello in cui tutti i membri ricevessero l’impulso da un solo agente esterno e centrale: nel quale l’ubbidienza di ogni parte fosse assolutamente pacifica e impersonale; nel quale la forma e il compito di ogni pezzo, e del tutto, fosse suscettibile di qualsiasi riforma giudicata consigliabile in funzione delle concezioni teoriche dei tecnici.
In che modo si realizzerebbe questo? Con il socialismo assoluto. Infatti, per lo Stato socialista, la famiglia e i gruppi sociali non esistono. Esso, come unico mezzo di azione, concepisce la divisione della pubblica amministrazione, naturalmente schiava, che obbedisce all’impulso che a essa viene dal centro, che si muove esclusivamente secondo questo impulso, e che è organizzata come una immensa rete metallica che avvolge il paese, e attraverso i cui fili la direzione centrale fa circolare correnti elettriche come e quando le piace.
D’altra parte, tutto questo è rigido: un teorico può concepire a priori una serie di pezzi di questo organismo. Un decreto, o una legge, lo trasforma in realtà. Ed esso deve esistere così come ordina il decreto o la legge, finché un altro decreto o un’altra legge non disponga in senso contrario! Niente di più rigido, certamente, ma niente di più riformabile. Basta che sopravvenga una nuova legge, perché il meccanismo si trasformi in un altro completamente diverso, senza traccia né vestigio di quello che era prima. Come il metallo che, una volta fuso, accetta una nuova forma e non conserva in sé nessun vestigio della sua forma precedente.
Lo Stato contemporaneo
In larga misura, le democrazie moderne partecipano dei vizi dello Stato socialista. La loro grande forza motrice è la volontà della maggioranza puramente numerica della popolazione. Espressa questa volontà nelle urne, si forma un parlamento sovrano, che può fare tutto, compreso riformare la Costituzione. Così, la metà più uno può decretare quello che vuole: sarà legale tutto quello che verrà fatto per via parlamentare. La famiglia può essere dissolta, la proprietà privata corrosa da ogni genere di sofisma o persino abolita, la religione detronizzata attraverso la sua separazione dello Stato, o forse messa al bando: sarà tutto onesto, coerente, retto, purché risponda al desiderio della maggioranza. In nome di questa maggioranza, consultata in successivi plebisciti sul cui carattere enigmatico la storia non ha ancora detto l’ultima parola, Hitler ha ridotto la Germania a una prigione.
Il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario, nei regimi nati dalla Rivoluzione, appartengono esclusivamente e completamente allo Stato. Di fronte a questo Stato che tutto può, i gruppi o gli individui non sono organi ma pezzi di macchina.
Bisogna non sapere leggere, per non accorgersi che proprio su questo aspetto della condizione attuale cade la condanna del Papa Pio XII.
Come arrivare alla organicità
Come fare, allora? Quello che fecero i nostri antenati, agli albori dell’attuale civiltà. Essi compresero che, sulla rotta indicata dal decalogo, e rispettando i diritti della Chiesa, argomento nel quale tutta l’intransigenza e la severità sono ancora poco, è necessario permettere che lentamente la società riprenda ad avanzare da sola, libera dal busto di ferro della dittatura statale, sia parlamentare che del capo dello Stato. È necessario permettere che la famiglia ritorni di nuovo alla pienezza di azione e di influenza a cui in altri tempi era pervenuta: che i gruppi professionali, sociali e altri, intermediari tra l’individuo e lo Stato, siano liberi di esercitare, per diritto proprio e secondo forme proprie, le attività necessarie al compimento delle loro mansioni; che lo Stato, rispettando in ogni modo queste autonomie, dia a ogni regione il diritto di organizzarsi secondo la sua struttura sociale ed economica, la sua indole, le sue tradizioni; che infine il potere sovrano, all’interno della sua orbita suprema e specifica, sia onorato, vigoroso, efficiente.
Rispettando questi principi, a che meta finale arriveremmo? Ritorneremmo al Medioevo? O avanzeremmo verso un futuro nuovo e assolutamente imprevedibile?
