« E subito costrinse i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, a Betsàida, finché non avesse congedato la folla. Quando li ebbe congedati, andò sul monte a pregare. Venuta la sera, la barca era in mezzo al mare ed egli, da solo, a terra. Vedendoli però affaticati nel remare, perché avevano il vento contrario, sul finire della notte egli andò verso di loro, camminando sul mare, e voleva oltrepassarli. Essi, vedendolo camminare sul mare, pensarono: “È un fantasma!”, e si misero a gridare, perché tutti lo avevano visto e ne erano rimasti sconvolti. Ma egli subito parlò loro e disse: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”. E salì sulla barca con loro e il vento cessò. E dentro di sé erano fortemente meravigliati, perché non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito » (Mc 6,45-52).
Gli ebrei, a differenza dei loro cugini fenici, non erano un popolo “acquatico”. Non che non apprezzassero l’acqua, ma quasi si limitavano a coglierne l’aspetto positivo come sorgente di vita e di vegetazione anche in mezzo al deserto, mentre nel mare vedevano solo l’aspetto terribile delle burrasche e dei “mostri” – i grandi pesci – che lo abitavano. Il mare faceva loro paura.
Anche il “mare” (in ebraico esiste una sola parola per lago e mare) di Tiberiade (o Gennèsaret), quando era un po’ agitato, faceva loro paura. Così il mondo rinnovato alla fine dei tempi era concepito senza questa sorgente di pericolo e di spavento: « […] vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più » (Ap 21,1). In tutta la Bibbia è disseminato questo aspetto negativo e terribile delle acque.
Esse sono potenti, ma l’amore è più potente: « Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo » (Ct 8,7). « Salvami, o Dio: l’acqua mi giunge alla gola.
Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno; sono caduto in acque profonde e la corrente mi travolge » (Sal 69,2-3): le acque che non ti danno sostegno e ti travolgono rendono bene l’esperienza dell’uomo che si sente soffocato dall’angoscia, che non trova più nella vita nessun sostegno solido, che è avvolto dalle difficoltà ed immerso nella paura.
Comprendiamo allora lo spavento dei discepoli che vedono Gesù che cammina sulle acque del lago. Ciò non ci autorizza affatto a diluire l’evento miracoloso nel genere letterario di un racconto simbolico. Un racconto di tal fatta non avrebbe avuto nessuna forza dirompente e non avrebbe convinto nessuno. Far così sarebbe dimenticare che Dio racconta anche – se non soprattutto – con il linguaggio dei fatti.
Pietro – nel racconto parallelo di Matteo (14,28-31) – domina la forza paurosa ed avvolgente delle acque guardando fisso a Gesù e perde subito questo potere quando distrae lo sguardo da lui. Anche noi dobbiamo fare altrettanto: guardare a lui, come un soldato nei pericoli della battaglia guarda al volto del capitano che gli trasmette serenità e sicurezza; guardare alla sua vita, come alla vita vera, bella ed efficace, lasciando che ci conquisti e diventi la nostra (cfr. 2Cor 3,18; Col 3,3-4).