di Michele Brambilla
Il Papa articola il proprio intervento alla recita dell’Angelus di domenica 2 settembre attorno al Vangelo della XXII domenica del Tempo ordinario (cfr Mc 7,1-8.14-15.21-23). Dice infatti: «Il racconto si apre con l’obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesù, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni. In questo modo, gli interlocutori intendevano colpire l’attendibilità e l’autorevolezza di Gesù come Maestro perché dicevano: “Ma questo maestro lascia che i discepoli non compiano le prescrizioni della tradizione”. Ma Gesù […] replica dicendo: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: ‘Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini’ ” (vv. 6-7)».
La Legge di Mosè era stata data al popolo ebraico affinché si ricordasse di appartenere al Signore e trovasse salvezza cercando, dietro il precetto, soprattutto Lui, ma i farisei ridussero il tutto all’applicazione maniacale del Levitico. Quando anche le norme scaturite dalla Nuova Alleanza vengono assolutizzate e scagliate senza discernimento, come magli pesantissimi e infrangibili, sulle persone concrete, si cade in un errore che Cristo fulmina senza pietà. «Gesù infatti vuole scuotere gli scribi e i farisei dall’errore in cui sono caduti, e qual è questo errore? Quello di stravolgere la volontà di Dio, trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane», ovvero aggrapparsi alla lettera delle regole minute dimenticandosi dello Spirito Santo che le ha concepite, il quale vede sempre più lontano e in profondità dei giudici umani.
«La reazione di Gesù è severa perché grande è la posta in gioco: si tratta della verità del rapporto tra l’uomo e Dio, dell’autenticità della vita religiosa. L’ipocrita è un bugiardo, non è autentico. Anche oggi il Signore ci invita a fuggire il pericolo di dare più importanza alla forma che alla sostanza. Ci chiama a riconoscere, sempre di nuovo, quello che è il vero centro dell’esperienza di fede, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo, purificandola dall’ipocrisia del legalismo e del ritualismo», che creano pure attorno al fariseo del XXI secolo una gabbia dorata, nella quale coltivare l’illusione di avere la coscienza a posto.
Il fariseo è quindi un uomo che si chiude nelle sue (poche) certezze, benché giustifichi la sua chiusura con la necessità di prendere le distanze dal peccato sociale. «“Non lasciarsi contaminare da questo mondo” non vuol dire isolarsi e chiudersi alla realtà. No. Anche qui non dev’essere un atteggiamento esteriore ma interiore, di sostanza: significa vigilare perché il nostro modo di pensare e di agire non sia inquinato dalla mentalità mondana, ossia dalla vanità, dall’avarizia, dalla superbia. In realtà, un uomo o una donna che vive nella vanità, nell’avarizia, nella superbia e nello stesso tempo crede e si fa vedere come religioso e addirittura arriva a condannare gli altri, è un ipocrita».