Lorenzo Cantoni, Cristianità n. 405 (2020)
Papa Francesco ha firmato la sua terza lettera enciclica, Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, «ad Assisi, presso la tomba di San Francesco, il 3 ottobre, vigilia della Festa del Poverello, dell’anno 2020» (1).
Si tratta di un testo ampio, che merita un accostamento avveduto, paziente e fedele. In questa introduzione proporrò anzitutto una chiave di lettura a partire da san Francesco d’Assisi (1181/1182-1226), a cui il testo è così profondamente legato nel titolo, nella genesi e nella pubblicazione. Offrirò poi una mappa dell’enciclica, evidenziando alcuni elementi fondamentali per considerarla, come essa stessa si presenta, un’«Enciclica sociale» (n. 6).
Una chiave di lettura francescana
Il titolo stesso è ripreso dalle Ammonizioni di san Francesco. Il richiamo a quel brano, e non ad altri fra i tanti della Scrittura o della tradizione cristiana (e non), sembra indicare una prima chiave di lettura dell’enciclica.
Si tratta del capitolo VI, dedicato all’Imitazione del Signore: «Guardiamo, fratelli tutti, il buon pastore che per salvare le sue pecore [cfr. Gv. 10, 11; Eb. 12, 2] sostenne la passione della croce.
«Le pecore del Signore lo seguirono nella tribolazione e nella persecuzione [cfr. Gv. 10, 4] e nell’ignominia, nella fame [cfr. Rm. 8, 35] e nella sete, nell’infermità e nella tentazione e in altre simili cose e ne ricevettero dal Signore la vita eterna. Perciò è grande vergogna per noi servi del Signore il fatto che i santi operarono con i fatti e noi raccontando e predicando le cose che essi fecero ne vogliamo ricevere onore e gloria» (2).
Si tratta, com’è chiaro, di un contesto drammatico, di persecuzione, in cui siamo chiamati a seguire il buon pastore vivendo «come pecore in mezzo ai lupi» (Mt. 10, 16).
Nelle righe immediatamente seguenti Papa Francesco cita anche il cap. XXV delle Ammonizioni, dedicato a La vera dilezione: «Beato quel servo che saprà amare il suo fratello malato, che non può compensarlo, tanto quanto il sano che può compensarlo.
«Beato il servo che saprà tanto amare e temere il suo fratello quando è lontano come se fosse presso di sé, e non dirà dietro le spalle niente che con carità non possa dire in faccia a lui» (3).
Se il tema del farsi prossimo a chi è sofferente e lontano è estesamente ripreso nel terzo capitolo dell’enciclica — Un estraneo sulla strada — quello del parlare con carità, «in faccia», deve ora occuparci.
Due modi di convivenza
Papa Francesco richiama un episodio della vita di san Francesco, in cui il serafico padre fece visita al sultano Malik-al-Kamil (1179-1238) in Egitto, e cita un brano del cap. 16 della Regola non bollata: «tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio» (n. 3).
Leggere il testo più estesamente ci aiuterà a comprendere meglio la presa di posizione del Pontefice rispetto a quanto san Francesco propone come un’alternativa. Il capitolo, intitolato Di coloro che vanno tra i Saraceni e altri infedeli, inizia così: «Dice il Signore: Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe [cfr. Mt. 10, 16].
«Perciò quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare fra i Saraceni e altri infedeli, vadano con il permesso del loro ministro e servo.
«Il ministro poi dia loro il permesso e non li ostacoli se vedrà che essi sono idonei ad essere mandati; infatti dovrà rendere ragione al Signore, se in queste come in altre cose avrà proceduto senza discrezione. I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono ordinare i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. [1] Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio [cfr. 1Pt. 2, 13] e confessino di essere cristiani.
«[2] L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non rinascerà per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio [cfr. Gv. 3, 5]» (4).
Papa Francesco sembra dunque raccomandare, in questa enciclica, la prima modalità indicata dal santo di Assisi. Si tratta di: (a) presentarsi a chi non crede, agli «infedeli», (b) senza far liti o dispute, (c) rimanendo soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio, (d) confessando di essere cristiani.
Il riferimento nel testo al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, con cui Papa Francesco ha firmato un Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune (5), appare perfettamente in linea con la scelta del primo modo indicato da san Francesco.
«Soldan, soldan!»
