Elezioni politiche 2018. Un nuovo bipolarismo senza i cattolici
1. Per «che cosa» si è votato
La prima domanda relativa alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 non è «per chi», ma per «che cosa» hanno votato gli italiani. Il «chi» è la conseguenza; il senso lo dà il «che cosa».
Proviamo a spiegarci. La gran parte delle norme che regolano la nostra vita quotidiana è di fonte europea: diretta o mediata, con gli strumenti del recepimento. Ogni impegno di spesa — quindi ogni atto di governo — è possibile se è compatibile con i parametri e se segue i meccanismi definiti in sede di Unione Europea (UE). Non c’è legge di stabilità che non conosca prima del varo la puntuale verifica da parte delle istituzioni comunitarie. La legge comunitaria è il mezzo per far entrare ogni anno nel nostro ordinamento una serie di disposizioni, anche di dettaglio, concordate fra Consiglio e Commissione europei. Quel che resta fuori da tale ambito spesso consiste nell’apposizione di un sigillo di conferma a decisioni giudiziarie: la legge n. 219 del 2017 sulle cosiddette Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT) ha tradotto in articoli il contenuto delle sentenze pronunciate dieci anni fa sul caso di Eluana Englaro (1970-2009), mentre la legge n. 76 del 2016 sulle unioni civili addirittura rinvia esplicitamente ai provvedimenti dei giudici quanto all’adozione di bambini da parte di coppie same sex.
Il 27,1 per cento degli italiani non è andato a votare. Sommando agli astenuti i dati delle bianche e delle nulle — pari al 2,9 per cento dei votanti —, la forza del «partito del rifiuto», cioè di chi non ha espresso preferenza per alcuna forza politica, è pari a poco meno di un terzo degli iscritti nelle liste elettorali: mai il «partito del rifiuto» ha raggiunto una consistenza così significativa a un turno di elezioni politiche. Si è scesi dall’88,8 per cento di partecipazione al voto del 1988 al 72,9 per cento del 2018, con una accentuazione al ribasso nelle ultime due elezioni (1). È un dato che non indica esclusivamente un dissenso politico: concorre pure un disinteresse per la politica tout court, affiancato da una ridotta capacità di mobilitazione della politica medesima. Vi è la protesta di chi considera tutti responsabili di quel che non va, la sfiducia indistinta all’insegna del «sono tutti uguali», ma non è proprio marginale la componente di chi, al di là della conoscenza dettagliata dei meccanismi UE e delle relazioni fra le decisioni dei suoi organismi e gli Stati che la compongono, legittimamente si domanda a che cosa serva il voto per il Parlamento nazionale: quest’ultimo fa da transito per scelte operate altrove, quasi sempre da istituzioni prive di mandato popolare. Non è questione solo italiana e vi sono numerose controprove: per tutte, la Germania. Se per ben sei mesi il Paese leader in Europa è riuscito a fare a meno di un governo e della parallela attività parlamentare, e anzi il suo prodotto interno lordo è cresciuto, e la capacità di stare sui mercati delle sue aziende si è consolidata, è proprio perché ciò che regola il suo ordinamento interno prescinde in larga parte dalle scelte del Bundestag e dell’esecutivo che da esso riceve la fiducia. Non è l’unico caso: nel 2010 il Belgio non è riuscito a formare un governo per 541 giorni dopo le elezioni, e tempi lunghi, con più tornate di voto ravvicinate, hanno interessato anche la Spagna.
La campagna elettorale italiana non ha nemmeno sfiorato il tema: eppure non è un dettaglio, poiché chiama in causa la ragion d’essere della democrazia parlamentare e della partecipazione dei cittadini alle decisioni di chi li rappresenta. I pochi cenni all’Europa ascoltati nei confronti televisivi non sono andati oltre gli slogan, da quelli evocativi di una impossibile fuoriuscita dall’UE a quelli celebrativi di istituzioni comunitarie che ordinariamente prevaricano. È stato raro ascoltare qualcuno che esponesse un’idea di presenza effettiva e combattiva nell’Unione, mirata alla rinegoziazione di limiti troppo rigidi e alla considerazione di voci di maggior sostanza.
2. Emozioni
In assenza di contenuti, la campagna elettorale è stata mossa soprattutto da pulsioni e da richiami emozionali, in particolare al Sud. La scena politica è sempre più contagiata dalla dinamica delle emozioni: in un saggio pubblicato circa dieci anni fa, Geopolitica delle emozioni (2), il politologo della Sorbona Dominique Moïsi mostra quanto dopo l’11 Settembre il mondo sia diviso da fratture più profonde rispetto a quelle, pur significative, di ordine culturale descritte da Samuel Huntington (1927-2008) alla fine del secolo scorso (3). Spiega Moïsi che la scena geopolitica è segnata da uno «scontro delle emozioni» e che a plasmare il mondo contemporaneo sono la paura, l’umiliazione e la speranza, ancor prima delle divergenze ideologiche. In questi anni, sia gli Stati Uniti d’America sia l’Europa sono stati dominati dalla paura dell’«altro», dal timore di perdere la propria identità, dalla mancanza di un progetto. E, invece di ritrovare unità per superare queste difficoltà, si sono scontrati sulla maniera migliore per combatterle. In un contesto di ipercomunicazione queste dinamiche hanno oggi il sopravvento sulle argomentazioni, sui criteri di mera razionalità e/o di opportunità o di utilità, che in un passato neanche tanto lontano erano considerati preminenti.
Non è un fenomeno esclusivo della politica: anzi, lo è di quest’ultima proprio perché è generalizzato. Sintomo interessante in tale direzione è il successo di trasmissioni televisive come X Factor o Amici, che segnano «il trionfo dell’emozionalità, del solipsismo, del relativismo sentimentale, cifre specifiche del nostro tempo» (4). Il «discorso televisivo attuale […] ha nella supremazia e nell’infallibilità delle “emozioni” e delle “sensazioni” il proprio fulcro», in parallelo al dominio che nella comunicazione via Facebook ha il «mi piace». «Di fronte all’impossibilità di capirsi, nel battibecco isterico che avvolge tronisti, seduttrici, opinionisti e urlatrici Maria De Filippi celebra il trionfo della chiusura in sé stessi, il solipsismo radicale, il soggettivismo sfrenato. Una “comunità di destino” in cui soltanto l’oroscopo è in grado di costruire un flebile orizzonte di condivisione e di comprensione reciproca, “ah sei scorpione, vabbè”» (5). Perché meravigliarsi se in larga parte dei talk show dedicati alle vicende sociali e politiche prevalgono il vaniloquio, il pettegolezzo e la diffamazione, in un quadro di assenza di competenze? L’ignoranza è il corollario dell’approccio emozionale: essa tende quasi a diventare una virtù. Se non hai maturato esperienza e non mostri conoscenze approfondite è perché sei stato distante dal potere, quindi riveli un’«onestà» che va premiata con il like o con il voto: qual è la differenza fra i due, se talora il primo è finalizzato a individuare le candidature sottoposte al secondo? «Se da un lato i sentimenti privati sono l’unica fonte di autenticità dell’esistenza, dall’altro l’onestà è divenuto il paradigma supremo della res publica» (6). Onestà non nel senso di virtù, ma di quella ingenuità che deriva dal non avere mai assunto responsabilità pubbliche, e talora nemmeno private.
