Domenico Airoma, Cristianità n. 405 (2020)
La lettera enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale (1) è stata accolta da commenti contrastanti. Accanto a reazioni entusiastiche — tutte pressoché riconducibili ad ambienti culturali progressisti, sia di matrice confessionale che non confessionale (2) —, altre ve ne sono state di fortemente critiche, e non solo in ambito cattolico (3).
Come era prevedibile, dopo qualche giorno si è spenta ogni eco del documento, travolto dalle varie emergenze, quella sanitaria in testa. Ed è forse questo il momento più opportuno per provare a proporre una riflessione e qualche domanda.
Premesse
Nel solco dell’insegnamento di Giovanni Cantoni (1938-2020), più premesse sarebbero indispensabili tutte le volte in cui ci si accosta a un documento del Magistero.
La prima, forse la più cara al fondatore di Alleanza Cattolica, è che «enciclica non scaccia enciclica», come «Papa non scaccia Papa» (4): il che vuol dire che ogni enciclica entra a far parte del magistero della Chiesa, che è un corpo organico; cosicché ogni lettura, auspicabilmente sine glossa — come pure usava raccomandare Cantoni —, non può che essere anche e soprattutto sistematica.
La seconda è che bisogna rispettare il testo, senza ergersi a interpreti delle intenzioni del Pontefice; semmai spetta a lui esplicitarlo.
La terza è che è del tutto irrilevante dire come avrebbe redatto l’enciclica ciascuno di noi, chi scrive in primis.
A queste premesse ne aggiungo un’altra che, se rispettate le prime, non può essere fonte di scandalo: i giudizi formulati dal Pontefice, laddove fondati su valutazioni di determinate circostanze di fatto, sono suscettibili — al pari di una sentenza condizionata da testimoni falsi o reticenti — di osservazioni critiche, sempre formulate con rispetto per Pietro, che resta, come del pari ammoniva Cantoni, «un prete straordinario».
Fra tre «s»
Non è solo un gioco dal sapore enigmistico, ma l’enciclica di Papa Francesco sembra potersi qualificare come sociale,come sintesi del proprio pensiero, e come sudamericana nell’impostazione culturale.
Che sia un’enciclica sociale, lo dichiara esplicitamente lo stesso estensore, al n. 6. Il punto è se si possa dire, a pieno titolo, un’enciclica di «dottrina sociale», posto che in quest’ultima «il cristiano sa di poter trovare […] i principi di riflessione, i criteri di giudizio e le direttive di azione da cui partire per promuovere un umanesimo integrale e solidale» (5).
Il dubbio poggia, ancora una volta, sulle stesse parole del Pontefice: «Le pagine che seguono non pretendono di riassumere la dottrina sull’amore fraterno, ma si soffermano sul suo amore universale, sulla sua apertura a tutti. Consegno questa enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione […]. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà» (n. 6) (6).
Se si tratta di un «umile apporto alla riflessione», dove le convinzioni religiosesono solo un «punto di partenza», è lecito dire che si è dinanzi a un documento che contiene, più che princìpi, una «riflessione»; che non pretende di «imporre dottrine» (cfr. n. 4); che non ha «[…] la pretesa di compiere un’analisi esaustiva né di prendere in considerazione tutti gli aspetti della realtà che viviamo», ma soltanto lo scopo «[…] di porre attenzione ad alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale» (n. 9); indirizzato in modo particolare ai non cristiani. Tale inquadramento appare indispensabile al fine di attribuire il giusto peso ai «criteri di giudizio»e alle «direttive di azione» che emergono dallo stesso.
Dunque, il Pontefice intende concentrare la propria attenzione sulle «tendenze», ovvero sugli orientamenti — dei singoli e delle articolazioni sociali — che costituiscono un impedimento alla realizzazione di una società che ci renda fratelli, e non solo vicini(cfr. n. 12).
Se le cose stanno in questi termini — ripeto, sicut litterae sonant —, se cioè lo sguardo viene portato su qualcosa di strutturalmente fluido, quali sono le «tendenze», si comprende anche per quale ragione il Pontefice riprenda gran parte dei suoi interventi precedenti, facendone, come si è detto, un’ampia sintesi (7); si tratta, cioè, di un’osservazione che Francesco viene svolgendo da tempo e i cui esiti vengono riassunti, senza pretesa di definitività, in questo documento: «Le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state fra le mie preoccupazioni. Negli ultimi anni ho fatto riferimento ad esse più volte e in diversi luoghi. Ho voluto raccogliere in questa Enciclica molti di tali interventi collocandoli in un contesto più ampio di riflessione» (n. 5).