La visita di san Francesco al Sultano apparteneva a quanto pare alla seconda modalità proposta nella Regola. Egli, infatti, voleva «andare a predicare al Sultano» (6), e per tre volte «[…] intraprese il cammino verso i paesi degli infedeli […]. Finalmente la terza volta, dopo aver provato molti oltraggi, catene e percosse e fatiche innumerevoli, con la guida di Dio venne condotto al cospetto del Soldano di Babilonia: là predicò il vangelo di Cristo [cfr. At. 5, 42], con una manifestazione così efficace di spirito e di potenza[cfr. 1Cor. 2, 4] che lo stesso Soldano ne fu ammirato e, diventato mansueto per divina disposizione, lo ascoltò con benevolenza» (7).
Il racconto che troviamo nella Cronaca di Giordano da Giano [1195 ca.-dopo 1262] aggiunge un particolare che può aiutarci a capire meglio la posizione proposta dall’enciclica. «Il beato padre prese a riflettere che se aveva mandato i suoi figli al martirio e ai disagi, non doveva lui dare l’impressione di cercare la propria tranquillità mentre gli altri si affaticavano per Cristo. E poiché era uomo di grande coraggio e non voleva che alcuno lo superasse sulla via di Cristo, ma piuttosto precederli tutti, avendo mandati i figli verso pericoli solo eventuali e in mezzo ai fedeli [come raccontato nel testo precedente], infervorato dall’amore per la passione di Cristo, in quel medesimo anno in cui mandò gli altri frati, e cioè nell’anno tredicesimo della conversione, affrontò i pericoli inevitabili del mare per giungere tra gli infedeli e si recò dal Sultano. Ma prima di giungere da lui, subì molte ingiurie e offese, e non conoscendo la loro lingua, gridava tra le percosse: “Soldan, soldan!”. E così fu condotto da lui e fu onorevolmente ricevuto e curato molto umanamente nella sua malattia. Ma poiché presso di loro non poteva portare frutto, si dispose a partire; e, per ordine del Sultano, fu accompagnato con scorta armata fino all’esercito dei cristiani, che allora assediavano Damiata» (8). In un contesto d’incomprensione e di persecuzione, san Francesco usa l’unica parola che condivide con i suoi interlocutori/persecutori — Soldan, soldan! — e Papa Francesco propone un testo in cui sottolinea gli elementi che sembrano poter trovare più facile comprensione agli orecchi di chi non crede, e permettere di accostarlo e di essere ascoltato. Si tratta di una possibile applicazione dell’ordine di Gesù, che segue immediatamente la missione in mezzo ai lupi: «siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt. 10, 16).
Come dialogare con persone differenti
L’anno precedente la morte di san Francesco nasceva un altro gigante del Medioevo cristiano: Tommaso d’Aquino (1225-1274).
Nella sua Summa contra gentiles leggiamo: «È però difficile confutare tutti e singoli gli errori, per due motivi. […] Secondo, perché alcuni di essi [i gentili, che compiono tali errori], quali i Maomettani e i pagani, non accettano come noi l’autorità della Scrittura, mediante la quale è possibile invece disputare con gli Ebrei, ricorrendo all’Antico Testamento, oppure con gli eretici ricorrendo al Nuovo Testamento. Quelli invece non accettano né l’uno né l’altro. Perciò è necessario ricorrere alla ragione naturale, cui tutti sono costretti a piegarsi. Questa però nelle cose di Dio non è sufficiente» (9).
Mentre la prima enciclica di Papa Francesco è stata rivolta «ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate, e a tutti i fedeli laici» (10), le successive due, congiunte dall’esplicito riferimento a san Francesco, sono state ispirate, come lui stesso indica nel testo (n. 5), rispettivamente dal Patriarca ortodosso Bartolomeo e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb. Un itinerario che riprende in modo pressoché perfetto quanto suggerito dal testo di san Tommaso d’Aquino (11). L’indicazione esplicita dei destinatari è inoltre omessa nella Laudato si’ così come nella Fratelli tutti a sottolineare l’intenzione comunicativa del Papa, che viene in tal modo esplicitata, in linea con la scelta evidenziata più sopra: «Pur avendola scritta [questa enciclica] a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n. 6).
Se le citazioni di testi francescani sono concentrate nelle prime tre note dell’enciclica, orientandone la lettura, altri elementi supportano l’accostamento interpretativo qui suggerito.
