Plinio Corrêa de Oliveira, Cristianità n. 222 (1993)
Pio XII: grandi mete ed enormi mezzi per la restaurazione dell’ordine sociale cristiano
Venerdì 15 ottobre 1993, a Milano, presso il Circolo della Stampa, organizzata dall’Ufficio Tradizione Famiglia Proprietà e dall’editore Marzorati, si è tenuta la presentazione del volume Nobiltà ed élites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato e alla Nobiltà romana, di Plinio Corrêa de Oliveira, pubblicato in Italia dall’editore milanese. L’opera, in cui sono raccolti, analizzati e commentati — e illustrati con numerose appendici documentali — i documenti dei Pontefici in tema di disuguaglianza sociale, soprattutto — ma non esclusivamente — di Papa Pio XII, è in via di diffusione anche in altre aree linguistiche: in portoghese, in spagnolo, in francese e in inglese. Non potendo intervenire a questa prima presentazione italiana, il pensatore brasiliano ha dettato un intervento, che è stato distribuito e letto. Il discorso viene riportato in una traduzione redazionale dall’originale in portoghese, che conserva i caratteri del parlato, diffuso dallo stesso Ufficio Tradizione Famiglia Proprietà, con il titolo Pio XII: grandes metas, imensos meios para a restauração da ordem social cristã.
La prima guerra mondiale portò, come uno dei risultati più importanti, anche se non dei più notati, una trasformazione, per non dire una rivoluzione di fondo, non soltanto in campo politico ed economico, ma anche in quanto riguarda la mentalità, gli usi e i costumi vigenti prima del grande conflitto.
In altre parole, questo significa che molto di quanto, prima del conflitto, era ritenuto essenziale, degno, sublime, forse intangibile, venne spazzato via, senza dispiacere e senza pietà, dal soffio degli avvenimenti, e sostituito da altri usi, da altri costumi e da altre mentalità, che si trovavano esattamente al polo opposto.
Un fenomeno analogo si è verificato dopo la seconda guerra mondiale, per cui si può dire che le due grandi guerre del secolo XX — voglia Iddio che restino solo due e che non ne sopraggiunga una terza, ancor prima della conclusione di questi cento anni sconvolti — sono state due grandi rivoluzioni.
Giustizia vuole si dica che nelle sue quattordici allocuzioni al Patriziato e alla Nobiltà romana, Pio XII cercò di attenuare gli effetti di queste rivoluzioni con direttive di mirabile saggezza.
Riferendosi specificamente al secondo dopoguerra, il Pontefice dice: «Questa volta l’opera di restaurazione è incomparabilmente più vasta, delicata e complessa [di quella del primo dopoguerra]. Non si tratta di reintegrare nella normalità una sola Nazione. Il mondo intero, si può dire, è da riedificare; l’ordine universale è da ristabilire. Ordine materiale, ordine intellettuale, ordine morale, ordine sociale, ordine internazionale, tutto è da rifare e da rimettere in movimento regolare e costante. Questa tranquillità dell’ordine, che è la pace, la sola vera pace, non può rinascere e perdurare che a condizione di far riposare la società umana su Cristo, per raccogliere, ricapitolare e ricongiungere tutto in Lui» (1).
Quindi, chi legge i documenti del Pontefice, si accorge senza fatica che, nella sua mente, si trattava di opporre a questa enorme rivoluzione il suo contrario, cioè una contro-rivoluzione. Una contro-rivoluzione che salvasse dalla rovina tante tradizioni e desse a tante altre, che avevano ancora assolutamente ragion d’essere, ma che erano cadute, la possibilità di rialzarsi e di riprender vita.
Evidentemente, vi era chi pensava che, per il fatto di rivolgersi soltanto alla classe dei nobili e delle élite analoghe, l’autore delle allocuzioni contasse esclusivamente su queste classi per una tale opera. Forse quanti pensavano così, ritenevano che soltanto esse erano in grado di capire, di amare e di difendere queste tradizioni, delle quali erano portatrici per eccellenza.
Di fatto, si vede che Pio XII convocava in modo particolare tali élite per una missione tanto grande. Questo si spiega per il fatto che esse sono la garanzia della continuità dei valori che — secondo il Pontefice — non avrebbe mai dovuto essere interrotta.