A entrambe le domande si dovrebbe rispondere affermativamente. La natura umana ha le sue costanti, che sono invariabili per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Anche i principi basilari della civiltà cristiana sono immutabili. Quindi, certamente, questo nuovo ordine di cose, questa nuova civiltà cristiana, sarà profondamente simile, o meglio, identica a quella antica nelle sue linee essenziali. E sarà, se Dio vuole, nel secolo XXI la stessa del secolo XIII. Ma d’altra parte le condizioni tecniche e materiali della vita hanno subito profonde trasformazioni, e non vi sarebbe niente di più inorganico del fare astrazione da queste modificazioni. Su questo punto specifico, è assolutamente necessario non fare molti piani. I fondatori della civiltà cristiana nell’alto Medioevo non avevano in mente il secolo XIII così come è esistito. Avevano semplicemente l’intenzione generica di fare un mondo cattolico. Perciò ogni generazione venne risolvendo con profondità di vedute e senso cattolico i problemi che erano alla sua portata. E per quanto riguardava gli altri, non si perdevano in congetture.
Facciamo come loro. Nelle linee generali, tutta l’armatura ci è nota dalla storia e dal Magistero della Chiesa. Quanto ai particolari, avanziamo a passo a passo, senza piani puramente teorici, elaborati a tavolino: «sufficit diei malitia sua».
4. La struttura sovranazionale nell’insegnamento di Pio XII
Concludiamo oggi i nostri commenti al discorso del Santo Padre ai dirigenti del Movimento Universale per una Confederazione Mondiale.
Vediamo come, nel discorso, si situa il problema della organizzazione giuridica della società internazionale.
Nelle sue linee teoriche generali i termini di questo problema sono molto chiari.
I termini del problema
In tutti gli uomini notiamo due specie di attributi. Gli uni sono inerenti alla loro stessa natura, e costituiscono quello per cui non sono né piante, né pietre, né angeli. Questi attributi sono evidentemente comuni a tutti gli uomini. Altri, al contrario, sono propri di certe nazioni. Così, per esempio, i tratti distintivi del francese non sono assolutamente quelli del tedesco. In ogni paese, a loro volta, le diverse regioni hanno non solo le caratteristiche nazionali, ma anche altre loro particolari. Così, in Italia, tra un fiorentino e un siciliano si possono indicare molte differenze. Infine, in ogni provincia ogni città, in ogni città ogni famiglia, in ogni famiglia – forse – ogni ramo, ogni individuo, hanno le loro caratteristiche spirituali e fisiche inconfondibili.
Viste così le cose, ogni individuo, in quanto membro di una serie di gruppi concentrici che vanno dalla famiglia alla società internazionale, ha per così dire diverse fasce di personalità, rispettivamente suscettibili di sviluppi particolari, e che vanno dai tratti generici e comuni di tutta l’umanità fino ai più minuscoli particolari dell’indole personalissima di ciascuno.
Si tratta di sapere se tutte queste caratteristiche sono conformi alla natura umana, e a essa inerenti, o se sono a essa estrinseche, e contrarie alla sua autentica dignità. Nella prima ipotesi le nazioni, le regioni, i comuni, devono sussistere come unità spirituali e morali ben definite, e, quindi, con una cultura, una civiltà e un governo propri. In caso contrario, devono scomparire, fondendosi in un solo tutto.
La sostanza del problema è questa.
La diversità di opinioni, di istituzioni, di costumi, di modi di essere, molto considerevole tra le nazioni di altri tempi, i dialetti, le danze regionali, gli abiti, i costumi, le manifestazioni artistiche di ogni provincia o zona, vanno scomparendo a vista d’occhio. È un male o è un bene? La tecnica industriale moderna, basata sulla macchina, che è assolutamente impersonale, inesorabilmente anonima, inflessibilmente uniforme in tutta la sua produzione, ha portato alla uniformazione di tutti gli oggetti di uso personale, e tende ad asfissiare su scala sempre crescente le manifestazioni della personalità dell’uomo contemporaneo.
È un fatto grave? O è una cosa di poco conto? Insomma, tutti i popoli e tutte le nazioni possono essere fusi in un solo popolo universale, in una sola patria comune? In questo caso, sarebbe possibile costituire non tanto un super-governo mondiale (cioè un governo con una sfera di azione superiore a quella dei governi locali, ma che lasciasse vivere gli altri), ma un unico governo universale sotto cui tutte le autorità locali fossero soltanto amministrative? Sarebbe utile, sarebbe conforme all’ordine naturale delle cose?
Tutti questi problemi dipendono sostanzialmente dalla questione preliminare; e questo è sufficiente per mostrarne tutta l’importanza.