L’operazione compiuta, essendo consistita nella sistemazione di precedenti riflessioni in un quadro più ampio, non può che essere condizionata dal punto di vista di chi la svolge, dalla sua sensibilità: il che produce effetti, pure inevitabilmente, sulla gerarchia delle priorità di intervento ricavabile dal documento stesso.
Risponde tale gerarchia alle domande dell’ora presente?
Con ciò non si vuol dire, ancora una volta, che non siano priorità da tenere in considerazione.
La questione che qui si vuole affrontare è un’altra.
La denunciata prospettiva nella quale vengono svolte quelle «riflessioni» — una ricognizione non esaustiva finalizzata all’«apertura al dialogo»con chi è fuori dalla Chiesa — fa sì che ci si possa lecitamente inserire in quelle riflessioni — e, a maggior ragione, in quel dialogo — per aggiungere elementi di informazione, e di giudizio, rispetto a un quadro che — ancora una volta confessatamente — viene proposto e non imposto.
In tale prospettiva, chi — come il militante di Alleanza Cattolica — intende spendere la propria vocazione nell’ambito lato sensu sociale, deve sentirsi specificamente chiamato in causa proprio nel fornire ulteriori dati di fatto, al fine di contribuire a rettificare giudizi che possano risentire della relativitàdel punto di osservazione o della parzialità degli elementi osservati.
Senza pretesa — questa volta di chi scrive — di esaustività, fra gli aspetti che appaiono meritevoli — quanto meno di integrazione fattuale, ai fini della rettificazione del giudizio — va indubbiamente annoverata la severa critica portata all’economia di mercato e, più in generale, al «modello economico fondato sul profitto» (n. 22), considerato dal Pontefice come uno dei principali, se non come il più importante ostacolo allo «sviluppo umano integrale» (n. 21) e «il cammino verso un mondo diverso» (n. 122) (8). Quello che colpisce, estendendo lo sguardo all’intera riflessione svolta dal Pontefice sulle «ombre di un mondo chiuso», è l’accentuazione dell’incidenza negativa dei «poteri economici» (n. 12), considerati quasi come gli unici nemici della «casa comune» (n. 17). Non che manchino i riferimenti al «decostruzionismo» operato dalle «ideologie di diversi colori» (n. 13) o alle «visioni antropologiche riduttive» (n. 22); tuttavia, è innegabile che tutti i fenomeni più perniciosi, dalle guerre (9) alle mafie (10), al disprezzo per i deboli (11), vengano spiegati in chiave economica.
Del pari, merita di essere segnalata la sopravvalutazione dei cosiddetti «movimenti popolari» (n. 169), presentati come i veri protagonisti della «migliore politica» (p. 154), nemici dei populismi e dei liberalismi (12), senza i quali «[…] la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino» (n. 169).
E qui veniamo alla terza «s», quella che dice riferimento alla formazione culturale del Pontefice, di matrice «sudamericana».
«Non dimentichiamo — il monito è di mons. Bruno Forte — che Papa Francesco vive la sua vita e spende il suo ministero innanzitutto in Argentina, a Buenos Aires, e là c’è questa “teologia del pueblo” che abbraccia pensatori che lui ha ben conosciuto, apprezzato e stimato: Lucio Gera, per esempio, o anche Juan Carlos Scannone [1931-2019], Rafael Tello [1917-2002]. Questi sono pensatori che si ispirano, certamente, anche alla “Teologia della Liberazione” rispetto alla quale però accentuano molto di più proprio il fondamento teologico cristiano di un impegno per una maggiore giustizia sociale» (13).
La questione, non di poco conto — una volta attribuito al sostantivo «popolo» una portata teologica, teleologica e comunque non spiegabile con la sola logica (14) —, riguarda chi debba dare voce politica a quest’ultimo e come, dal momento che «ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società» (n. 159) e altri che hanno invece l’abilità «[…] di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere» (n. 159).
E non può dirsi che il dubbio non abbia un certo fondamento nelle stesse vicende storiche dell’America Latina, tuttora interessata dalla presenza di «leader popolari» che, più che populisti, sembrano essere dichiaratamente socialcomunisti, con gravi conseguenze — da incubo più che da sogno — sulle condizioni di vita dei propri popoli.
Domande fraterne
Ponendomi nel solco che ci invita a percorrere il Pontefice, quello di un «[…] dialogo che esige di essere arricchito e illuminato da ragioni, da argomenti razionali» (n. 211), provo a sollevare alcuni interrogativi, accogliendo l’invito a tener presente che «la carità riunisce entrambe le dimensioni — quella mitica e quella istituzionale — dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto» (n. 164).
Utilizzo, a tal fine, la parabola del Buon Samaritano, che il Pontefice considera paradigmatica per descrivere il percorso da compiere «[…] per realizzare la fraternità umana» (n. 69).