È necessario notare l’ampia collaborazione da lui desiderata in proposito. Ossia, egli non chiedeva solamente la collaborazione dei membri dell’élite, che possedevano ancora mezzi sufficienti per irradiare tutto il prestigio che veniva loro dal passato, e che con esso mettessero al servizio di tale contro-rivoluzione tutta la forza d’urto su cui si poteva contare.
Ma è evidente che dalla Nobiltà e dal Patriziato il Pontefice si aspettava ancora di più. Contava anche — e particolarmente — sulle persone di questa classe sociale che, rovinate dalle disgrazie della guerra, non disponevano più delle risorse materiali per esercitare la loro influenza. A tali persone, portatrici di un grande nome, anche se ridotte dalle necessità economiche in una situazione sminuita e spesso stridentemente traumatica, spettava dare ai popoli l’esempio prezioso di ciò che è essenzialmente una nobiltà autentica, e di quanto ci si può aspettare da essa di meglio. Cioè l’esempio di ogni virtù, grandezza d’animo e dignità morale, che possono rimanere integre in un nobile e irradiare sulle altre classi sociali, anche quando sia stato abbandonato dai beni materiali di ogni genere.
Ma è necessario andare oltre. Pio XII contava espressamente sull’insieme del corpo sociale non solo per salvare le élite ancora esistenti e le tradizioni di cui erano portatrici, ma anche perché sbocciassero nuove élite accanto alle prime. A esse, di fronte a situazioni nuove e animate da uno spirito autenticamente cattolico, spettava creare nuove abitudini, nuovi costumi, nuove forme di potere. E ciò, senza per nulla distruggere o contraddire il passato, ma — quando necessario — completandolo.
Sarebbe ragionevole ritenere che Pio XII, per un fine così elevato, pensasse di fondare una sorta di associazione o di istituzione specifica, a cui chiedere uno sforzo nuovo per nuove circostanze. Qualcosa del tipo del famoso Collegio di Saint-Cyr, creato dalla marchesa di Maintenon, moglie morganatica di Luigi XIV, per aiutare le assai numerose giovani dell’aristocrazia, le cui famiglie erano cadute nella povertà.
Ma è pure evidente che Papa Pacelli non riponeva il meglio delle sue aspettative soprattutto in questo.
È necessario notare che, quando parla di queste aspettative, il Pontefice, pur ponendosi in certo qual senso come avvocato di un determinato passato di fronte a nuove situazioni emergenti, sperava di perorare, nella misura del possibile, la causa della tradizione e della nobiltà. Quindi le sue parole hanno il valore di un caloroso incitamento, di un ardente desiderio, di una precisa direttiva: «Lungi dall’obbligarvi a un superbo isolamento, la vostra origine vi inclina piuttosto a penetrare in tutti gli ordini sociali, per comunicar loro quell’amore della perfezione, della coltura spirituale, della dignità, quel sentimento di compassionevole solidarietà, che è il fiore della civiltà cristiana» (2).
In queste condizioni, ci si chiede su chi altri contava Pio XII. E la risposta è semplice: benché stimasse le associazioni specificamente organizzate per scopi di bene — lo stimolo da lui dato all’Azione Cattolica o alle Congregazioni Mariane nella costituzione apostolica Bis saeculari die lo lascia vedere chiaramente — contava anche su altre risorse.
Ma, in questa occasione, è opportuno evidenziare tale idea, cioè il fatto che contava sulla società considerata come un tutto, come un grande corpo costituito non solo dalle istituzioni e dai gruppi minori che la formano, ma anche dalla moltitudine dei singoli che, svolgendo un’azione puramente personale in favore del bene comune, è una forza sociale di primaria importanza.
Si ha l’impressione che, secondo il pensiero del Pontefice, senza la collaborazione del corpo sociale nel suo insieme, non vi può essere, in questo campo, un possibile successo.