La nota quattro si riferisce a un autore francescano, Eloi Leclerc (1921-2016), che sottolinea l’importanza di avvicinarsi alle altre persone «nel loro stesso movimento» (n. 4), mentre il testo si conclude con tre riferimenti al beato Charles de Foucauld (1858-1916), che ha vissuto in Algeria, in un contesto di religione musulmana, incarnando la seconda modalità di convivenza indicata da san Francesco.
«Fatti della stessa carne umana» (n. 8)
L’enciclica fa poi riferimento al Cantico di Frate sole, di san Francesco, che ha dato il titolo alla precedente enciclica di Papa Francesco, Laudato si’ (12). Egli, scrive il Papa, «[…] si sentiva fratello del sole, del mare e del vento, sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi» (n. 2). Nel Cantico delle creature o di Frate sole san Francesco, una volta presentato il mondo celeste e quello terrestre, con i suoi quattro elementi — aria, acqua, fuoco e terra — parla dell’uomo: «Laudato si’, mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore / et sostengono infermitate et tribulatione. // Beati quelli ke ’l sosterranno in pace, / ka da Te, Altissimo, sirano incoronati. // Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale, // da la quale nullu homo vivente pò skappare: / guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; / beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, / ka la morte secunda no ’l farrà male». Lo fa in riferimento alla malattia, alla sofferenza e alla morte, legate alla nostra corporeità ferita, così come alla capacità di sopportare nella pace e alla libertà di aderire o meno alla volontà divina.
Le dimensioni della «carne» (13), delle componenti corporee e affettive della persona umana, trovano in questa enciclica una sottolineatura particolare: non si tratta solo di argomentare facendo appello alla ragione naturale, ma di rivolgersi anche agli altri elementi della comune natura umana: le dimensioni del bello e del buono si accompagnano qui a quella del vero. La forza della tenerezza si accompagna a quella degli argomenti (14).
Questo aspetto è peraltro presente anche nel testo di san Tommaso che ho citato sopra. Ecco infatti il brano che immediatamente lo precede: «ci proponiamo di esporre […] la verità professata dalla fede cattolica, respingendo gli errori contrari; poiché, per dirla con S. Ilario, “io penso che il compito principale della mia vita sia quello di esprimere Dio in ogni parola e in ogni mio sentimento” [De Trinit., I, c. 37]» (15).
Una volta orientata la lettura secondo l’itinerario francescano proposto, possiamo ora delineare brevemente la struttura dell’enciclica.
Una mappa
L’enciclica si presenta come una raccolta ordinata di testi di papa Francesco, una sorta di Sillabo sulla fraternità e l’amicizia sociale (16), ed è suddivisa in otto capitoli.
Le ombre di un mondo chiuso
Nel primo, Le ombre di un mondo chiuso (nn. 9-55), il Pontefice propone «[…] di porre attenzione ad alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale» (n. 9), senza peraltro alcuna «[…] pretesa di compiere un’analisi esaustiva né di prendere in considerazione tutti gli aspetti della realtà che viviamo» (ibidem).
Sottolinea, in particolare, la perdita di coscienza storica, che può portare a ripetere errori del passato, l’incapacità di proporre un progetto politico che tenga conto di tutti, la mancanza di una rotta comune e condivisa quanto al progresso e alla globalizzazione. La recente crisi pandemica è occasione per suscitare «[…] la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti» (n. 32). Il Papa tratta poi dei fenomeni migratori, dell’illusione di comunicare — in un contesto in cui incontriamo spesso messaggi aggressivi e informazione senza saggezza —, della perdita di autostima da parte di comunità più povere. «Malgrado queste dense ombre, che non vanno ignorate — scrive il Pontefice —, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene» (n. 54).
Un estraneo sulla strada
Il secondo capitolo (nn. 56-86) è dedicato a una riflessione molto estesa sulla parabola del Buon Samaritano. Lo fa, secondo la scelta comunicativa che abbiamo evidenziato all’inizio, introducendone il testo con queste parole: «Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare» (n. 56).
Il testo viene inserito nel contesto della tradizione ebraica e cristiana, riflettendo anzitutto sulla persona abbandonata. La parabola «[…] ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano» (n. 66). Si tratta di una storia che si ripete, in cui siamo chiamati a prender posizione fra i diversi personaggi. Dobbiamo, ci incoraggia il Papa, «[…] cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. […] Però non facciamolo da soli, individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un “noi” che sia più forte della somma di piccole individualità» (n. 78). Come il giudeo aggredito e il samaritano che lo ha soccorso erano di due popolazioni diverse, così il Papa invita a considerare «Il prossimo senza frontiere» e ad ascoltare «L’appello del forestiero».