Partiamo dai briganti. «Li conosciamo» (n. 72), osserva il Papa. Conosciamo, certamente, il genere, per così dire, che ci presenta Nostro Signore. Ma l’operazione che siamo chiamati a fare — se il nostro amore per il prossimo deve essere realistico (cfr. n. 165) — è dare un volto a chi oggi interpreta quel ruolo. Identificarli e denunciarli, se non vogliamo anche noi «[…] passare a distanza» come il sacerdote o il levita, quella «[…] distanza che isola dalla realtà» (n. 73); e, ancora, soprattutto se teniamo presente che «solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e tentare una nuova sintesi per il bene di tutti» (n. 226).
Poste tali premesse, perché non denunciare quei briganti che, oggi, operano al riparo non di muri ma di una «grande muraglia»come quella cinese? «Non c’è più spazio — infatti — per diplomazie vuote, per dissimulazioni, per discorsi doppi, occultamenti, buone maniere che nascondono la realtà» (ibidem).
Restiamo sulla scena del Samaritano e proviamo a immaginare se quest’uomo di buona volontà si fosse trovato a passare all’atto dell’aggressione dei briganti. Sarebbe di certo intervenuto, usando la forza. «Chi — infatti — può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri?» (n. 246). «Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad esser tale» (n. 241).
E allora, se «la pace “non è solo assenza di guerra”» (n. 233) e vi sono conflitti dinanzi ai quali «[…] il cristiano deve prendere posizione con decisione e coerenza», resta lecito chiedersi se «mai più la guerra!» (n. 258), oltre a rappresentare un nobile auspicio, non debba fare i conti con la realtà dei briganti, suggerendo — sempre se vogliamo conferire realismoall’amore — di non sbarazzarsi sbrigativamente dei «criteri razionali maturati in altri secoli» (ibidem) per parlare di «una possibile “guerra giusta”» (ibidem), soprattutto quando dall’altra parte vi è qualcuno che non vuole la pace e fa strage di innocenti.
«Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona — o qualunque altra — non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri» (n. 241). Se, però, si tratta di fronteggiare un attacco di delinquenti organizzati, anche sotto le vesti di una compagine statale, cosa impedisce di reclamare altrettanta giustizia e di ricorrere all’uso della forza una volta che sono fallite tutte le altre strade? E chi si difende, non sta, dunque, combattendo una guerra «giusta»?
Infine, la locanda. Il Samaritano non si ferma all’assistenza materiale. Si prende cura del malcapitato, accompagnandolo presso un luogo sicuro; accanto alla salute, si preoccupa della sua salvezza. La locanda è l’immagine della Chiesa, il luogo dove si compie la conversione; quella conversione che era pure lo scopo del dialogo del poverello d’Assisi con il Sultano (15) e la cui ansia dev’essere la «seconda pelle» di ogni cristiano (16).
«Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità dell’uomo e della donna» (n. 277).
Perché questa musica non smetta e, soprattutto, perché sia sempre un’armoniosa melodia per le orecchie del nostro prossimo, occorre formare bravi musicisti, che sappiano coniugare studio e creatività, attenti alla dottrina e ardenti nella carità.
Nella consapevolezza che lo spartito è solo uno, quello dell’unico Maestro.
Note:
(1) Cfr. Francesco, Lettera Enciclica «Fratelli tutti» sulla fraternità e l’amicizia sociale, del 3-10-2020. Ogni riferimento nel testo senza ulteriori indicazioni si riferisce a questa enciclica.
(2) Cfr. Luca Kocci, «Fratelli tutti», l’Internazionale di papa Bergoglio, ne il manifesto,4-10-2020; e Leonardo Boff, Fare la rivoluzione nella tenerezza, nel sito web <http://www.nuovi-lavori.it/index.php/sezioni/1878-fare-la-rivoluzione-della-tenerezza> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 4-11-2020).
(3) Cfr., fra gli altri, Loris Zanatta, Manifesto populista, ne Il Foglio quotidiano, 19-10-2020.
(4) Cfr. «Forse Papa scaccia Papa ed enciclica enciclica?» (Giovanni Cantoni, L’anti-integrismo come «dis-integrazione» della fede, in Idem, La lezione italiana, Cristianità, Piacenza 1980, pp. 203-219 [p. 219]).
(5) Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, del 2-4-2004, n. 7.
(6) Si richiama sul punto il giudizio di mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto: «Dunque mi sembra chiarissimo che Papa Francesco annunci il Vangelo, cioè non una dottrina sociale in quanto tale ma le conseguenze sociali di una conversione del cuore a quella fraternità che è il dono di Dio fatto agli uomini» (Bruno Forte, Fratelli tutti, Forte: traduce il Vangelo per il mondo di oggi, nel sito web <https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2020-10/fratellitutti-enciclica-intervista-forte-teologia-vangelo.html>).