Approccio emozionale e distacco dalla politica sono strettamente correlati, e anzi un surplus di suggestioni contrastanti ha come esito coerente la nausea e il disinteresse: «abbiamo di fronte un elettorato vagotonico, […] indifferente a quel che avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali, quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere […]. Possiamo capirlo: per anni ci siamo spesi tutti i sentimenti politici possibili: la rabbia contro la casta, la delegittimazione della classe dirigente, l’indignazione e la denuncia anticorruzione, lo sputtanamento anche volgare di ogni avversario, il “vaffa” corale ed entusiastico nelle piazze, il plauso alla rottamazione, il moralismo dilagante, […] i tanti risentimenti personalistici o di piccolo gruppo, il rancore di quanti hanno sofferto il fermarsi dell’ascensore sociale. E tanto altro. Se un qualche privato cittadino esprimesse un “lasciatemi stare”, converrà dire che non avrebbe torto» (7). Approccio emozionale e distacco dalla politica hanno come ricaduta l’estrema semplificazione dei messaggi elettorali: flat tax e stop all’immigrazione per la Lega, reddito di cittadinanza per M5S-MoVimento 5 Stelle, hanno avuto un impatto e una efficacia di gran lunga superiori a proposte più elaborate o articolate. Ancora più in sintesi, entrambe le formazioni hanno coagulato consensi da segmenti differenti di «popolo»: «la Lega attorno alla parola d’ordine “soldi a chi lavora” nel profondo nord; i pentastellati attorno alla parola d’ordine “soldi a chi non lavora” nella disperazione del sud» (8).
È veramente singolare che, nell’immediato dopo-elezioni 2018, testate giornalistiche ed esponenti politici che hanno di frequente esaltato la disarticolazione dei corpi intermedi quale espressione di libertà dell’individuo, si siano lanciati in rievocazioni nostalgiche dei bei tempi nei quali c’erano e svolgevano una loro funzione la sezione di partito, la parrocchia, la sede del sindacato e financo la famiglia. «Non esiste più un cinema di quartiere. Non esiste più un teatro di quartiere, non esiste più un luogo dove andare a sentire qualche concerto nelle periferie abbandonate: ma ormai è tutto periferia abbandonata. […] Le organizzazioni di mestiere sono state liquidate come arcaiche “corporazioni”: al loro posto, il nulla. Le banche popolari: erano un’istituzione sociale, fondata sulla fiducia che si deve alla banca dei padri, dei nonni, dei bisnonni, e adesso che cosa sono diventate? E le cooperative, che hanno di diverso oramai dalla gelida organizzazione industriale dove il sentimento di appartenenza è semplicemente sparito?. E i consorzi, le reti che ti tenevano legato a un territorio, a un sapere condiviso, a un mestiere, a una competenza? […] David Riesman [1909-2002], già negli anni Cinquanta, la chiamava la “folla solitaria”. Ecco, la “folla solitaria” è arrivata, trascinata dalla “disintermediazione”. […] C’è qualcosa di sbagliato nel modo con cui abbiamo concettualizzato l’ingresso nella tumultuosa post-modernità. La famiglia in cui sei un po’ meno solo? Una gabbia» (9). A Pierluigi Battista fa eco il fondatore del Partito Democratico (PD) Walter Veltroni: «Ricordo quando Berlinguer [1922-1984] propose il compromesso storico: milioni di persone si trovarono in luoghi fisici per parlarsi: il calore, lo scambio meraviglioso, l’incontro di punti di vista diversi. A me piacerebbe che il Pd ora avesse l’ambizione di capire più che di dire» (10).
Il che è un bel revirement rispetto alla riforma costituzionale proposta dal PD, il cui asse portante, esaltato dalla grande stampa, è stata proprio la «disintermediazione». Dal palco del convegno della Stazione Leopolda, a Firenze, il 26 ottobre 2014, l’allora presidente del Consiglio e leader del PD Matteo Renzi così indicava il contesto in senso lato culturale nel quale si inseriva la riforma costituzionale allora all’esame del Parlamento: «Non voglio prendermela con i corpi intermedi, ma la disintermediazione dei corpi intermedi avviene dai fenomeni di cambiamento che la realtà sta producendo» (11). In tal modo egli dava declinazione politica a una tendenza ben illustrata nel rapporto CENSIS del 2015, che provava a spiegare come mai in un momento di perdurante crisi finanziaria gli italiani risparmiano su beni essenziali e invece si lanciano nell’acquisto di beni apparentemente futili come lo smartphone (12). E rispondeva che il potere di disintermediazione garantito dagli strumenti che consentono la connessione in rete si traduce in un risparmio netto finale nel bilancio personale e familiare. La traduzione politica di questa tendenza è stata teorizzata e praticata per primo da M5S, con l’uso esclusivo della rete per garantire un contatto diretto costante fra cittadini e rappresentanti, e prima ancora per individuare i rappresentanti del MoVimento. Ma nel 2014 M5S non era a Palazzo Chigi; con Renzi la disintermediazione è diventata asse portante dell’azione di governo e della legislazione da esso promossa, al tal punto che perfino la Costituzione, attraverso le modifiche proposte dall’allora premier, era chiamata a prendere atto del fenomeno e ad adeguare le proprie disposizioni per assecondarlo. Neanche un anno dopo l’esito delle urne fa emergere quanto sia dannosa la eliminazione o la riduzione di peso di legami sociali essenziali. Non si può dire che le elezioni del 4 marzo siano state inutili.
3. Perché il Sud vota M5S
Il successo di M5S si è manifestato in tutto il territorio nazionale: non vi è zona dell’Italia nella quale questa forza politica non abbia avuto un risultato significativo, a riprova del carattere generale del sentiment che lo ha spinto. Un leggero decremento di consensi rispetto al 2013 vi è stato solo in quattro regioni del Nord, dall’1 per cento del Piemonte al 2,6 per cento del Friuli-Venezia Giulia. All’interno di tale quadro d’insieme si colloca l’exploit al Sud, con punte — incredibili per un singolo partito politico — del 49,4 per cento in Campania e del 48,8 per cento in Sicilia. La preferenza espressa per M5S al Sud, alla luce della ricordata riduzione delle schede bianche e nulle in tre regioni meridionali, ha perfino recuperato elettori che nel 2013 non avevano espresso alcun voto valido.