Pensare e generare un mondo aperto
Il terzo capitolo (nn. 87-127) sottolinea come, per essere autenticamente sé stessa, la persona umana deve essere capace di andare «Al di là»: «Dall’intimo di ogni cuore, l’amore crea legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da sé stessa verso l’altro» (n. 88) (17). Si tratta di essere aperti agli altri, senza peraltro cadere in un «[…] universalismo autoritario e astratto, dettato o pianificato da alcuni e presentato come un presunto ideale allo scopo di omogeneizzare, dominare e depredare» (n. 100).
In questo capitolo, Papa Francesco propone di superare un approccio meramente contrattuale alla società, di «Andare oltre un mondo di soci», di persone cioè associate per determinati interessi. Le tre parole rese famose dalla Rivoluzione francese, che sono state spesso usate nella riflessione politica della modernità, sono qui mostrate nella loro dimensione astratta, individualistica, incapace di fondare la relazione sociale.
Il sotto-paragrafo corrispondente — Libertà, uguaglianza e fraternità — merita di essere ripreso per intero, perché propone una più autentica ri-fondazione della relazione sociale, finalmente liberata dal virus dell’individualismo. «La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non bastano perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore.
«Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità. Coloro che sono capaci solamente di essere soci creano mondi chiusi. Che senso può avere in questo schema la persona che non appartiene alla cerchia dei soci e arriva sognando una vita migliore per sé e per la sua famiglia?
«L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune» (nn. 103-105).
Si tratta allora di promuovere le persone, il loro bene morale, e in particolare il valore della solidarietà, come «virtù morale e atteggiamento sociale» (n. 114), che vanno promossi anzitutto dalle famiglie: «Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli» (ibidem).
Si tratta, inoltre, di ricuperare la funzione sociale della proprietà, la destinazione universale dei beni creati, entro cui s’inscrive il diritto alla proprietà privata, secondo una ininterrotta tradizione della Chiesa. Ciò va pensato rispetto a tutto il creato e a tutti i popoli.
Un cuore aperto al mondo intero
Il quarto capitolo (nn. 128-153), muovendo dall’assunzione di una prospettiva che includa tutto il creato, richiede di guardare alle dinamiche migratorie secondo modalità più ricche e aperte, che ne considerino la complessità e insieme le opportunità. Si tratta inoltre di mettere in equilibrio locale e universale, sottolineando che bisogna «[…] guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità casalinga. Quando la casa non è più famiglia, ma è recinto, cella, il globale ci riscatta perché è come la causa finale che ci attira verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna assumere cordialmente la dimensione locale, perché possiede qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali. Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa» (n. 142). Ancora: «Per stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé» (n. 149).
La migliore politica
Nel quinto capitolo (nn. 154-197), Papa Francesco propone di andare oltre populismi e liberalismi: «Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture» (n. 155). In questo capitolo vengono analizzati i termini Popolare e populista, così come i Valori e limiti delle visioni liberali.In particolare, scrive Papa Francesco, «la categoria di popolo, a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile» (n. 163).
È opportuno che vi siano forme di potere internazionale, così come forme di organizzazione infra-nazionali: tutte sono chiamate a promuovere il vero bene comune in forma di sussidiarietà: «Grazie a Dio tante aggregazioni e organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in situazioni complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani fondamentali e a situazioni molto critiche di alcuni gruppi. Così acquista un’espressione concreta il principio di sussidiarietà, che garantisce la partecipazione e l’azione delle comunità e organizzazioni di livello minore, le quali integrano in modo complementare l’azione dello Stato» (n. 175).
La politica deve, in ultima istanza, riscoprirsi come una forma di carità: «Riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità» (n. 180). A questo proposito, Papa Francesco riprende una famosa espressione di Papa Pio XI (1922-1939): «Perché un individuo può aiutare una persona bisognosa, ma quando si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel “campo della più vasta carità, della carità politica”» (n. 175) (18).
Dialogo e amicizia sociale
Il sesto capitolo (nn. 198-224) sottolinea l’importanza del dialogo sociale, e di una cultura che lo favorisca. Si tratta di «Costruire insieme», comprendendo che «il relativismo non è la soluzione. Sotto il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento» (n. 206).