L’attualità del problema
La sua attualità non è minore. A partire dal secolo XIV ha cominciato a delinearsi, con la caduta del feudalesimo e la nascita dello Stato moderno, una potente tendenza unificatrice. Così, a poco a poco, le regioni, con il decadere dell’autorità feudale, che era intrinsecamente locale, sono passate al dominio pieno delle corone, che agirono da forze essenzialmente centralizzatrici. D’altra parte, un grande numero di Stati si sono uniti sotto un solo scettro, in conseguenza di guerre o di successioni dinastiche: Leon (secolo XII), Granada (secolo XV), Aragona (secolo XV), la Navarra spagnola (secolo XVI), alla Castiglia; l’Irlanda (secolo XII) e la Scozia (secolo XVII), all’Inghilterra; i Paesi Bassi (secolo XV), la Boemia (secolo XVI), l’Ungheria (secolo XVII), ecc., alla Casa d’Austria. Quando, nel 1789, cessava di esistere l’evo moderno, e si inaugurava il periodo contemporaneo, questo processo di agglutinamento aveva fatto molta strada in tutti i paesi. Certamente esisteva una Navarra con istituzioni e costumi propri, teoricamente indipendente, e legata alla Francia dalla semplice circostanza dell’essere il suo re anche re di Francia. Ma tutto questo era tanto teorico che alla Rivoluzione bastò, per così dire, un tratto di penna per fondere la Navarra (e a fortiori semplici feudi, come la Bretagna) con la Francia, per formare un solo Stato massiccio, come una barra d’acciaio, che è la Francia attuale. In questo senso, la Francia è stata precorritrice. Nel secolo XIX, la centralizzazione politica e amministrativa si è venuta accentuando sempre più in tutti gli Stati europei, nei quali regni teoricamente esistenti, come quello dell’Algarve, o quelli «delle Spagne», sono stati fusi con la stessa facilità con cui è stata fusa la Navarra nel secolo XVIII. E, nello stesso tempo, due grandi movimenti unificatori hanno trasformato in Stati compatti due grandi nazioni: la Germania, che da semplice Confederazione Germanica è diventata Impero nel 1870, e l’Italia, nella quale si amalgamarono il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, la Toscana, il regno delle Due Sicilie e infine, con la presa di Roma, sempre nel 1870, gli Stati Pontifici.
È vero che, in senso contrario, si sono verificate sulla carta europea durante il secolo XIX alcune decentralizzazioni, sotto la pressione del principio di nazionalità e di altri fattori: dall’Impero Ottomano si sono staccate (1829-1878) diverse monarchie cristiane, Grecia, Bulgaria, Montenegro, Serbia, Romania; già all’inizio del secolo XX, nel 1905, la Norvegia si è separata dalla Svezia per formare un regno a parte; nel 1830 il Belgio si è costituito in Stato distinto dalla Olanda e dalla Francia; la monarchia austro-ungarica si è smembrata dopo la prima guerra mondiale in numerose repubbliche sovrane, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, e parte del suo territorio è stato anche incorporato alla Jugoslavia (la Serbia accresciuta del Montenegro, ecc.) e alla Polonia, risorta.
Tuttavia, dei due fenomeni, quello centralizzatore e quello decentralizzatore, il primo si è rivelato durevole e il secondo effimero. Infatti, dopo i trattati di pace del 1918, nessuno Stato si è più smembrato. E, in senso contrario, si va sempre più accentuando un movimento tendente al raggruppamento degli Stati più piccoli. Questo movimento è diventato particolarmente chiaro dopo l’ultima guerra. Certi Stati piccoli, notando la insufficienza delle loro risorse economico-militari nel quadro della grande tragedia contemporanea, sono stati portati a unirsi per costituire un organismo super-statale più efficiente. L’esempio più caratteristico è costituito dal Benelux formato dal Belgio, dall’Olanda e dal Lussemburgo. Anche le nazioni del Baltico – Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia – tendono a costituire una unione simile al Benelux. Meno prossima, ma molto più importante, è la costruzione dell’organismo al quale si pensa di dare il nome di Stati Uniti d’Europa. Churchill ha dedicato alla realizzazione di questa impresa buona parte del tempo libero che il suo recente ostracismo gli lasciava; e tutto porta a credere che la sua ascesa al potere accelererà considerevolmente gli studi e i negoziati destinati a tale scopo. D’altra parte, la Lega Araba si sta costituendo in potente federazione, in Africa e in Asia. E l’Unione Latina, tempestivamente inaugurata a Rio de Janeiro, è un seme che sembra ricco di frutti in senso federalista.
