di Michele Brambilla
Papa Francesco comincia a spiegare cosa sia la vita in grazia di Dio a partire dalla dimensione fondamentale della preghiera. L’udienza del 5 dicembre passa in rassegna le prime parole del Pater noster, soffermandosi sul rapporto speciale che intercorre tra Gesù e il Padre. «I Vangeli», dice il Pontefice, «ci hanno consegnato dei ritratti molto vivi di Gesù come uomo di preghiera: Gesù pregava. Nonostante l’urgenza della sua missione e l’impellenza di tanta gente che lo reclama, Gesù sente il bisogno di appartarsi nella solitudine e di pregare».
Cristo era letteralmente “assalito” ogni ora del giorno e della notte. «Calato il sole», spiega Francesco, «moltitudini di ammalati giungono alla porta dove Gesù dimora: il Messia predica e guarisce. Si realizzano le antiche profezie e le attese di tanta gente che soffre: Gesù è il Dio vicino, il Dio che ci libera. Ma quella folla è ancora piccola se paragonata a tante altre folle che si raccoglieranno attorno al profeta di Nazareth; in certi momenti si tratta di assemblee oceaniche, e Gesù è al centro di tutto, l’atteso dalle genti, l’esito della speranza di Israele». Così capita spesso anche a molti parroci, oberati di impegni e di appuntamenti, assillati persino mentre cercano di dire il breviario.
In situazioni come queste è assolutamente necessario non lasciarsi assorbire dalle pretese altrui, altrimenti, assicura il Santo Padre, c’è il rischio di diventare schiavo della gente anziché suo autentico servitore. Gesù i suoi spazi se li ritagliava e sapeva difenderli anche con una certa caparbietà. «Nell’ultima parte della notte», illustra il Papa, «quando ormai l’alba si annuncia, i discepoli lo cercano ancora, ma non riescono a trovarlo. Dov’è? Finché Pietro finalmente lo rintraccia in un luogo isolato, completamente assorto in preghiera. E gli dice: “Tutti ti cercano!” (Mc 1,37). L’esclamazione sembra essere la clausola apposta ad un successo plebiscitario, la prova della buona riuscita di una missione», invece il successo sta nel far comprendere all’altro che l’importante non è cercare, ma sapersi anzitutto cercato da Dio. «Ma Gesù dice ai suoi che deve andare altrove; che non è la gente a cercare Lui, ma è anzitutto Lui a cercare gli altri» quando essi non Lo vedono, ma è Lui a vedere il Padre.
Non c’è quindi azione senza contemplazione. Sono due poli indisgiungibili: la preghiera devota senza apostolato è fideismo, l’attivismo assolutizzato pelagianesimo. Non c’è gesto di Gesù che non abbia una sorgente spirituale: «In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto. Lo sarà per esempio soprattutto nella notte del Getsemani. L’ultimo tratto del cammino di Gesù (in assoluto il più difficile tra quelli che fino ad allora ha compiuto) sembra trovare il suo senso nel continuo ascolto che Gesù rende al Padre». La tradizione ignaziana chiama questo atteggiamento “contemplazione in azione”.
All’uomo è chiesto di conservare uno sguardo soprannaturale sulle cose anche quando la sua agenda sembra esplodere. Lo si impara unicamente alla scuola di Gesù, come ricorda il Pontefice citando l’evangelista Luca: «loro vedevano Gesù pregare e avevano voglia di imparare a pregare: “Signore, insegnaci a pregare” (cfr Lc 11,1). E Gesù non si rifiuta, non è geloso della sua intimità con il Padre, ma è venuto proprio per introdurci in questa relazione con il Padre. E così diventa maestro di preghiera dei suoi discepoli, come sicuramente vuole esserlo per tutti noi. Anche noi dovremmo dire: “Signore, insegnami a pregare. Insegnami”».