«[…] che ogni essere umano — sottolinea Papa Francesco — possiede una dignità inalienabile è una verità corrispondente alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale. Perciò l’essere umano possiede la medesima dignità inviolabile in qualunque epoca storica e nessuno può sentirsi autorizzato dalle circostanze a negare questa convinzione o a non agire di conseguenza. L’intelligenza può dunque scrutare nella realtà delle cose, attraverso la riflessione, l’esperienza e il dialogo, per riconoscere in tale realtà che la trascende la base di certe esigenze morali universali.
«Agli agnostici, questo fondamento potrà sembrare sufficiente per conferire una salda e stabile validità universale ai principi etici basilari e non negoziabili, così da poter impedire nuove catastrofi. Per i credenti, la natura umana, fonte di principi etici, è stata creata da Dio, il quale, in ultima istanza, conferisce un fondamento solido a tali principi. Ciò non stabilisce un fissismo etico né apre la strada all’imposizione di alcun sistema morale, dal momento che i principi morali fondamentali e universalmente validi possono dar luogo a diverse normative pratiche. Perciò rimane sempre uno spazio per il dialogo» (nn. 213-214).
Perché il dialogo possa essere autentico e aperto alla verità è fondamentale promuovere una nuova cultura, che valorizzi l’incontro e la capacità di riconoscere l’altro nella sua specificità. Si tratta anche, e in primo luogo, di superare l’individualismo, pure recuperando la «gentilezza»: «San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri» (n. 223).
Percorsi di un nuovo incontro
Nel settimo capitolo (nn. 225-270) viene indicato come «in molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia» (n. 223). Si tratta, anzitutto, di «Ricominciare dalla verità»: «Solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti» (n. 226).
Il capitolo si occupa in particolare del tema dei conflitti, delle lotte legittime e del perdono bene inteso: «Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona — o qualunque altra — non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede» (n. 241).
Per costruire l’amicizia sociale è essenziale operare un vero superamento di un accostamento focalizzato sui conflitti: bisogna comprendere che l’unità è superiore al conflitto (n. 245). Si deve conservare la memoria, e insieme promuovere il perdono. Quest’ultimo non consiste, peraltro, in una sorta di impunità: «la giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore della giustizia stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in ordine a tutelare il bene comune, non come un presunto sfogo della propria ira. Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare» (n. 252).
Le religioni al servizio della fraternità nel mondo
L’ottavo e ultimo capitolo (nn. 271-287) sottolinea che «le diverse religioni, a partire dal riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione della fraternità e per la difesa della giustizia nella società» (n. 271). Come credenti, aggiunge Papa Francesco, «pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che “soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi” (19). Perché “la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità” (20)» (n. 271).
L’enciclica introduce qui, come «memorabile» un testo di san Giovanni Paolo II (21): «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro. […] La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza» (cit. in n. 273).
Il compito della Chiesa cattolica è così tratteggiato: «Chiamata a incarnarsi in ogni situazione e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra — questo significa “cattolica” —, la Chiesa può comprendere, a partire dalla propria esperienza di grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale. Infatti, “tutto ciò ch’è umano ci riguarda. […] Dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro” (22). Per molti cristiani, questo cammino di fraternità ha anche una Madre, di nome Maria. Ella ha ricevuto sotto la Croce questa maternità universale (cfr Gv 19,26) e la sua attenzione è rivolta non solo a Gesù ma anche al “resto della sua discendenza” (Ap 12,17). Con la potenza del Risorto, vuole partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato delle nostre società, dove risplendano la giustizia e la pace» (n. 278).
In questo capitolo conclusivo vengono sottolineati con forza sia il diritto delle religioni a partecipare al dibattito pubblico, insieme a potenti e scienziati, sia il diritto alla libertà religiosa: «Come cristiani chiediamo che, nei Paesi in cui siamo minoranza, ci sia garantita la libertà, così come noi la favoriamo per quanti non sono cristiani là dove sono minoranza. C’è un diritto umano fondamentale che non va dimenticato nel cammino della fraternità e della pace: è la libertà religiosa per i credenti di tutte le religioni» (n. 279), e viene negato che vi possa essere un legame legittimo fra culto di Dio e violenza.
