di Marco Respinti
Martedì 6 novembre il mestiere di cronista mi ha portato alle brumose (per la stagione) acque del Lago Lemano; per la precisione davanti al palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra, Svizzera. Dentro il palazzo, il Consiglio per i diritti umani dell’ONU procedeva alla Revisione universale periodica della Cina, ovvero all’esame quinquennale che giudica se e quanto i Paesi membri rispettino i diritti umani. Quello della Cina è un caso tanto grave quanto ignorato di violazione sistematica e pervicace della dignità fondamentale della persona e della libertà religiosa. Chi crede, in qualunque Dio e in qualunque religione, viene perseguitato brutalmente. La Cina comunista perseguita infatti anche le organizzazioni religiose, in tutto cinque, create dal governo sin dagli anni 1950 per controllare e tenere alla catena protestantesimo, cattolicesimo, islam, buddismo e taoismo, o almeno alcune loro parti, quelle che hanno scelto il compromesso. E perseguita ancora anche i cattolici della Chiesa clandestina, quella che non si è mai piegata al regime pagando la scelta con il martirio, pur dopo l’accordo provvisorio con cui il 22 settembre Roma ha riportato sette vescovi legittimi ma ordinati illecitamente da Pechino nell’alveo della Chiesa universale e quindi unificando, per la prima volta dal 1951, la Chiesa Cattolica che è in Cina. Dopo l’accordo ci si aspettava un qualche allentamento da parte del regime, ma siccome l’opposizione all’accordo viene soprattutto da settori dello stesso regime spaventati di perdere peso, egemonia e potere (un’altra parte del regime vuole invece l’accordo pe questioni di immagine internazionale), la persecuzione non cessa.
Di questo però praticamente nessuno parla. Non si parla della Cina comunista a processo dentro il palazzo così come meno ancora si parla di ciò che nel frattempo è accaduto fuori dal palazzo delle Nazioni Unite. Qui centinaia di persone, in rappresentanza dei popoli e delle religioni perseguitate dal regime cinese, si sono date convegno per una manifestazione pacifica intenzionata a fare udire alta e chiara la propria voce. Non se ne parla perché il comunismo non va più di moda. Lo abbiamo archiviato velocemente come un residuato del Novecento e così abbiamo permesso che la facesse franca: il comunismo del passato, con i suoi milioni e milioni di morti per cui nessuno ha né pagato né chiesto scusa, e il nuovo comunismo di oggi, che continua a mietere impunemente vittime ogni giorno giacché il mondo, come fanno certuni con la mafia, dice e ripete “a noi non ci risulta”.
Il comunismo è infatti la coscienza sporca del nostro mondo: lo è dei comunisti, colpevoli di nefandezze, e lo è dei non comunisti, per i quali è acqua passata. Si può chiamare la Cina neo-post-comunista: un regime, cioè, nuovamente comunista dopo il fallimento storico del comunismo novecentesco, ovvero abile a sopravvivere a sé stesso riciclandosi quel tot di grand commis, baroni e faccendieri che possono permettere al Paese di sopravvivere al crollo teoretico e pratico del marxismo-leninismo facendosi finanziare l’operazione dall’Occidente babbione. Una versione, cioè, del noto detto di Lenin secondo il quale i bolscevichi avrebbero venduto agli occidentali (facendosela pagare bene) la corda con cui un giorno li avrebbero impiccati.
La Cina non fa insomma notizia, ma trascorrere qualche ora fra gli uiguri musulmani, i buddisti tibetani, gli abitanti della Mongolia Inferiore, gli esuli a Taiwan e gli attivisti di Hong Kong toglie le fette di salame dagli occhi. I volti di decine e decine di incarcerati inghiottiti dalle prigioni della morte e dai campi di “rieducazione ideologica” mettono i brividi. Mai più mi sarei immaginato, cattolico tetragono senza mezze misure, di prendere un giorno la parola dietro una bandiera uigura con la stella e la mezzaluna musulmane provando commozione nel salutare vittime innocenti travolte da un cocktail micidiale di odio ideologico e indifferenza.