Questo ci pone molto lontano dalle schiavitù nelle quali spesso gli apparati propagandistici moderni gettano i popoli e le nazioni, sovrapponendosi agli organismi per così dire autoctoni, che devono esercitare sulla società una vera influenza. Mi riferisco soprattutto ai mass media. Attualmente, senza il placet degli organi di comunicazione sociale, o almeno dei più importanti fra essi, è quasi impossibile ottenere il successo di una causa. Di modo che, per quanto si parli tanto di democrazia, finisce per esser vero che nelle nostre società dette democratiche il potere decisionale rimane quasi sempre nelle mani dei «mandarini», dei «signori dei mass media». Pio XII poteva facilmente e comodamente fare appello a essi. Essi avrebbero potuto ascoltare le sue richieste; o almeno avrebbero finto di farlo.
Naturalmente il Papa desiderava anche la collaborazione effettiva dei mass media; e, in alcuni casi, la ottenne. Ma, nelle sue allocuzioni al Patriziato e alla Nobiltà romana, i mass media non figurano come un elemento essenziale nel quadro di una società ideale. Probabilmente perché è parte essenziale dei «mandarini dei mass media» la tentazione permanente dell’artificialità; e, com’è noto, alle tentazioni permanenti di guidare verso l’inautenticità l’umana debolezza troppo spesso non resiste.
Allora, qual è il potere su cui Pio XII contava? Era anzitutto ed evidentemente il potere di Dio onnipotente, era il potere che diede a Costantino la vittoria a Ponte Milvio e a Don Giovanni d’Austria quella a Lepanto, per citare solamente due esempi storici molto noti. In realtà, dall’insegnamento di Pio XII deriva che, se ogni singolo cattolico che lo ascolta cercherà di adempiere il proprio dovere operando nel senso di questi insegnamenti, e lo farà soprattutto nel suo campo d’azione personale, ne può risultare una forza d’urto globale di grande potenza.
Infine, dobbiamo vedere in queste allocuzioni soprattutto l’impegno del Pontefice affinché ciascuno orienti le proprie aspirazioni ideali in sintonia con lui, affinché lavori e concentri gli sforzi soprattutto nel proprio campo d’azione immediato, cioè presso quelli con cui condivide il focolare e nell’esercizio della professione. Se tutti i cattolici, orgogliosi di potersi sentire collaboratori del Papa in ciò che è indiscutibilmente una grande crociata, forse la crociata del secolo XX; se tutti i cattolici lavorassero con perseveranza in questo senso, la vittoria verrebbe realizzata indipendentemente da tutte le organizzazioni e da tutte le alleanze. La vittoria delle grandi cause non viene assicurata tanto dai grandi eserciti, quanto dall’azione individuale delle grandi moltitudini imbevute di grandi ideali e disposte a tutti i sacrifici per vincere: «In una società progredita, come la nostra, che dovrà essere restaurata, riordinata dopo il grande cataclisma, l’ufficio di dirigente è assai vario: dirigente è l’uomo di Stato, di governo, l’uomo politico; dirigente l’operaio, che senza ricorrere alla violenza, alle minacce, alla propaganda insidiosa, ma col suo proprio valore, ha saputo acquistare autorità e credito nella sua cerchia; dirigenti, ciascuno nel suo campo, l’ingegnere e il giureconsulto, il diplomatico e l’economista, senza i quali il mondo materiale, sociale, internazionale, andrebbe alla deriva; dirigenti il professore universitario, l’oratore, lo scrittore, che mirano a formare e guidare gli spiriti; dirigente l’ufficiale, che infonde nell’animo dei suoi militi il senso del dovere, del servizio, del sacrificio; dirigente il medico nell’esercizio della sua missione salutare; dirigente il sacerdote che addita elle anime il sentiero della luce e della salvezza, comunicando loro gli aiuti per camminarvi e avanzare sicuramente» (3).
Mi sembra importante sottolinearlo perché attualmente sono troppo numerosi coloro che, per il fatto di concentrare tutta la loro esistenza nei tranquilli e spensierati confini dei vantaggi personali, e di ritenersi esenti da qualsiasi obbligo verso le grandi cause, adducono per il proprio comodo che l’azione individuale è ridotta all’impotenza, perché, nel nostro secolo, enormi masse umane sono agglomerate in concentrazioni urbane di dimensioni babiloniche; oppure, anche quando vivono sparse nella vastità delle campagne, dei mari e dei cieli, sono continuamente soggette alle manipolazioni psicologiche e ideologiche dei mezzi di comunicazione sociale, che sembrano fatti apposta per coprire, con la loro influenza, distanze enormi e per monopolizzare moltitudini innumerevoli.