In contrapposizione a questi trionfi unitaristi, si potrebbero ricordare certamente gli apparenti fallimenti dei due grandi tentativi di formare un Super-Stato, cioè la Società delle Nazioni e l’ONU. Tuttavia nessuno si accorge che il super-Stato è di fatto in via di realizzazione, anche se in altro modo. Infatti, tutte le nazioni del mondo sono amalgamate in due grandi blocchi ostili, e ciascuno di questi blocchi assume sempre più chiaramente l’allure di super-Stato nei confronti dei popoli che lo compongono. Nella misura in cui dura la pace armata, entrambi questi blocchi guadagnano in coesione e omogeneità. Scoppiata la guerra, il blocco vincente si impadronirà del blocco vinto e tutto il mondo sarà unificato sotto la verga di ferro della nazione guida del blocco vincitore. Così, con l’ONU, senza essa, e se necessario anche contro essa, gli avvenimenti ci avranno condotto alla unificazione.
Riassumendo:
a. il regionalismo dello Stato antico è stato sostituito dal centralismo dello Stato moderno;
b. le nazioni piccole si sono fuse per costituire grandi Stati, formando importanti blocchi internazionali;
c. le nazioni di una stessa razza o di uno stesso continente tendono a formare enormi blocchi federativi;
d. tutto il mondo, a sua volta, è già diviso in soli due grandi eserciti. Dopo la guerra, la nazione guida dell’esercito vincente dominerà, e sotto il suo dominio unificherà il mondo, se non interverranno circostanze diverse.
Di fronte a questo movimento plurisecolare, potente, universale, attualissimo, si tratta di fissare la posizione del pensiero cattolico.
Basta questo per provare l’attualità e l’importanza del problema di cui si è interessato il discorso pontificio.
La posizione della Chiesa
Di fronte a questo problema, qual’è la posizione cattolica? La Chiesa è contraria a questo movimento?
Sì e no, ci dice il discorso pontificio.
Da un lato, riconosce che l’esistenza di un organismo sovranazionale destinato a conservare e a sostenere i principi del diritto internazionale, e a lavorare per il bene dei popoli, è pienamente conforme all’ordine naturale, e, quindi, altamente desiderabile.
D’altro lato, però, mostra che la struttura di questo organismo non è a essa indifferente. Se sarà centralizzatore, se quindi comporterà la distruzione di tutte le nazioni, la Chiesa si opporrà a esso. Ma se rispetterà l’esistenza e i diritti di tutti i popoli, la Chiesa lo approverà.
In che consistono precisamente questa esistenza e questi diritti?
La piena esistenza dei popoli
Un popolo esiste normalmente e pienamente quando ha un’anima propria, e sufficiente libertà per strutturare secondo questa anima le sue istituzioni, i suoi costumi, la sua cultura e il suo modo di vita. Così, una organizzazione mondiale non deve mirare in nessun modo alla distruzione delle caratteristiche nazionali o regionali. Al contrario, deve vedere in esse autentici tesori di umanesimo (nel senso positivo di questo vocabolo complesso), e quindi le deve proteggere con tutte le sue forze. La stessa Chiesa fornisce un esempio di questo saggio atteggiamento. Nel suo grembo convivono pacificamente tutti i popoli. La Chiesa vuole affratellarli da buona madre qual’è. Ma una madre non affratella i suoi figli distruggendone le caratteristiche psicologiche e la personalità. Li educa in modo che, rettamente e pienamente sviluppata la personalità di ciascuno, si intendano perfettamente. E perciò, se la Chiesa lavora con impegno perché tutti i popoli si amino, non vuole che lo svizzero, il cinese, lo scozzese, il turco, siano caratterizzati nazionalmente meno di quello che sono. Lo stesso deve fare ogni organizzazione sovranazionale degna di questo nome. Così si rispetta il diritto alla esistenza di tutti i popoli. Questo diritto, per altro, non è illimitato. Tra le caratteristiche nazionali, ve ne sono alcune che non possono essere rispettate, e che un organismo sovranazionale dovrebbe essere in grado di proscrivere. Sono quelle contrarie ai principi della morale naturale e cristiana, come l’abitudine di certi selvaggi di seppellire vivi alcuni loro figli.