Se al Sud si fosse votato per il Comune, o anche per la Regione, i risultati sarebbero stati differenti: basta scorrere gli esiti delle votazioni amministrative svoltesi negli anni dal 2013 in poi, allorché M5S era già una realtà importante. Poiché il singolo parlamentare da eleggere conta oggi molto meno del sindaco o dell’assessore regionale, ci sono elettori che hanno pensato che non valesse nemmeno la pena di esprimere un voto e altri che si sono sentiti del tutto «liberi», al netto di qualsiasi condizionamento clientelare o di convenienza, e hanno manifestato un voto secondo quanto dettava l’impulso. A conferma di ciò, meno di due mesi dopo il 4 marzo, le elezioni regionali in Molise del 22 aprile hanno visto prevalere la coalizione di Centrodestra, e un regresso di oltre sei punti percentuali dei voti validi del candidato del M5S (13). Di più, a proposito dei richiami emozionali, il risultato elettorale è parso trasporre in voti la descrizione sullo stato dell’Italia fornita dall’ultimo rapporto CENSIS: un corpo sociale disaggregato, sempre più coriandolare, il cui elemento dominante è il rancore (14). In quest’ottica, perché meravigliarsi se un terzo degli elettori non esprime un voto valido e degli altri due terzi la metà — quella che ha preferito M5S, Lega e Fratelli d’Italia — vota contro ciò che percepisce come l’establishment? È più del 60 per cento degli italiani. I sentimenti di rancore e di frustrazione, quest’ultima più accentuata al Sud, danno ampia ragione del successo di quel «sindacato» di rancorosi e di «vaffa» incarnato nel M5S (ancora adesso indicato dalla V maiuscola, che continua a comparire nella parola MoVimento). Va aggiunto che «dieci anni di crisi non passano senza conseguenze: appena hanno potuto, attraverso il voto, gli elettori hanno manifestato e manifestano un po’ ovunque la loro insoddisfazione verso le politiche di governo. […] le persone non si lament[a]no quando sanno di essere tutte insieme in mezzo ai guai — vedono da sole la necessità di tirare la cinghia — ma appena vedono che l’economia riparte, presentano il conto e avvertono i governanti: abbiamo tirato la cinghia per anni, voi adesso ci dite che la crisi è finita, che va tutto bene, ma noi non vediamo i benefici di cui voi parlate, anzi ci saremmo attesi qualcosa di più che non arriva, mentre, al contrario, siamo arrabbiati perché qualcuno ne sta approfittando» (15).
Si prenda una regione come la Puglia, che fino al 2013 ha manifestato un voto politico prevalente per il centrodestra — fino a quindici anni fa il voto per il centrodestra era maggioritario anche alle regionali e alle amministrative — e che comunque vanta il ceto produttivo e imprenditoriale mediamente più avanzato del Mezzogiorno: se oggi M5S fa banco è perché da un lato i pugliesi sono stanchi di un’amministrazione regionale deficitaria in materie essenziali come la sanità e i trasporti locali, e dall’altro lato non tollerano più un centrodestra che continua a proporre da vent’anni sempre gli stessi volti, reduci da plurime sconfitte. Vale pure al contrario: in Lombardia e nel Veneto il centrodestra vince grazie all’efficace azione di governo degli enti territoriali, sanità inclusa. La differenza in termini di ricaduta elettorale fra Nord e Sud è semplice: non accade per caso se al Sud il PD perde voti in tutte le regioni nelle quali ha governato e se invece la Lega guadagna consensi nei territori delle regioni del Nord da essa guidate.
I voti espressi dal Sud e dalle Isole al M5S (tanti) e alla Lega (novità rispetto al passato) esprimono pure rigetto e rottura verso un patto «scellerato», stretto in prevalenza nelle aree interne del Mezzogiorno, fra classi dirigenti logore e compromesse e una società indebolita e in cerca di protezione. Riflette una domanda di protagonismo e di libertà dall’oppressione della vecchia politica e delle sue logiche. Lo scrive lo storico Paolo Macry, quando parla di un Sud stanco di «[…] amministratori locali, sindaci, governatori, che hanno svuotato la rappresentanza di qualsiasi radicamento e di qualunque legittimazione. Un pugno di notabili, ormai poveri anche di clientele, che agli elettori hanno proposto candidati improbabili, nomi usurati dal tempo, amici degli amici, figli d’arte, compaesani, clienti di ogni provenienza» (16). Il ridimensionamento di PD e di Forza Italia (FI) deriva pure dalla corrispondenza di larga parte dei loro candidati a questo profilo. Continua Macry: «Non bisognerebbe sottovalutare le colpe di governi che, anche in anni recenti, hanno promesso investimenti produttivi, riconversioni territoriali, infrastrutture: e poi non è successo nulla. Ma neppure bisognerebbe dimenticare che questo Mezzogiorno ha spesso scelto (e poi ha subito) classi dirigenti straordinariamente inadeguate». Lo si ripete: nel momento in cui il voto è meno controllabile e meno collegabile a scambi e a clientele — quello per le politiche ha acquisito tale assenza di condizionamento, somigliando sempre più a una tornata elettorale per il Parlamento Europeo —, si mostra «libero» di corrispondere a ciò che sente piuttosto che a ciò che conviene. Anche perché nel M5S l’elettorato meridionale ha intravisto una prospettiva non di mera protesta: «Di Maio è riuscito a mettere insieme il vecchio voto di protesta, quello incassato da Beppe Grillo con la sua violenza verbale, con i suoi vaffa, al voto “di speranza” in terre disperate. Il Movimento si è accreditato come il Nuovo. Anche con una trasformazione antropologica: da Beppe Grillo, che non suggeriva una reale alternativa politica, a Luigi Di Maio, in grisaglia e in cravatta, rassicurante. Da movimento a istituzione» (17).
4. Al Sud oggi la prosecuzione di Roma-2016. Domani la scena nazionale riproporrà il voto odierno di Roma?
Si diceva una volta che quel che accade sulla scena politica della Sicilia fa da apripista per la scena politica nazionale. Nel 2018 non è andata così: da apripista due anni fa ha fatto l’elezione di Virginia Raggi a sindaco di Roma, allorché l’orientamento prevalente nell’elettorato avrebbe premiato qualunque candidato del M5S. Va pure ricordato che nel 2016 il centrodestra aveva contribuito in modo deciso alla propria sconfitta, dividendosi al primo turno nonostante la candidatura di un suo leader nazionale come Giorgia Meloni. Probabilmente Raggi avrebbe vinto pure con il centrodestra unito, ma in quel momento il centrodestra disunito non è arrivato nemmeno al ballottaggio. Due anni dopo, soprattutto al Sud, l’onda M5S è stata forte e — salvo eccezioni — l’inadeguatezza dei candidati del centrodestra ha completato l’opera.
È vero, i candidati del M5S avevano un profilo modesto; taluni di loro erano stati addirittura espulsi o sospesi dal MoVimento mentre era in corso la campagna elettorale per la questione dei mancati rimborsi: per il voto è stato decisivo il simbolo, Grillo e Di Maio hanno contato più del loro esponente nei singoli collegi o nei listini plurinominali. I piani vanno però tenuti distinti: la campagna elettorale del M5S non si è basata sulla qualità dei suoi candidati, e ancor di meno sui discutibili criteri di selezione delle candidature. Ha insistito su pochi temi-chiave, in primis il cosiddetto «reddito di cittadinanza», ma — sul terreno dei soggetti da votare — ha investito quasi esclusivamente sulla figura di Di Maio: giovane, a fronte dell’età del leader di FI e dell’usura politica del leader del PD; di aspetto rassicurante, a differenza di personaggi di M5S più barricadieri, come Alessandro Di Battista; pronto a governare, se pochi giorni prima del 4 marzo ha inviato al Quirinale la lista dei ministri: un gesto che i media hanno censurato in termini di sgarbo verso il Capo dello Stato, ma che ha convinto che non c’era solo la protesta. Tutto ciò, al netto dei candidati dei collegi, rivela professionalità nell’uso dei media e dei social: sarebbe sbagliato sottovalutarla.
