Chiara Mantovani, Cristianità n. 405 (2020)
La Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) ha pubblicato la Lettera «Samaritanus bonus», dedicata alla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita (1). Approvata da Papa Francesco il 25 giugno 2020, reca la data di pubblicazione del 14 luglio, memoria liturgica di san Camillo de Lellis (1550-1614), ed è stata resa nota e presentata al mondo il 22 settembre.
Essa rappresenta, in ordine di apparizione, l’ultimo documento magisteriale sul tema dell’eutanasia e del suicidio assistito. La materia ha iniziato a essere esaminata in modo sistematico dal Pontificio Consiglio Cor unum, che riunì, dal 12 al 14 novembre 1976, un gruppo di lavoro interdisciplinare di una quindicina di persone — teologi, medici, membri di congregazioni religiose che si dedicavano alla cura dei malati, infermieri, cappellani — e produsse nel 1981 un documento conclusivo (2). Nel frattempo, aveva visto la luce la dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (3). Entrambi gli scritti sono tuttora fondamentali nell’accostamento al tema, per la completezza delle analisi, la lucidità delle argomentazioni e la lungimiranza nell’individuare le ulteriori sfide che oggi ci troviamo ad affrontare.
Ma è davvero sorprendente constatare che le basi razionali e teologiche per rispondere ai quesiti più laceranti erano già state poste, nelle loro linee generali ma non astratte, dal corpus dottrinale costituito dai vari discorsi, allocuzioni e messaggi indirizzati al mondo medico e infermieristico dal venerabile Pio XII (1939-1958) (4), il quale — scrupolosamente informatosi, come sua abitudine, presso i migliori specialisti del tempo — aveva magistralmente affrontato, fra gli altri, il tema della sofferenza indicibile nell’imminenza della morte, della deontologia professionale e del ruolo di medici e personale sanitario cattolico, riflettendo sul dovere-diritto all’obiezione di coscienza. Dobbiamo a lui la prima precisazione che il dolore non deve ineluttabilmente essere sopportato e che è lecito servirsi dei presìdi medici a disposizione per lenire le sofferenze.
Anche Papa san Giovanni Paolo II (1978-2005), nel discorso ai partecipanti a un corso internazionale di aggiornamento sulle preleucemie umane, richiamandosi alla dichiarazione Iura et bona, ha affermato chiaramente che «il principio della “proporzionalità delle cure” […] non dispensa dall’impegno terapeutico valido a sostenere la vita né dall’assistenza con mezzi normali di sostegno vitale», fra i quali vi è certamente la somministrazione di cibo e di liquidi, avvertendo che non sono lecite le omissioni che hanno lo scopo «[…] di abbreviare la vita per risparmiare la sofferenza, al paziente o ai parenti» (5).
Nel 1995 è stata pubblicata dal Pontificio Consiglio per la Pastorale degli Operatori Sanitari la Carta degli operatori sanitari, nella quale si afferma esplicitamente che «l’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia» (6).
Nello stesso anno viene pubblicata anche l’enciclica Evangelium vitae, nella quale si afferma: «Per un corretto giudizio morale sull’eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. “L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”» (7).
L’enciclica Evangelium vitae rappresenta forse il massimo grado di solennità di un pronunciamento pontificio in materia, riprendendo stile e parole che non lasciano dubbi sulla definitività di ciò che è affermato: «Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.
«Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell’omicidio» (8).
Il dilemma sull’opportunità di sospendere anche le cure palliative è affrontato nuovamente in una sintetica risposta fornita dalla CDF a due quesiti della Conferenza Episcopale Statunitense e accompagnata da una Nota di commento, ampia e argomentata, che cita espressamente i riferimenti già ricordati, sottolineando la perfetta continuità con ogni magistero precedente (9).
Papa Benedetto XVI (2005-2013), ai partecipanti al Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, ricordava: «[…] è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente, senza dimenticare però che l’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana» (10).
Samaritanus bonus riparte da qui, sulle spalle di importanti e definitive riflessioni e disposizioni, per rafforzare la ragione e il cuore dei cattolici e degli uomini aperti al confronto onesto. La Lettera si dipana in una introduzione, cinque capitoli — di cui l’ultimo suddiviso in dodici paragrafi — e una conclusione.
Introduzione
Già nell’Introduzione appare evidente che il destinatario della Lettera è il fedele cattolico. Il ruolo dell’organismo che la scrive è quello di indicare le vie affinché ciò che si crede non resti accademia, ma si trasformi in opere che mostrino al mondo la fede. Perciò essa parte dal Vangelo, già dal titolo, prendendo spunto da un episodio tanto famoso da entrare nel linguaggio corrente: «buon samaritano» è chiunque compia un atto caritatevole e disinteressato. La notissima parabola, narrata dall’evangelista san Luca (10, 25-37), serve al Signore Gesù per far ammettere, all’ennesimo dottore della legge che lo aveva interrogato con malizia, l’esistenza di un dovere di vicinanza con chi soffre; non solo una dimensione personale e spirituale, ma un fare operativo che coinvolge in nome di una comune identità e di un comune destino, quelli di essere umani.