Desidero sottolineare questo affinché a nessuno resti un pretesto per non far nulla, adducendo la propria impotenza personale, le dimensioni «da verme» della propria influenza individuale e, quindi, l’inutilità di ogni suo sforzo. Ciascuno, dal più grande fino al più piccolo, non risparmi nessuno sforzo nella direzione indicata dal Pontefice e la vittoria sarà assicurata.
Questo è il pensiero centrale di Pio XII e perciò, lungi dal voler scoraggiare gli sforzi organizzati di associazioni e di gruppi sociali, desiderosi di promuovere un bene così grande e capaci di dare efficacemente il loro aiuto per realizzare l’enorme compito comune, vorrei che a questi gruppi non mancasse l’enorme collaborazione sommata di tutti quanti sono sensibili all’insegnamento di Papa Pacelli. Infatti, costituiscono una forza enorme.
Per valutare tale forza, voglio chiudere ricordando parole storiche abbastanza note. Quando il potere napoleonico in Italia si avviava all’apogeo, uno dei generali del giovane corso gli chiese a quale grado d’importanza doveva corrispondere il trattamento che avrebbe dovuto riservare al Papa allora regnante. La risposta del Bonaparte fu rapida e fulminante: «Lo tratti come un generale che ha ai suoi ordini eserciti imponenti». Per l’accorto Napoleone l’incanutito occupante del trono di San Pietro, che agli occhi di molti sembrava avere solamente il potere che hanno quanti sono molto vecchi, era una potenza. Perché? Perché una moltitudine innumerevole di persone apparentemente senza influenza, senza importanza, senza capacità, senza forza d’urto individuale, riconosceva tuttavia in lui il Vicario di Cristo ed era disposta a fare qualunque cosa per lui. Questo insieme di fedeli apparentemente senza rilevanza, intimoriva l’uomo di fronte al quale, per altro, tremavano i re della terra.
Un’analisi storica ben fatta mostrerà che una delle cause per le quali Napoleone, dopo Waterloo, si sentì isolato e cadde, fu il fatto che al suo fianco non vi era il «generale», che aveva ai suoi ordini l’esercito invisibile ma temibile delle moltitudini di quanti sono piccoli agli occhi degli uomini, ma la cui preghiera e i cui sacrifici tutto possono ai piedi del trono di Dio. Infatti, la Chiesa non vedeva più di buon occhio l’apparente vincitore dell’Europa.
Attorno a lui non vi erano più le innumerevoli simpatie degli uomini di mentalità semplice e onesta, che in un determinato momento avevano sperato fosse il restauratore dei diritti della Chiesa, fra le rovine a cui la Rivoluzione francese aveva voluto empiamente ridurla; di quanti avevano sperato che la sua spada fosse il gladio di tante legittimità abbattute, sia nella sfera dei diritti pubblici, sia in quella dei diritti individuali; di coloro che, avendolo visto chiedere a Pio VII di incoronarlo in Notre Dame, si riempirono a tal punto della speranza che il gesto rappresentasse il riconoscimento dell’origine divina del potere, che giudicarono male il fatto che Napoleone non consentì al Papa di cingergli la fronte con la corona imperiale, ma la prese dalle sue mani per incoronarsi orgogliosamente da sé, negando il potere che sembrava sul punto di restaurare.
Ma un altro celebre detto ha illuminato a questo proposito l’abbandono in cui il tiranno si era ridotto da sé, con la sua ambigua politica religiosa, quando non dichiaratamente antireligiosa.
Si racconta che, quando le truppe di Bonaparte avanzavano vittoriosamente verso Mosca, gli chiese udienza un ufficiale russo, inviato speciale di Alessandro I. Nel corso delle trattative sopraggiunse l’ora del pranzo e Napoleone invitò alla sua tavola il delegato dello zar di tutte le Russie. Durante la colazione, la conversazione cadde sull’elevato numero di edifici religiosi che, sul percorso, il monarca invasore aveva notato in suolo russo. E, volendo attribuire la debolezza della resistenza russa a questo preteso eccesso di religiosità, Napoleone gli domandò se la Russia era la nazione, in Europa, che spendeva di più in edifici religiosi.