Questa è ovviamente la lettura del voto, non già della probabilità che da quel voto emerga il mutamento che esso esige. Fra quanto promesso in campagna elettorale, il primo nodo che verrà al pettine sarà il reddito di cittadinanza: se, come è ampiamente prevedibile, esso avrà per ragioni di tenuta del bilancio una estensione inferiore a quella attesa, o mancherà del tutto, alla protesta seguirà la delusione, che si ritorcerà contro chi lo ha promesso. Il rischio per il M5S è «[…] che l’elettorato gli volti rapidamente le spalle se non vede risultati» (18): quando — molto presto — andranno fatti i conti con i vincoli di spesa, con le ricadute del patto di stabilità sugli enti territoriali, con l’impossibilità di corrispondere alle attese sollevate. Le performance del sindaco della Capitale, che in meno di due anni è riuscita a far rimpiangere le esperienze in sé poco felici dei predecessori, potrebbero essere il copione di un eventuale governo nazionale a guida M5S. Sono proprio i risultati del 4 marzo a Roma e nel Lazio ad avallare questa lettura. Contemporaneamente alle politiche si è votato per il rinnovo dell’amministrazione regionale: nonostante M5S abbia schierato come candidato presidente una propria esponente di punta come Roberta Lombardi, è stato confermato nell’incarico il governatore uscente Nicola Zingaretti, del PD; la Lombardi è stata ampiamente superata nei consensi anche dal candidato di centrodestra Stefano Parisi. È logico collegare questa sconfitta alla delusione di una parte dell’elettorato che nel 2016 aveva preferito Virginia Raggi al Comune di Roma.
L’immediato dopo-elezioni è coinciso con la maggiore ostentazione dei comportamenti «anti-casta» da parte degli esponenti del MoVimento: dal neo-presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, che ci ha tenuto a mostrarsi diretto a Montecitorio in autobus alla rinuncia all’indennità di funzione da parte degli eletti negli uffici di presidenza di Camera e Senato, con pedissequa imitazione da parte dei rappresentanti degli altri partiti collocati nei medesimi uffici. Basterà qualche settimana perché la «propaganda della diaria» riveli il respiro corto. Chi risiede a Roma oggi è interessato ai rifiuti che tracimano dai cassonetti e agli autobus che si bloccano per strada e non vengono riparati, piuttosto che dagli emolumenti degli assessori comunali; allo stesso modo, affievolita l’enfasi pauperistica, gli italiani a breve vorranno vedere segni concreti di incremento del prodotto interno lordo, di ripresa economica e di contenimento dell’immigrazione irregolare. Sarà complicato per M5S rispondere a queste esigenze esibendo i cedolini al netto delle indennità.
5. Gli sconfitti del 4 marzo
a. Il PD e Renzi. Renzi porta a compimento la sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016, mai compiutamente metabolizzata, trascinando nel suo destino il partito che ha guidato. Il presidente del Consiglio uscente Paolo Gentiloni è stato apprezzato nel sentire comune solo perché non è Renzi, ma le politiche di cinque anni di governo «a traino PD» hanno scontentato tutti. Renzi ci ha messo molto del suo, senza trascurare che la crisi della sinistra ha dimensioni europee: si pensi al crollo dei socialisti in Francia, pur al termine del quinquennio presidenziale di Francois Hollande, alla sconfitta della SPD in Germania, alla debolezza del Labour Party nel Regno Unito, alla riduzione dei consensi del PSOE in Spagna. Oggi il voto di sinistra in Italia, come mostrano gli studi che scompongono l’elettorato per fasce di età, di reddito, di titolo di studio e di lavoro, non è espressione del disagio degli operai e dei disoccupati, ma di segmenti sociali acculturati e benestanti: collegi elettorali sicuri per il PD sono stati quello romano dei Parioli (28 per cento dei voti validamente espressi), di Milano centro (49 per cento) e Torino centro (28,5 per cento); si tratta delle aree urbane con il più elevato costo degli immobili per metro quadro d’Italia e con il più alto reddito pro capite dei residenti. Il PD consegue invece il 4,3 per cento nel quartiere Zen di Palermo e il 9 per cento nel quartiere napoletano di Scampia (ma sale al 19,3 per cento a Capri). La Toscana, dove pure il PD ha perso il 7,8 per cento dei consensi, resta la sola regione nella quale la sommatoria dei partiti che si collocano a sinistra individua ancora la coalizione più forte; nella regione «rossa» per tradizione, l’Emilia-Romagna, il calo di voti del PD è stato del 10,7 per cento!
Dopo la caduta dei Muri la sinistra europea, e con essa quella italiana, ha promosso il soggettivismo e il radicalismo di massa (19), simboleggiato — da ultimo — dalle leggi sui temi eticamente sensibili imposte dal governo Renzi: da essi alla fine sono stati travolti. Quando si rinuncia a curare la dimensione sociale e si fanno coincidere le battaglie della sinistra con quelle per i cosiddetti «diritti civili», non ci si può meravigliare se poi l’elettore con problemi di sopravvivenza quotidiana opta per chi prospetta soluzioni per l’assenza di lavoro o per i redditi sotto i livelli del decoro. I «ceti medi ricchi e intellettualizzati [sono] prima di tutto interessati ai diritti di libertà (a cominciare dai diritti delle minoranze sessuali), ma questi stessi diritti di libertà, in questi anni di crisi, vengono visti da tutto il resto dell’elettorato popolare come delle guarentigie, dei lussi destinati, per l’appunto, al consumo elitario dei ceti medio-alti» (20).
L’elettore coglie l’immagine del PD come «[…] quella di un partito di fatto identificato con l’esistente e con la sua difesa: fino al punto di considerare tale difesa il proprio compito principale. Insomma, l’immagine tipica di un partito dell’establishment […]. Tanto più in una situazione sociale come la nostra attuale dove […] sono almeno dieci i milioni di italiani che vivono nella povertà o in condizioni di disagio assai prossime alla povertà, dove per giudizio unanime interi settori di servizi essenziali funzionano male o malissimo» (21). La lezione non è servita: l’ingresso nel PD, due giorni dopo il voto, di Carlo Calenda, enfatizzato dai media, coincidente con una nemmeno tanto implicita futura investitura del ministro dello Sviluppo Economico alla guida del partito, è segno di vicinanza ad ambienti europeistici e di establishment, nonché di parallela distanza dalle fasce di elettori più disagiati.
