di Valter Maccantelli
In occasione dell’apertura ufficiale a Marrakech, in Marocco, della Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite, convocata per approvare il Patto Mondiale per una Migrazione Sicura, Ordinata e Regolare – cioè il cosiddetto “Global Compact” – in Italia si sono riattizzate le polemiche circa la decisione del governo di non sottoscrivere, al pari di numerosi altri Stati, quel documento. Molto sul tema è già stato detto in occasione del dibattito sull’annuncio di tale decisione da parte del ministro degli Interni Matteo Salvini a fine novembre. Visto il ritorno di fiamma polemica di questi giorni, alla quale non sono estranei anche esponenti del mondo cattolico, vale la pena di ricordare perché il governo italiano abbia fatto bene a negare la propria sottoscrizione.
La lettura delle 39 cartelle di cui si compone il documento, scritto in “dialetto onusiano” stretto, lascia in chi ci si avventura una sensazione di assoluta vacuità, sia nei temi sia nei toni. Pur accampando, nel preambolo, la pretesa di essere una svolta innovativa ed epocale nella gestione dei fenomeni migratori, cita, nello stesso preambolo, almeno 17 altri documenti, dichiarazioni e trattati già in essere in cui gli stessi temi sono stati descritti o normati. Afferma che non è prevista alcuna volontà di interferire nella legislazione degli Stati sovrani, ma, contemporaneamente, si pone lo scopo di fornire un corredo giuridico allo status di migrante che a oggi – a differenza di quello di rifugiato – ne sarebbe sprovvisto.
Anche facendo agli estensori il massimo credito possibile di buona fede non si può non sorridere amaramente di fronte all’enunciazione degli obiettivi generali contenuti nel testo. Un tempo andava di moda lo stereotipo dell’aspirante reginetta di bellezza che alla “domanda seria” su quello che avrebbe voluto fare da grande rispondeva tra la derisione generale degli intellettuali sinistroidi impegnati: «Portare la pace ed eliminare la fame nel mondo». Ecco, quella è una straordinaria affermazione di realismo, se paragonata al linguaggio del “Global Compact”, elaborato in infinite conferenze e riunioni con convenuti da tutto il mondo. La prima ragione per cui non dovrebbe essere firmato risiede, quindi, nella sua evidente, ma, come di dirà, anche pericolosa inutilità formale.
La seconda ragione, che è anche stata la più declamata, va ricercata in alcuni passaggi nei quali si porrebbero le basi per limitare fortemente la sovranità degli Stati, impedendo loro ‒ mediante una strana forma di esecrazione etica preventiva ‒ di legiferare sul diritto alla migrazione e all’azione di chi la facilita. Non è un caso che il primo dei 23 obiettivi elencati nel documento riguardi la “centralizzazione” della raccolta, della elaborazione e della diffusione dei dati sulle migrazioni allo scopo dichiarato di instaurare politiche di comunicazione destinate a smentire l’attuale percezione generale negativa delle migrazioni, evidenziandone invece il valore utile e progressivo (cfr. paragrafo 17). Non manca neppure (cfr. paragrafo 29, c) l’intenzione di sottoporre a revisione le legislazioni nazionali vigenti sul controllo delle frontiere per accertare la presenza di eventuali norme discriminatorie. I paragrafi 25 e 26, con il lodevole obiettivo di combattere il traffico di esseri umani, restringono il criterio per definire l’illiceità di tale comportamento al solo beneficio economico. Resterebbero così impuniti gli atti di violazione a scopo non economico delle leggi nazionali in materia di sicurezza dei cittadini o dei provvedimenti di emergenza delle autorità, come la violazione del provvedimento di chiusura dei porti, da parte di operatori di soccorso privati che agiscono senza fini di lucro (come è il caso di alcune ‒ non tutte ‒ ONG). Nel testo sono decine le affermazioni che, mascherate in un mare di buone intenzioni, finirebbero con il sottrarre a qualunque governo interessato dal fenomeno migratorio lo spazio politico per operare con la fermezza richiesta in situazioni ambigue.
Il documento tollera però anche un terzo livello di lettura: quello “dottrinale”. Variamente sparsi nell’enunciato si trovano i fondamenti teorici di un ribaltamento di prospettiva antropologica, giuridica e politica. Sul piano antropologico si vorrebbe fondare la teoria di una atavica tendenza migratoria dell’essere umano, che sarebbe dimostrata dalla preesistenza del modello nomade di organizzazione della società rispetto a quello stanziale: la creazione di un Homo migrans al cui modello si dovrebbero educare le nuove generazioni globalizzate come già codificato nell’apposito manuale per la formazione degli operatori scolastici del nuovo millennio su cui è importante riferirsi al testo curato da Elio Damiano, professore ordinario di Didattica generale nell’Università di Parma, e intitolato Homo migrans. Discipline e concetti per un curricolo di educazione interculturale a prova di scuola (Franco Angeli, Milano 2002).
Sul piano giuridico si vorrebbe dotare tale figura, che si sostituirebbe così a quella di persona, di un set di diritti (o, meglio, di “nuovi diritti”) ulteriori rispetto a quelli umani e derivanti da questa sua presunta specificità migratoria. Nel campo politico l’azione è evidentemente volta a battere in breccia la fastidiosa ritrosia dei popoli ad aderire a un modello globalizzato e apolide di società che si esprime nel sostegno elettorale ai governi cosiddetti “sovranisti”. La natura ideologica del progetto è ulteriormente confermata dal fatto che, per rimanere in Europa, il sostegno più entusiasta al documento è arrivato dai governi anti-sovranisti per antonomasia di Francia, Spagna e Germania, che nei fatti sono i primi trasgressori dei princìpi in esso enunciati.
In ultima analisi si tratta di una laicissima “lettera enciclica”, in diametrale opposizione all’enciclica Caritas in veritate, promulgata da Papa Benedetto XVI nel 2009, destinata a fondare una morale ‒ di cui evidentemente neppure il mondo coriandolarizzato di oggi può fare a meno ‒ che legittimi la distruzione delle poche tracce di identità sopravvissute al primo passaggio della globalizzazione.