Da Tempi del Settembre 2018. Foto da gruppodab.it
Lo stato delle carceri in Italia non è un modello di coerenza. In altre nazioni si giunge al processo da liberi, anche per reati gravi, spesso dopo aver pagato una cauzione e, se condannati, si lascia l’aula d’udienza in vincoli. Da noi accade con frequenza che si pervenga al processo in stato di detenzione cautelare e, se condannati, si esce dal carcere o perché la pena è sospesa o perché operano i benefici dell’ordinamento penitenziario. La popolazione carceraria, in relazione alla popolazione residente, è fra le più basse al mondo; eppure nell’agenda di ogni ministro della Giustizia, e quindi di ogni governo, non manca mai la voce «sovraffollamento degli istituti di pena». L’Italia ha sottoscritto accordi con altri Stati, anche extraeuropei, perché i cittadini di quegli Stati che siano condannati qui vadano a espiare la pena loro inflitta nel paese di provenienza: peccato che ciò poi si realizzi in casi rarissimi, nonostante la significativa presenza di stranieri nelle carceri italiane e nonostante l’Italia abbia addirittura sostenuto le spese per la realizzazione di penitenziari fuori dai propri confini, per esempio in Albania, per incentivare l’applicazione degli accordi. Il personale è più che adeguato al Sud, visto che i concorsi sono affrontati e superati soprattutto da meridionali, ed è scarso al Nord: a tal punto che in talune regioni del Nord esistono spazi disponibili mai utilizzati.
Potrei continuare nell’elenco dei paradossi; mi fermo qui per guardare in prospettiva e, come Colombo col suo uovo, per mettere in fila qualche esigenza, tanto elementare quanto irrinunciabile:
• una parte consistente di detenuti – circa un terzo – lo è in assenza di una condanna definitiva. All’interno di questa sub popolazione vi è chi comunque una condanna l’ha ricevuta. Ma è incontestabile che la custodia cautelare in carcere sia ancora oggi adoperata con larghezza. La quantità di indennizzi per ingiusta detenzione attesta che in troppi casi si continuia a ricorrere a essa senza ragione. Non c’è da cambiare la legge, già modificata mille volte senza apprezzabili risultati: è un dato di cultura che chiama in causa anzitutto la magistratura, è su di esso che bisogna lavorare;
• più d’un terzo dei reclusi sono stranieri, con un elevato tasso di recidiva. Se sono stati conclusi accordi per il trasferimento negli Stati di origine per l’espiazione, di essi va preteso il rispetto col paese contraente: questo compete al governo, e in particolare al Guardasigilli. Si deve poi capire perché, pur se dopo l’espiazione della pena inflitta allo straniero la nostra legge ne prevede l’espulsione, o addirittura la individua quale misura alternativa alla pena, l’espulsione giudiziaria non ha corso quasi mai. È un terreno sul quale un monitoraggio del ministero non guasterebbe, accompagnato da una più intensa interlocuzione con la magistratura. L’insieme delle due opportunità permetterebbe un alleggerimento della popolazione detenuta;
• se, nonostante un uso più cauto della custodia cautelare e un allontanamento effettivo degli stranieri, gli spazi restassero insufficienti, la soluzione non è inventare norme per cancellare reati o per impedirne la persecuzione, come è accaduto con più d’una riforma approvata nella passata legislatura. La soluzione è costruire nuove carceri. È facile deflazionare le presenze con provvedimenti buonisti: si ottiene la pace negli istituti di pena, ma l’incremento della guerra nelle nostre strade;
• va adoperata più fantasia nella individuazione, là dove il reato lo consente, di sanzioni differenti dalla detenzione. Qualcosa è stato fatto, ma il lavoro non deve fermarsi. Chi danneggia edifici o spazi pubblici teme più l’inflizione di un periodo di lavoro sostitutivo di una condanna a pochi giorni o settimane di reclusione che, proprio perché minima, non verrà mai espiata, o addirittura di un proscioglimento perché il fatto viene qualificato di lieve entità;
• se il personale penitenziario di origine meridionale supera quello di origine settentrionale vanno introdotti incentivi per lavorare al Nord. Alla fine costa meno delle giornate perdute per le ragioni più varie, tutte riconducibili alla distanza da casa. Vi è un ultimo nodo da affrontare, e riguarda la funzione della pena. Non è un nodo teorico. La pena ha funzione rieducativa e rispetta la dignità di chi la subisce se mantiene il suo carattere punitivo di una condotta vietata. L’orientamento radicaloide che nega il ruolo sanzionatorio della pena per privilegiare, al più, quello della prevenzione, è all’origine di riforme errate, e più in generale di una scorretta impostazione della questione.
Che ha ricadute sulla cura da dedicare all’universo penitenziario.
Alfredo Mantovano