b. Berlusconi e Forza Italia. La loro sconfitta ha varie ragioni: 1) si può scrivere sul simbolo del partito «Berlusconi presidente», ma poi chi vota sa bene che a Berlusconi è formalmente impedito di fare il presidente: ciò suona da presa in giro e non spinge alla preferenza del simbolo; b) si può auspicare a lungo la «grande» coalizione con il PD, ma la presa di distanza da tale prospettiva pochi mesi prima del voto poi non suona credibile; c) poco suggestiva, in una campagna elettorale fondata esclusivamente su suggestioni, è stata la riproposizione di slogan datati e di temi adoperati in precedenti tornate elettorali, senza spunti di originalità; d) si è già detto della scelta infelice dei candidati, soprattutto al Sud: per come è stato articolato il sistema elettorale — alla fine il confronto è stato sui simboli, e quindi sui leader —, questo non ha avuto un peso decisivo, ma se si confronta il differenziale del voto nei collegi uninominali fra i candidati del centrodestra e quelli del M5S, si nota che la forbice cresce in presenza di soggetti improponibili schierati dal primo.
c. Il cosiddetto establishment e i media di riferimento. La prospettiva della «grande» coalizione, cioè dell’accordo fra un PD munito della golden share della coalizione e una Forza Italia socio di minoranza — riedizione del «Patto del Nazareno» del 2014 — era la preferita da questo mondo, anche in chiave europeista e filotedesca: in tal direzione è andato il lancio della candidatura di Emma Bonino e della sua lista, con una presenza intensa e continuativa a lei concessa dai media. In tale direzione è andato perfino l’endorsement di Eugenio Scalfari in favore di Silvio Berlusconi (in opposizione a Di Maio), diventato d’un tratto digeribile dopo un ventennio di anatemi. Ancora la domenica del voto, il 4 marzo, la Repubblica usciva con l’editoriale del proprio fondatore che, nella prospettiva della vittoria del PD, dava suggerimenti a Renzi su come evitare gli errori del passato. È vero che, a mano a mano che i risultati si consolidavano, è iniziato il lavoro di addomesticamento dei nuovi vincitori, e in particolare di M5S. Ed è vero pure che le caratteristiche del MoVimento sono le più adeguate, qualora esso assumesse la responsabilità del governo nazionale, per indebolire ulteriormente quel che residua della ricchezza italiana, in linea con lo smantellamento delle più significative industrie nazionali realizzato nell’ultimo quarto di secolo, e per disintermediare ancora di più lo stremato corpo sociale. Ma le ultime elezioni hanno confermato il solco esistente fra la realtà e quelle élite che presumono di interpretarla: quelli che una volta si chiamavano «poteri forti» appaiono sempre più scollegati dalla società su cui pretendono di esercitare il potere. Le precedenti puntate di incomprensione sono state la cosiddetta «Brexit» — l’uscita del Regno Unito dalla UE — contrastata con toni simili a quelli di un nuovo conflitto bellico, lo sforzo propagandistico quasi isterico in occasione delle elezioni presidenziali statunitensi, il fallimento del referendum costituzionale in Italia. Se la stalla reca ancora su di essa il cartello dell’establishment, i buoi ne disattendono le indicazioni: il 4 marzo è l’ennesimo sintomo che il popolo, le rare volte in cui viene consultato, mostra di non gradire.
d. Il mondo cattolico italiano. Ammesso che ancora esista come soggetto politicamente identificabile, è nell’elenco dei perdenti. La sua rappresentanza parlamentare appare quasi estinta. La sua incidenza, in termini di capacità di intervenire sulla campagna elettorale, è stata prossima allo zero. È qualcosa che in parte corre in parallelo alla scristianizzazione in corso e in parte è frutto di un volontario abbandono del terreno di gioco politico iniziato da tempo. L’espressione di voto dei cattolici non si distingue da quella dell’intero corpo elettorale italiano. Che cosa è accaduto in poco più d’un decennio per affievolirne a tal punto il peso sociale e politico? Da forza non maggioritaria ma egemone su temi fondanti, aggregante rispetto a sensibilità non confessionali, ascoltata e tutt’altro che elitaria — alla legge n. 40 del 2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita è seguita nel 2005 la vittoria referendaria — a frangia marginale, nemmeno chiaramente riconoscibile. È un quesito cui rispondere senza automatismi del tipo «da quando c’è Papa Francesco…»: che, più che un equivoco, è un alibi per la propria inerzia. L’ultima modalità di presenza pubblica dei cattolici italiani, con il coinvolgimento formale della realtà ecclesiale, è stato il Family Day del 2007, sei anni prima dell’avvio dell’attuale pontificato — i Family Day del 2015 e del 2016 hanno visto i pastori formalmente estranei, e più d’uno ostile, alla loro realizzazione —, sì che appare stucchevole il dibattito avviatosi nelle ultime settimane sull’irrilevanza: come se si trattasse di una novità!
L’abbassamento di profilo è iniziato subito dopo il 2007, nonostante il prezioso magistero di Papa Benedetto XVI (2005-2013) sul rapporto tra fede, cultura e politica, pur nella distinzione fra religione, legge naturale e legge dello Stato. «Umanamente parlando, di cattolico sembra che ci sia meno che una decina di anni fa: in convinzione e in pratica di fede. — così ragionava, un mese prima delle elezioni, il card. Camillo Ruini, ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana e protagonista della stagione del rilievo politico dei cattolici — […] la fede stenta a tradursi in cultura, in capacità di valutazione e di giudizio. Questo è probabilmente uno dei limiti maggiori della formazione che diamo nelle parrocchie e nelle associazioni. […] C’è una fase nuova, nella quale i cattolici rischiano di essere sempre meno rilevanti, nonostante il loro grande contributo alla vita sociale. Per evitare questo esito è indispensabile potenziare la capacità di tradurre la fede in cultura e in azione politica» (22). Una delle conseguenze dell’irrilevanza sta nel fatto che, al momento della definizione delle candidature, lo spazio riservato a persone chiaramente percepibili come cattolici, in quanto già impegnate su fronti eticamente sensibili, è mancato quasi del tutto: segno che le leadership dei differenti partiti non percepiscono l’esistenza di un mondo da rappresentare. E quindi che l’insieme di questo mondo non è in grado di interloquire con efficacia con il mondo della politica né di esigere una coerente rappresentanza nelle istituzioni. D’altronde, nella legislatura appena conclusa i cattolici sono riusciti a mostrarsi divisi anche su temi cruciali come la legge sulle unioni civili e quella sulle DAT: quando piazza San Giovanni e il Circo Massimo a Roma si sono riempite oltre ogni previsione in difesa della famiglia, non è mancato chi ha operato il controcanto, da bravo «cattolico adulto». È andata grosso modo alla stessa maniera quando più realtà associative cattoliche hanno sollevato critiche motivate al biotestamento. E ciò rappresenta una ulteriore differenza rispetto al Family Day del 2007, il cui effetto immediato fu il blocco del disegno di legge sui cosiddetti Di.Co, «diritti dei conviventi»: a conferma che la presenza visibile nelle piazze di una comunità che dichiara di non arrendersi alla deriva libertaria è necessaria ma non sufficiente. Chi ha scientemente rotto la compattezza del fronte contrario alle due leggi che hanno imposto il matrimonio same sex e l’eutanasia si è assunto la responsabilità di un indebolimento dal quale i fautori dell’uno e dell’altra hanno tratto profitto. Al contrario, fino al 2007, lo sforzo operato da chi guidava la comunità ecclesiale italiana, sulla scia del magistero di san Giovanni Paolo II (1978-2005), era stato quello di aggregare su voci antropologicamente rilevanti anche al di là del recinto confessionale, con una interlocuzione fondata sui fondamentali del diritto naturale.