L’inviato di Alessandro I rispose con prontezza: «No, Sire, vi è anche la Spagna!». Ora, proprio in quel momento storico, l’eroismo dei cattolici della penisola iberica infliggeva a generali fra i maggiori di Napoleone sconfitte umilianti senza precedenti. Comprendendo l’allusione e la mirabile portata militare del fervore religioso iberico, il corso tacque. Poco dopo, si produsse l’incendio di Mosca, e la ritirata dalla Russia divenne per Napoleone una necessità ineludibile. È possibile che in mezzo alle tribolazioni di Waterloo, Napoleone si sia ricordato di tutto quanto gli mancava per vincere. E abbia compreso più che mai l’importanza del fattore religioso, anche di fronte ai generali più potenti.
Se la mancanza di questo fattore indebolisce tanto, la sua presenza può costruire ancora di più. Questo è il potere delle moltitudini di fedeli, che portano al successo le opere dei Papi, quando, mosse dal soffio dello Spirito Santo, si sentono in grado di quanto Luís de Camões definiva con una notevole bellezza espressiva «cristiani ardimenti» (4).
Certamente considerazioni di questo genere riempivano di speranza il cuore di Papa Pacelli, quando pronunciava le sue famose allocuzioni al Patriziato e alla Nobiltà romana.
«Deus vult» fu — a Clermont-Ferrand — il grido unanime dei guerrieri feudali, fino a poco prima indifferenti di fronte al pericolo musulmano che avanzava. Ma l’azione dello Spirito Santo, facendosi sentire attraverso la voce carica di impressionanti toni mistici del Papa beato Urbano II, accese rapidamente negli animi addormentati le fiamme sublimi della combattività dei crociati. E il corso della storia mutò.
La voce di Pio XII risuona ancora nelle sue allocuzioni al Patriziato e alla Nobiltà romana, e perciò queste allocuzioni, che non erano riuscite a scuotere l’inerzia di tanti cattolici nei giorni in cui vennero pronunciate, sembrano oggi mirabilmente vivificate da un rinnovamento di grazie che porta legioni sempre più numerose di nostri contemporanei a desiderare la restaurazione di una società cristiana, gerarchica, in cui regni la tranquillità dell’ordine, in un’atmosfera di pace, nella quale vengano rispettate per il bene comune tutte le gerarchie legittime.
Questo spiega come, con rinnovato ardore per questo grandioso ideale, le allocuzioni di Pio XII al Patriziato e alla Nobiltà romana, ripubblicate nel libro che viene oggi presentato, stiano rivivendo giorni di efficacia e di gloria in aree di civiltà sempre maggiori del nostro mondo occidentale.
Francia, Portogallo, Spagna, il mondo iberoamericano, il mondo angloamericano, il mondo francoamericano, l’Africa del Sud, sono nazioni in cui queste mirabili allocuzioni vanno circolando oggi, nelle modeste pagine di questo libro, con il vigore e la forza d’urto di testi usciti solo da qualche giorno dalle labbra del grande Papa. Questo risveglia la speranza che, a breve, lo stesso accada in altri paesi come l’Inghilterra e la Germania. E come oggi avviene in questa mirabile Italia, letizia e gloria del mondo intero, in occasione di questa presentazione nella città di Milano.
Voglia così la Vergine Santissima realizzare completamente gli ardenti desideri tanto giusti, tanto opportuni, tanto indispensabili, di Papa Pacelli.
Plinio Corrêa de Oliveira
Note:
(1) Pio XII, Allocuzione al Patriziato e alla Nobiltà romana, del 14-1-1945, in Discorsi e Radiomessaggi di Pio XII, vol. VI, p. 273.
(2) Ibid., p. 277.
(3) Ibid., pp. 274-275.
(4) Luís de Camões, Os Lusíadas, canto VII, 14 [trad. it., I Lusiadi, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1966, p. 181 (ndr)].