di Michele Brambilla
Il 28 ottobre Papa Francesco conclude solennemente il Sinodo sui giovani e il discernimento vocazionale con una Messa nella basilica di S. Pietro, la cui omelia è incentrata sulla figura del cieco Bartimeo, protagonista della pagina evangelica assegnata alla XXX domenica del Tempo ordinario (cfr Mc 10,46-52). «Anzitutto guardiamo a Bartimeo: il suo nome significa “figlio di Timeo”. E il testo lo specifica: “il figlio di Timeo, Bartimeo” (Mc 10,46). Ma, mentre il Vangelo lo ribadisce, emerge un paradosso: il padre è assente. Bartimeo giace solo lungo la strada, fuori casa e senza padre: non è amato, ma abbandonato. È cieco e non ha chi lo ascolti; e quando voleva parlare lo facevano tacere».
Il cieco di Gerico diventa così metafora trasparente della gioventù odierna, costretta a vivere nei tempi della cosiddetta “eclisse dei padri”, troppo impegnati ad assomigliare ai propri figli. I giovani oggi sono soli e non parlano mai di se stessi perché non hanno veri confidenti. Ma Gesù, come nel caso di Bartimeo, si ferma e ode il loro sommesso grido di dolore. Non lo colgono, invece, i discepoli e, venendo al giorno d’oggi, molti ecclesiastici: «[…] molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse (cfr v. 48). Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma prestabilito. Preferivano i loro tempi a quelli del Maestro», pertanto «chiediamo anche noi la grazia di un cuore docile all’ascolto. Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie» di discorsi oziosi o “carnevalate” povere di contenuti e sacralità.
Geremia, profeta attorno al quale ruota il discorso dell’Angelus, visse il dramma del predicare la verità in mezzo ad un popolo che inseguiva, esattamente come tanti uomini nostri contemporanei, gli “opinionisti” più disparati, persino in un momento particolarmente drammatico della storia d’Israele com’era l’imminente invasione babilonese. «La prima lettura» della liturgia del giorno, «del profeta Geremia (Ger 31,7-9), […] è una parola di speranza che Dio dà al suo popolo. Una parola di consolazione, fondata sul fatto che Dio è padre per il suo popolo, lo ama e lo cura come un figlio (cfr v. 9)», nonostante il peccato. E’ questo il messaggio di speranza che noi cattolici dobbiamo trasmettere ai nostri ragazzi, «perché la speranza di Dio non è un miraggio, come certe pubblicità dove tutti sono sani e belli, ma è una promessa per la gente reale, con pregi e difetti, potenzialità e fragilità, come tutti noi». Viene infatti da un Messia che non ha esitato ad attraversare l’esistenza umana fino al dramma della croce. Il Mistero pasquale non si ferma, però, solo al Venerdì Santo, poiché la speranza data all’uomo si radica più propriamente nel mattino di Pasqua, quando quello che sembrava il più avvilente degli insuccessi si trasformò in un imprevedibile successo. Così è anche degli sforzi apostolici, spesso nascosti e misconosciuti, di tanti umili discepoli del Signore.
Lunedì, 29 ottobre 2018