6. Il successo della Lega
Tale successo è consistito, grazie alla leadership di Matteo Salvini, nell’aver individuato uno spazio — quello che, all’interno del centrodestra, fino a dieci anni fa occupava Alleanza Nazionale — e un disagio — quello di chi, pur non collocabile a sinistra, non si sente più rappresentato da Forza Italia —, e di aver riempito l’uno e l’altro, trasformando una forza politica territoriale in un partito nazionale tendenzialmente di destra. L’insistenza sui temi dell’immigrazione, della sicurezza e dell’impoverimento a causa dell’Europa e delle banche ha permesso di attrarre consensi anche di frange di elettori tradizionalmente collocati a sinistra. Diventando un partito nazionale e superando FI nella sfida interna al centrodestra, Salvini è riuscito a far intravedere nell’intero schieramento qualcosa che pareva impossibile: la prospettiva concreta della successione a Berlusconi. Quello che quest’ultimo non ha mai realmente preso in considerazione, nella sostanza è diventato realtà non per sua delega, bensì per volontà degli elettori. L’esame dei flussi dei voti ha mostrato la capacità di attrarre consensi anche da imprenditori piccoli e medi, oltre che da operai e artigiani, e ha iniziato a recuperare il patrimonio perduto al Sud dal centrodestra negli ultimi anni.
Come già ricordato, se la Lega ha mostrato di capitalizzare al Nord il buon governo del territorio, ha raccolto pure essa al Sud — in parallelo con M5S — voti al tempo stesso di protesta e di speranza: che possono essere mantenuti e incrementati se lo schema di formazione dei propri quadri svolto al Nord nel corso dei decenni, con un cursus honorum coincidente con una «gavetta» fatta sul territorio — partendo dal consiglio comunale e dalle iniziative locali —, viene trasferito al Sud, senza scorciatoie. E quindi senza raccogliere — come in più d’un caso è accaduto — soggetti oggi tanto pronti a salire sul carro del vincitore quanto possono esserlo domani a scendere da esso alla prima difficoltà, avendo peraltro già alle spalle un curriculum di cambi in corso d’opera. Se fra le ragioni dei voti conseguiti al Sud dalla Lega vi è — come per il M5S — l’insofferenza per il vecchio ceto politico, non depone bene ritrovarsi come deputato o senatore qualche esponente di quello stesso ceto.
Come può «felicemente» decrescere l’attuale consenso del M5S — si è già ricordata la dinamica romana —, altrettanto può accadere alla Lega se non sarà in grado di gestire il risultato ottenuto, rilanciando e investendo. Le saranno necessari: a) un riposizionamento verso l’area moderata, che — senza abbandonare i temi «forti» della protesta — la renda più rassicurante verso ampie fasce di quell’elettorato una volta orientate verso FI. Il riposizionamento chiama in causa anzitutto una minore genericità e superficialità nella trattazione di temi complessi; b) l’elaborazione di proposte serie per il Sud. Se il 4 marzo la Lega, come il M5S, ha preso voti dicendo che gli altri avevano operato male, ora è ineludibile articolare la propria idea di Mezzogiorno, quanto a sviluppo industriale, sistema del credito, infrastrutture, e così via; c) una maggior cura nella selezione del proprio personale al Sud; d) l’avvio di una interlocuzione contenutistica con istituzioni come le magistrature e le amministrazioni dello Stato, verso le quali finora vi è stata notevole distanza, anche nella prospettiva di un miglioramento di efficienza del sistema.
7. Verso un nuovo bipolarismo
È facile prevedere che il tripolarismo uscito dalle urne il 4 marzo costituisca un fenomeno di passaggio. È nell’ordine delle cose che a medio termine il M5S si stabilizzi sulla sinistra dell’asse politico, in quanto «evoluzione» delle dinamiche libertarie e individualistiche del PD, assorbendone ulteriori fasce di elettorato, e la Lega dreni ulteriori consensi a FI, diventando la parte grossa dello schieramento contrapposto. È nell’ordine delle cose che il PD segua le orme del Partito Popolare Italiano, erede della Democrazia Cristiana, dopo le elezioni del 1994, risucchiato prima dall’Ulivo e, dopo il passaggio di una sua componente nella Margherita, dai Democratici di Sinistra, e quindi dal PD stesso: anche il voto delle elezioni politiche del 1994 ebbe un esito tripolare, superato dagli sviluppi successivi. È possibile che, dopo consultazioni da parte del Presidente della Repubblica non facili né brevi — a parte le elezioni regionali di fine aprile nel Molise e in Friuli-Venezia Giulia, il 10 giugno ci saranno quelle amministrative in quasi trenta capoluoghi di provincia —, il governo si formi basandosi su una maggioranza M5S-PD, con l’aggiunta della pattuglia di LEU-Liberi ed Eguali. Un numero crescente di esponenti di PD e LEU auspicano tale esito, anche nella prospettiva del reingresso di LEU nel PD. Segnali plurimi e chiari vanno in questa direzione, auspicata e sostenuta dall’establishment (23). Sarebbe incoerente con lo scontro durissimo svoltosi nel corso della campagna elettorale fra PD e M5S? In Germania il leader socialdemocratico Martin Schultz aveva condotto la propria campagna elettorale nel settembre 2017 all’insegna del «mai più grande coalizione»: dopo sei mesi si è formato un esecutivo sorretto dall’Unione Cristiano-Democratica (CDU) e dal Partito Socialista Tedesco (SPD), passato per le dimissioni di Schultz e per la ridefinizione della linea politica della SPD, a seguito di una ampia consultazione interna. La strada per il PD è tracciata; al pari della non ricandidatura a guidarlo del segretario dimissionario Matteo Renzi e di un congresso che ridefinisca la linea delle alleanze politiche.