La indipendenza delle nazioni
Quanto ai diritti di un popolo, almeno in tesi è facile definirli. Vi è un principio importantissimo della dottrina cattolica che in questo caso si applica in tutta la sua pienezza. È il principio di sussidiarietà.
Normalmente, ogni individuo deve fare unicamente da solo tutto quanto è alla sua portata. La famiglia esiste per fare tutto quello che l’uomo isolatamente non riesce a fare. Il comune esiste per fare quello che le famiglie non riescono a fare. La provincia deve sopperire ai comuni. E lo Stato deve sopperire alle province. Insomma, la famiglia è sussidiaria rispetto agli individui, e così via successivamente fino allo Stato.
Ognuna di queste entità ha il fine non di uccidere o di assorbire le entità di carattere inferiore, ma di favorirle. Così, la famiglia farà il possibile per aumentare l’individualità e la capacità di azione di ciascuno dei suoi membri. E così la provincia deve curarsi di rispettare la sfera dei comuni e di aiutarli a svolgere con la massima ampiezza la loro attività normale; il paese ha lo stesso dovere nei confronti delle province. E, di conseguenza, l’organismo sovranazionale deve operare unicamente ed esclusivamente in una sfera che trascende quella degli interessi peculiari di ogni Stato, e si situa sul piano più alto del bene comune di tutti gli Stati.
In questo senso, la Chiesa approverebbe un organismo sovranazionale. Ma non se esso si identificasse con il dominio assoluto di un popolo sugli altri, e con l’assorbimento di tutti gli Stati in uno solo.
Numero e qualità
Vi è anche un’altra lezione importante nel documento pontificio. Riguarda il modo in cui le nazioni devono essere rappresentate nell’organismo sovrastatale.
Infatti, il Sommo Pontefice mostra che le considerazioni puramente numeriche non sono sufficienti. Queste considerazioni, sulle quali si è basato completamente il regime rappresentativo contemporaneo, hanno portato al fallimento dello Stato attuale. Sarebbe un errore molto grave metterle alla base dell’organismo sovrastatale. E in realtà l’Irak ha più abitanti della Svizzera; l’Asia più nazioni dell’Europa. Prendendo in considerazione esclusivamente la forza del numero – numero di individui o numero di Stati – si toglierebbe la direzione del mondo alle nazioni più colte per trasferirla alle più arretrate.
Ma vi è un altro genere di considerazioni numeriche che pure non devono prevalere, e sono quelle relative alla quantità di oro o di bombe atomiche.
In altre parole, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono alla guida dei due blocchi mondiali. In caso di guerra, desideriamo di tutto cuore che i nordamericani sconfiggano i sovietici su tutta la linea. Nonostante questo, vogliamo affermare che né gli Stati Uniti né la Russia sono in grado di guidare i rispettivi blocchi. La Russia, per motivi ovvi. Gli Stati Uniti per due motivi. Anzitutto perché, in un blocco di cui facciano parte latini e anglo-sassoni, non c’è ragione alcuna perché la guida tocchi a questi ultimi. E se dovesse toccare agli anglo-sassoni, sarebbe meglio che toccasse agli inglesi, superiori quasi in tutto ciò che non sia quantitativo.
Tutte queste considerazioni ci portano a salutare con cordiale simpatia l’Unione Latina creata a Rio. E con questo saluto chiudiamo il nostro commento.
Plinio Corrêa de Oliveira
Note:
(1) PIO XII, Radiomessaggio al mondo intero, del 24-12-1944, in La pace interna delle nazioni, Insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it., Edizioni Paoline, 2ª ed., Roma 1962, p. 478.
(2) Ibid., p. 479.
(3) PIO XII, Discorso ai congressisti del Movimento Universale per una Confederazione Mondiale, del 6-4-1951, in Discorsi per la comunità internazionale (1939-1956), Editrice Studium, Roma 1957, p. 386. Tutte le citazioni successive contenute nel testo e senza riferimenti, sono tratte da questo discorso.
(4) «Lo Stato non contiene in sé e non aduna meccanicamente in un dato territorio un’agglomerazione amorfa d’individui. Esso è, e deve essere in realtà, l’unità organica e organizzatrice di un vero popolo» (PIO XII, Radiomessaggio al mondo intero, del 24-12-1944, cit., p. 478).