L’enciclica si chiude, dopo aver richiamato la testimonianza del beato Charles de Foucauld, con due preghiere, l’una al Creatore, grazie al quale siamo fratelli, l’altra alla Santissima Trinità: «Dio nostro, Trinità d’amore, / dalla potente comunione della tua intimità divina / effondi in mezzo a noi il fiume dell’amore fraterno. / Donaci l’amore che traspariva nei gesti di Gesù, / nella sua famiglia di Nazaret e nella prima comunità cristiana.
«Concedi a noi cristiani di vivere il Vangelo / e di riconoscere Cristo in ogni essere umano, / per vederlo crocifisso nelle angosce degli abbandonati / e dei dimenticati di questo mondo / e risorto in ogni fratello che si rialza in piedi.
«Vieni, Spirito Santo! Mostraci la tua bellezza / riflessa in tutti i popoli della terra, / per scoprire che tutti sono importanti, / che tutti sono necessari, che sono volti differenti/della stessa umanità amata da Dio. Amen» (n. 287).
Note:
(1) Cfr. Francesco, Lettera enciclica «Fratelli tutti» sulla fraternità e l’amicizia sociale, del 3-10-2020. Ogni riferimento nel testo senza ulteriori indicazioni si riferisce a questa enciclica.
(2) San Francesco d’Assisi, Ammonizioni, 6 (Fonti Francescane. Scritti e biografie di san Francesco d’Assisi. Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano. Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, a cura di Ernesto Caroli, Edizioni Messaggero Padova-Movimento francescano Assisi, Padova 1996, n. 155; d’ora in poi Fonti Francescane).
(3) San Francesco d’Assisi, Ammonizioni, cit., 25 (Fonti Francescane, 174-175). Nell’enciclica viene ripresa solo la seconda parte, sottolineando che la distanza non deve modificare l’amore dovuto ai fratelli.
(4) Idem, Regola non bollata, cap. XVI (Fonti Francescane, 42-43).
(5) Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4-2-2019. Questo testo è citato otto volte nell’enciclica.
(6) Cronaca di Ernoul, 37 (Fonti Francescane, 2231).
(7) San Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), Legenda minore, 3, 9 (Fonti Francescane, 1356).
(8) Giordano da Giano, Cronaca, 10 (Fonti Francescane, 2332).
(9) San Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, lib. 1, cap. 2, nn. 3-4.
(10) Cfr. Francesco, Lettera enciclica «Lumen fidei»sulla fede, del 29-6-2013, n. 52.
(11) San Tommaso d’Aquino è uno degli autori più citati nell’enciclica Fratelli Tutti: vi si fa riferimento in nota ben sette volte.
(12) Cfr. Francesco, Lettera enciclica «Laudato si’» sulla cura della casa comune, del 24-5-2015.
(13) Si tratta, invero, di una dimensione essenziale nella comprensione del peccato originale e della sua ereditarietà, così come del mistero dell’incarnazione e della redenzione. Cfr. Col. 1, 22: «egli [Gesù] vi ha riconciliati per mezzo della morte del suo corpo di carne».
(14) «Anche nella politica c’è spazio per amare con tenerezza» (n. 194). Cfr. Ef. 4, 15: «vivendo secondo la verità nella carità».
(15) San Tommaso d’Aquino, Somma contro i gentili, lib. 1, cap. 2, n. 2. Enfasi aggiunta.
(16) Su 285 note, 168 fanno riferimento diretto a testi di Papa Francesco. In ventidue vi è un riferimento a Benedetto XVI (2005-2013), in quindici a san Giovanni Paolo II (1978-2005), in dodici a documenti di vescovi e conferenze episcopali, in nove al Compendio della dottrina sociale della Chiesa, del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, in sette, come detto sopra, a san Tommaso d’Aquino.
(17) Il riferimento, alla nota 65 dell’enciclica, è a san Tommaso d’Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, III, Dist. 27, q. 1, a. 1, ad 4: «Dicitur amor extasim facere, et fervere, quia quod fervet extra se bullit, et exhalat».
(18) Pio XI, Discorso alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del 18-12- 1927.
(19) Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae «Lo Spirito Santo ci ricorda l’accesso al Padre», del, del 17-5- 2020.
(20) Benedetto XVI, Lettera enciclica «Caritas in veritate» sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009, n. 19.
(21) San Giovanni Paolo II, Lettera enciclica «Centesimus annus» nel centenario della «Rerum novarum», del 1°-5-1991, n. 44.
(22) San Paolo VI, Lettera enciclica «Ecclesiam suam», del 6-8-1964, n. 101.