8. Verso la fine dell’impegno politico dei cattolici?
Quale sarà la sorte dei temi eticamente sensibili nella legislatura appena iniziata? Non è immaginabile una riedizione della foga radicaloide che ha attraversato il quinquennio 2013-2018: sia perché gli obiettivi posti sono stati raggiunti tutti, dal «divorzio breve» al «divorzio facile», dalle unioni civili al biotestamento, dalla cripto-legalizzazione della droga all’inserimento del gender ovunque possibile. Sia perché gli equilibri più precari oggi esistenti indurranno a cautela nel cercare lo scontro su temi divisivi. Sia, infine, perché il terreno di confronto su voci ancora non definite si è spostato dal Parlamento alle Corti giudiziarie: a breve le Sezioni Unite della Corte di Cassazione decideranno sulla vicenda, loro rimessa, di due persone dello stesso sesso, unite in matrimonio all’estero, che hanno chiesto la trascrizione nei registri dello stato civile di un comune italiano di un provvedimento giudiziario canadese, che a sua volta aveva accertato la genitorialità di uno di essi. I figli, nati da maternità surrogata in Canada, sono cittadini canadesi, mentre i due genitori hanno la cittadinanza italiana e hanno contratto matrimonio in Ontario. La coppia aveva impugnato il diniego del Comune in Tribunale, il quale aveva respinto la domanda di trascrizione, mentre la Corte di appello del luogo ha riconosciuto l’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento canadese (24). Ancora: a breve la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 580 del Codice penale, che sanziona le condotte di aiuto al suicidio: la questione è stata sollevata con ordinanza dalla Corte di assise di Milano, nel processo che vede imputato Marco Cappato (25). È evidente che dalla pronuncia della Cassazione dipende non poco in ordine alla pratica della maternità surrogata in Italia, e da quella della Consulta dipende l’affermazione della totale autonomia e autodeterminazione in ordine al bene-vita. Né va perso di vista quanto accade nelle Corti europee, che di recente non hanno fatto mancare decisioni discutibili, per esempio in materia di libertà religiosa (26).
Concentrare l’attenzione sul Parlamento nazionale rischia di trascurare che oggi il luogo delle decisioni più significative, anche per le ricadute nell’ordinamento italiano, è quello delle giurisdizioni nazionali ed europee. Concentrare l’attenzione su questi temi rischia di far perdere di vista che la Dottrina Sociale della Chiesa, e con essa l’impegno dei cattolici in politica, non coincide con le pur rilevantissime voci vita, famiglia e libertà religiosa. Il patrimonio culturale che si fonda sul Magistero sociale ecclesiale e su elaborazioni con esso coerenti permette di disporre di princìpi di riferimento e di criteri di giudizio, e di elaborare direttive di azione, per affrontare le emergenze sociali del presente: dal rilancio demografico, indispensabile per superare la causa principale dell’impoverimento dei Paesi europei (27), ai riflessi della globalizzazione selvaggia sui livelli di occupazione degli Stati europei, dall’equilibrio fra accoglienza e sicurezza in tema di immigrazione al contrasto al terrorismo, e al parallelo sforzo di integrazione di chi ha visioni del mondo antitetiche a quelle occidentali.
Quel che resta del mondo cattolico italiano — ma la stessa considerazione vale anche per altre realtà — è chiamato a scelte impegnative. All’handicap della divisione si accompagna quello dell’incertezza sul ruolo attuale dei cattolici in politica. Il disimpegno dalla politica è teorizzato, se non proprio rivendicato, non solo con riferimento all’Italia. Antonio Spadaro S.J., direttore di La Civiltà Cattolica, e il pastore presbiteriano Marcelo Figueroa, direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano, in un saggio pubblicato la scorsa estate, prendendo le mosse dall’espressione che compare sul dollaro In God We Trust, affiancavano riferimenti storici a incursioni nell’attualità, per giungere alla condanna senza appello sia del Sacro Romano Impero sia dell’alleanza che negli Stati Uniti consente da tempo a cristiani evangelici e cattolici di affrontare insieme le grandi questioni di principio (28). «Ecumenismo dell’odio» è l’espressione adoperata nell’articolo per bollare quel che in definitiva è lo sforzo, pieno di limiti e di cadute, di costruire nella storia un’efficace azione che leghi fede, cultura e impegno politico. È una espressione obiettivamente ingenerosa nella ricostruzione storica, imprecisa quanto all’attualità, lontana dalle necessarie distinzioni all’interno del quadro politico americano, e fra esso e quello europeo, e dissonante dal Magistero pontificio.
Fra gli echi italiani di una simile impostazione vi è quanto scritto dal presidente dell’UGCI-Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, il professor Francesco D’Agostino, su una testata significativa quanto la rivista dei gesuiti. A suo avviso «non appartiene più al momento storico che stiamo vivendo l’idea di poter dare concretezza e operatività non solo a partiti cattolici, ma anche ad un ulteriore impegno politico diretto di singoli parlamentari cattolici. […] L’unico compito che oggi può spettare ai cattolici che vogliano agire politicamente (ma è un compito immenso!) è quello di elaborare visioni del mondo, compatibili con le dinamiche sociali del presente». Ciò vuol dire, secondo lo stesso D’Agostino, che «i cattolici devono “degiuridicizzare” il loro impegno. Devono operare non sul piano delle norme, ma dei valori. Non devono più sentirsi impegnati a dare ai valori concretezza normativa […], ma devono agire per dare concretezza valoriale alle norme (è questo, ad es., il grande problema che si pone per le nuove leggi sulle convivenze e sul “fine vita”)» (29).
È lecito chiedersi come dare «concretezza valoriale» a norme da cui deriva il disconoscimento del fondamento naturale del vincolo matrimoniale, ovvero che rendono la vita un bene disponibile. Altrettanto lecito è ragionare sulla singolare idea di scindere le norme e i valori: quasi che, in un contesto di marcata secolarizzazione, la norma positiva non diventi essa stessa fonte di condotte che si ritengono ispirate a «valori». E sulla contestuale incredibile archiviazione di un Magistero sociale cristiano che ha costantemente sottolineato il condizionamento che la norma di legge esercita sul comportamento quotidiano. Sarà opportuno tornare sul punto in modo tematico. Qui interessa soffermarsi su quanto questi modi di pensare siano diffusi nel mondo cattolico italiano. In linea con il professor D’Agostino, fra i movimenti ecclesiali vi è chi reputa che l’impegno del cattolico in politica sia esaurito e/o inutile, essendo oggi il tempo della evangelizzazione e della formazione: come se queste due voci fossero antitetiche a una coerente presenza politica. Come se proprio una formazione che leghi in un continuum fede e cultura non costituisca la premessa indispensabile per una cultura della politica e per l’impegno propriamente politico: senza sovrapposizioni ma pure senza camere-stagne. Non si vuol dire che un movimento la cui specificità sono la catechesi e la missionarietà debba trasformarsi in altro. Si vuol dire che la cura del proprio carisma non può comportare, come è avvenuto per tutti i principali movimenti, il disinteresse per snodi politici importanti della vita nazionale. Né è sufficiente il richiamo a una generica onestà e all’essere altrettanto genericamente «una brava persona»: svolgere una attività politica da cristiani significa aver studiato e assimilato il Magistero sociale cristiano. E poiché quest’ultimo — come si è ricordato — è il compendio di princìpi di riferimento, criteri di giudizio e direttive di azione, significa pure acquisire competenza e professionalità, da agganciare a una solida formazione: doti che non si improvvisano né si ricavano da qualche pur lodevole frequentazione di Messa.