Alzo poi lo sguardo e mi accorgo di quanto la realtà superi di gran lunga la fantasia in bellezza e sapidità. Vedo infatti un “gran pavese” portato con fatica da un corpulento uiguro che si è incatenato a un drappo rosso cinese e vi vedo garrire le bandiere dei popoli oppressi dal comunismo cinese insieme alla bandiera a stelle e a strisce. La sua gente, nella regione dello Xinjiang, langue nei campi di “rieducazione”: sono quasi un milione gl’internati a causa della fede che professano. Un musulmano che issa la bandiera degli Stati Uniti d’America come segno di libertà e invocazione di aiuto. Improvvisamente mi avvampa un’ondata di ricordi. Rammento gli Stati Uniti che non conoscevo per ignoranza, che poi ho imparato a conoscere e che ho persino imparato ad amare; quelli fatti di idealisti che credono davvero nella libertà, nella bontà dell’uomo, nell’altruismo, nella patria (la loro e quella degli altri), in Dio. Gli Stati Uniti paladini, non gendarmi; cavalieri, non predoni; guardiani, non secondini. Gli Stati Uniti della borraccia ai bimbi, del cioccolato agli sciuscià, delle strette di mano forte e calorose. Gli Stati Uniti brava gente e in un secondo mi sono voluto dimenticare delle porcherie di cui sono buoni anch’essi, dei loro errori, delle loro macchie, dei loro difetti. Non perché non esistano, ma perché uno deve sempre alzare lo sguardo più in alto. Me lo ha ricordato quell’uiguro musulmano che non parla nemmeno inglese il perché ho imparato ad amare gli Stati Uniti.
Uno dei perseguitati a causa della fede che sono con me nella gelida piazza ginevrina pensa a quel che sta accadendo dentro il Palais des Nations e mi dice: «Speriamo che qualche Paese ci aiuti». Mi chiede di non rivelare il suo nome; ha ancora la mamma in Cina e ha paura. Con l’uiguro musulmano di prima ancora negli occhi rispondo, sicuro di essere frainteso: «Gli Stati Uniti stanno muovendo qualche passo…». Sto pensando al vicepresidente Mike Pence, al segretario di Stato Mike Pompeo, al senatore Marco Rubio, al deputato Christopher Smith (con cui ho una foto nel Campidoglio di Washington) e all’ambasciatore per la libertà religiosa Sam Brownback (a cui una volta ho stretto la mano parlandogli di Alfredo Mantovano, allora sottosegretario agl’Interni in Italia). Ho in mente loro e il loro grande impegno per i credenti perseguitati e per la causa cinese, ma sono certo che sarò frainteso. Invece il mio interlocutore, che la persecuzione sa cos’è sulla propria pelle, non io che ho l’epa dell’occidentale impigritosi solo sui libri, tira un sospiro e replica: «Sì. Trump la sta punendo la Cina. La sta punendo con l’economia…». Il mio interlocutore non sa nulla di tariffe, dazi e pil. Ha solo capito che laggiù c’è un signore diverso dagli altri che sta rendendo la vita difficile alla Cina che perseguita la sua famiglia. Il potere dei simboli che rimandano alla realtà, il perché, pur acciaccatissimo, siamo stati e siamo il “mondo libero”. Quando uno dice Dio benedica gli Stati Uniti d’America non è che butta lì le parole perché non ha altro da fare.
Per la cronaca, dentro il palazzo dell’ONU si è deciso che una troika formata da rappresentanti di Ungheria, Kenya e Arabia Saudita preparerà un rapporto contenente raccomandazioni per la Cina entro il 9 novembre a fronte dei documenti presentati dalle ONG sulle persecuzioni. Un passettino; timido timido, ma un passettino.
Marco Respinti