(7) «Per Stefano Zamagni, nella “Fratelli tutti” Papa Francesco sistematizza tutto il suo magistero precedente all’insegna di una parola: “fraternità”» (Fratelli tutti. Zamagni: «Un’enciclica di sistema», intervista a cura di Maria Michela Nicolais, in Agensir, 7-10-2020, nel sito web <https://www.agensir.it/chiesa/2020/10/07/fratelli-tutti-zamagni-unenciclica-di-sistema>).
(8) «Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette a qualunque sfida si presenti» (n. 168).
(9) «Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici» (n. 25).
(10) «Queste infatti si impongono presentandosi come “protettrici” dei dimenticati, spesso mediante vari tipi di aiuto, mentre perseguono i loro interessi criminali» (n. 28).
(11) «Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti» (n. 155).
(12) «[…] sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono, promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale» (n. 169).
(13) B. Forte, art. cit.
(14) «Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile … verso un progetto comune» (n. 158).
«[…] è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”» (n. 157).
«La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica» (n. 158).
(15) Ecco come riporta i fatti il francescano Illuminato da Chieti (1190 ca.-1266), autore di alcuni ricordi della vita di san Francesco: «Lo stesso sultano gli sottopose questo problema: “Il tuo Signore ha insegnato nei suoi vangeli che il male non deve essere ripagato con il male, che non devi rifiutare il tuo mantello a chiunque voglia prendere la tua tunica, ecc.: Tanto più i cristiani non devono invadere la nostra terra”. E il beato Francesco rispose: “Mi sembra che non abbiate letto il vangelo di nostro Signore Gesù Cristo nella sua interezza. Infatti dice altrove: “se il tuo occhio ti fa peccare, strappalo e buttalo via”. Con questo, Gesù ha voluto insegnarci che se qualcuno, anche un nostro amico o un nostro parente, e anche se ci è caro come il bulbo del nostro occhio, dobbiamo essere disposti a respingerlo, ad estirparlo se cerca di toglierci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. È proprio per questo che i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le terre che abitate e combattono contro di voi, perché bestemmiate il nome di Cristo e vi sforzate di distogliere dal suo culto quante più persone possibile. Ma se voi doveste riconoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore, i cristiani vi amerebbero come se stessi» (Cit. in Girolamo Golubovich O.F.M. (1865-1941), Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell’Oriente francescano, tomo I (1215-1300), Tipografia del Collegio di San Bonaventura, Quaracchi presso Firenze 1906, p. 37).
(16) Appare opportuno riportare al riguardo le profetiche riflessioni di Michele Federico Sciacca (1908-1975), filosofo molto caro a Giovanni Cantoni: «Non pochi cattolici, preoccupati dei suffragi, propongono, oggi, moduli di dialogo che più o meno palesemente si spingono alla negazione nella lettera e nello spirito delle verità della loro fede, quasi sempre appellandosi al Concilio Vaticano II — i cui Schemi sono ben lontani da simili avventure — e all’ecumenismo, quasi che essere perfetti ecumenici voglia dire cessare di essere cattolici e anche cristiani. Motivo ricorrente e legittimo […] quello di andare incontro al mondo, dovere a cui ogni autentico cattolico ha sempre adempiuto, giacché esser cattolici comporta anche l’impegno nel mondo secondo il tempo in cui si vive; ferma restando l’integrità della fede e nei limiti di una saggia prudenza che consiglia di non trasportare entro le mura il cavallo di Troia […]. Invece, si vuole andare incontro al mondo moderno in una maniera davvero singolare; rendere “appetibile” il Cristianesimo accomodando al gusto di oggi le sue verità divine e l’intera area del religioso, al punto da fare del Cristianesimo stesso, secondo i casi, un manicaretto o un polpettone senza Dio e senza dogmi, cioè ateo e senza verità di fede […].
«Certo, anche secondo i documenti del Concilio, la verità va accettata da qualsiasi parte provenga, e particolari verità si riscontrano in tutte le culture e anche in tutte le religioni, giacché l’uomo in quanto tale è capace del vero. Ma questo “pluralismo culturale” che, dentro limiti precisi, può favorire la penetrazione del cattolico e della sua fede […] significa secondo il Concilio ricerca e diffusione della verità, principio di ogni sapere e, sul terreno religioso, della vera religione: non cedimento nei confronti di quest’ultima e meno ancora relativismo e agnosticismo […]. E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità in ordine a Dio e alla sua Chiesa, e son tenuti ad aderire alla verità a mano a mano che la conoscono, e a renderle omaggio» (Michele Federico Sciacca, Filosofia e antifilosofia, L’Epos, Palermo 1998, pp. 104-106).