Gli effetti dell’impostazione che ha trovato spazio sulle colonne di La Civiltà Cattolica e di Avvenire sono gravi. Il rifiuto dei cattolici di prendere parte alla vita politica dopo il 1870 avvenne come risposta ai soprusi realizzati con l’unificazione forzata, ma fu una scelta sofferta, accompagnata dalla consapevolezza che non sarebbe stata indolore e che doveva essere compensata — come avvenne, grazie all’esperienza dell’Opera dei Congressi (30) — da una capillare e forte presenza nel corpo sociale italiano. Ben altro carattere avrebbe oggi la decisione di abbandonare il campo della politica da parte dei cattolici, se essa trovasse piena conferma e ampia condivisione. Urge al contrario una elaborazione culturale che affronti quella «fase nuova, nella quale i cattolici rischiano di essere sempre meno rilevanti», per riprendere ancora il card. Ruini. E rispetto alla quale raccoglierne le sfide, interloquire senza aprioristiche demonizzazioni con chi oggi è sulla scena della politica, sapere che le opzioni più importanti sono definite nelle sedi europee e in quelle giurisdizionali, e regolarsi di conseguenza per non trascurare la cura di tali ambiti. In una parola, dare seguito coraggioso e coerente all’invito del presidente emerito dei vescovi italiani a «potenziare la capacità di tradurre la fede in cultura e in azione politica».
Note:
(1) Secondo Paolo Feltrin e Serena Menoncello, 2018: l’annunciata riscoperta del voto di classe, «in direzione ostinata e contraria», in corso di pubblicazione, l’affluenza al voto va valutata invece in termini di elevata partecipazione a fronte di una contrazione della campagna elettorale, dal momento che le urne sono state aperte solo di domenica, a differenza del 2013, e che la propaganda è stata ridotta a causa del venir meno del finanziamento pubblico ai partiti. Al di là della condivisione di taluni passaggi, l’analisi del voto proposta da questo studio, corredata da una gran quantità di dati e di grafici, è di estremo interesse. Emerge, per esempio, che il calo dell’affluenza al voto è minore al Sud, e anzi in talune regioni — Basilicata, Calabria e Campania — nel 2018 vi è stato un pur lieve incremento rispetto al 2013.
(2) Cfr. Dominique Moïsi, Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell’umiliazione e della speranza stanno cambiando il mondo, trad. it., Garzanti, Milano 2009.
(3) Cfr. Samuel Phillips Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, trad. it., Garzanti, Milano 2000.
(4) Andrea Minuz, Lessico televisivo, in Il Foglio quotidiano, Roma 13 e 14-1-2018.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem.
(7) Giuseppe De Rita, Un elettorato incapace di sentimenti condivisi, in Corriere della Sera, Milano 30-1-2018.
(8) Feltrin e Menoncello, op. cit.
(9) Pierluigi Battista, Quella folla adesso è sola, in Corriere della Sera, Milano 8-3-2018.
(10) Walter Veltroni, «La sinistra ha perso il rapporto con il popolo. Stia dove c’è il disagio», intervista a cura di Aldo Cazzullo, ibid., 18-3-2018.
(11) Alberto Gioffreda, #Leopolda5 e i corpi intermedi, nel sito web <http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Leopolda-e-i-corpi-intermedi-Renzi-come-parli-ea3547d3-b282-4431-8311> (Tutti i siti web citati nelle note al testo sono stati consultati il 23-4-2018).
(12) Cfr. 49° rapporto sulla situazione sociale del Paese 2015, a cura di CENSIS, Franco Angeli, Milano 2015.
(13) M5S è passato dal 44,8 per cento delle politiche al 38,5 delle regionali. Il centrodestra è salito dal 27,9 per cento delle politiche al 43,46 delle regionali. Va aggiunto che a questo tetto di consensi il centrodestra è pervenuto in Molise con il consistente contributo di liste civiche: la somma delle percentuali ottenute da FI, Lega e Fratelli d’Italia si ferma al 22,17.
(14) Cfr. 51º rapporto sulla situazione sociale del Paese 2017, a cura di CENSIS, Franco Angeli, Milano 2017.
(15) Feltrin e Menoncello, op. cit.
(16) Paolo Macry, La rivolta del Mezzogiorno che spera nello Tsipras italiano, in Il Mattino, Napoli 6-3-2018.
(17) Piergiorgio Corbetta, «Vincono protesta e speranza ma il voto al Sud può svanire presto», intervista a cura di Alessandra Longo, in la Repubblica, Roma 9-3-2018. Il professor Corbetta è stato ordinario di Sociologia all’Università di Bologna e direttore dell’Istituto Cattaneo. È autore del saggio M5S. Come cambia il partito di Grillo, il Mulino, Bologna 2017.
(18) Ibidem.
(19) Cfr. Giovanni Cantoni, «Fermiamo il partito radicale di massa», intervista a cura di Angelo Cerruti, in Cristianità, anno XXII, n. 225-226, gennaio-febbraio 1994, pp. 10-12.
(20) Feltrin e Menoncello, op. cit.
(21) Ernesto Galli della Loggia, La crisi di identità nella sinistra, in Corriere della Sera, Milano 29-3-2018.
(22) Card. Camillo Ruini, «In un’Italia arrabbiata i cattolici rischiano di diventare irrilevanti», intervista a cura di Massimo Franco, ibid., 8-2-2018.
(23) Cfr. in proposito, fra i tanti, l’editoriale di Eugenio Scalfari, La luce del Quirinale nel buio della politica, in la Repubblica, Roma 1°-4-2018.
(24) La remissione alle Sezioni Unite della Corte è avvenuta con l’ordinanza interlocutoria n. 4382/2018 depositata il 22 febbraio 2018 della prima sezione civile della stessa Corte. La si può leggere nel sito web <http://www.centrostudilivatino.it/le-sezioni-unite-della-cassazione-chiamate-a-decidere-su-maternita-surrogata-trascrizione-nei-registri-dello-stato-civile-e-ordine-pubblico>.
(25) Il testo dell’ordinanza è in <http://www.centrostudilivatino.it/caso-cappato-lordinanza-della-corte-di-assise-di-milano>. Il Centro Studi Livatino ha depositato atto di intervento a sostegno della conformità alla Costituzione della norma impugnata:<http://www.centrostudilivatino.it/caso-cappato-il-centro-studi-livatino-presenta-atto-di-intervento-nel-giudizio-di-legittimita-costituzionale>.
(26) Cfr. <http://www.centrostudilivatino.it/la-lituania-sanzionata-per-aver-multato-la-blasfemia> e, a commento, <http://www.centrostudilivatino.it/il-caso-lituania-e-la-deriva-secolarista-della-corte-edu>.
(27) Sui riflessi negativi del calo demografico sullo sviluppo economico, cfr. da ultimo Banca d’Italia, Il contributo della demografia alla crescita economica; duecento anni di storia italiana, di Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gemellini e Paolo Piselli, in <http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2018-0431/QEF_431_18.pdf>.
(28) Antonio Spadaro S.J. e Marcelo Figueroa, Un sorprendente ecumenismo. Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico, in La Civiltà Cattolica, quaderno 4010, anno 2017, volume III, Roma 15-7-2017, pp. 105-113.
(29) Francesco D’Agostino, È tempo di costruire valori, non norme, in Avvenire. Quotidiano di ispirazione cattolica, Milano 22-3-2018.
(30) Cfr. Marco Invernizzi, I cattolici contro l’unità d’Italia? L’opera dei congressi (1874-1904), Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002.