E, infatti, «il presente documento intende illuminare i pastori e i fedeli nelle loro preoccupazioni e nei loro dubbi circa l’assistenza medica, spirituale e pastorale dovuta ai malati nelle fasi critiche e terminali della vita».
Il vero focus non è una documentata disamina — pur presente e attenta — dei princìpi-cardine, ma un esplicito fine:
«— ribadire il messaggio del Vangelo e le sue espressioni come fondamenti dottrinali proposti dal Magistero, richiamando la missione di quanti sono a contatto con i malati nelle fasi critiche e terminali (i familiari o i tutori legali, i cappellani ospedalieri, i ministri straordinari dell’Eucaristia e gli operatori pastorali, i volontari ospedalieri e il personale sanitario), oltre che dei malati stessi;
«— fornire orientamenti pastorali precisi e concreti, affinché a livello locale si possa affrontare e gestire queste complesse situazioni per favorire l’incontro personale del paziente con l’Amore misericordioso di Dio».
Non si cerchi dunque ciò che non vi può essere, in questo che non è un documento di contrattazione fra parti che devono giungere a un accordo, bensì la raccolta delle disposizioni di Santa Romana Chiesa per i propri fedeli e presbiteri di ogni ordine e grado.
«Prendersi cura del prossimo»
«Appare per questo necessario partire da una attenta considerazione del significato proprio della cura, per comprendere il significato della specifica missione affidata da Dio ad ogni persona, operatore sanitario e pastorale, così come al malato stesso e alla sua famiglia». Il termine «prendersi cura» delinea subito un orizzonte preciso: una sinergia di differenti ma concordanti attitudini e capacità, che comprende la medicina, la morale, la carità e la disponibilità economica. Elementi tutti che compongono il variegato sfondo delle vicende sociali: nessuno può stare tanto solo ed essere bastevole a sé stesso da ignorare l’apporto reciproco nel costruire una società. Nella relazione di cura si realizza un principio di giustizia sia perché si rispetta la vita — bene primario e origine di ogni altro — sia perché si evita di recare danno: «primum non nocere» era la regola-cardine dell’etica medica ancor prima della Rivelazione. Certamente nell’assistenza all’ammalato/sofferente la prima competenza decisiva è quella medico-infermieristica, e il pellegrino del Vangelo dimostra di sapere il fatto suo: versa disinfettante e balsamo sulle ferite. Ma la «cura» non si esaurisce nella terapia: infatti il samaritano non abbandona l’uomo «mezzo morto e denudato dai ladroni» ma, caricatolo, lo porta dove potrà abitare in luogo degno della sua umanità, in una «locanda». La cura continua al di là dell’orizzonte della guarigione, spesso impossibile, e giunge fino al limite estremo, escludendo così l’abbandono dell’uomo sofferente e neutralizzando lo sconforto che potrebbe indurre alla richiesta eutanasica o di suicidio assistito.
Anche se appare difficile parlarne — nel panorama culturale attuale, che enfatizza l’autonomia e rifiuta la dimensione creaturale —, l’unica vera via per riaccendere la speranza e vincere la disperazione resta comunque Cristo, e la Redenzione da Lui operata nella sofferenza.
«L’insegnamento del Magistero»
Questa è la parte che, dopo le necessarie premesse, più si occupa di tradurre in indicazioni concrete, non equivocabili, i capisaldi antropologici e teorici per la realizzazione concreta di una società umana, solidale e illuminata dalla fede cattolica. Certamente stringenti per chi si professa credente, restano comunque spunti offerti alla ragionevolezza universale.
- Il divieto di eutanasia e suicidio assistito
La Chiesa ribadisce come insegnamento definitivo l’intrinseca malizia e quindi l’inammissibilità dell’eutanasia e del suicidio assistito, ribadendo che il criterio per riconoscerli è l’intenzionalità. Nella confusione delle semantiche, infatti, spesso in malafede si confondono comportamenti apparentemente sovrapponibili ma sostanzialmente differenti: voler porre fine a una vita umana è eutanasia, alleviare le sofferenze di chi sta per morire — pur tollerando un effetto collaterale non voluto quale un’abbreviazione di qualche tempo della vita — non è eutanasia, bensì accettazione del limite e della finitezza umana.
«Valore della vita, autonomia, capacità decisionale e qualità della vita non sono sullo stesso piano. L’eutanasia, pertanto, è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza».
2. L’obbligo morale di escludere l’accanimento terapeutico
Certamente non è ammissibile insistere in terapie o in indagini strumentali dolorose e inutili, inadeguate alle reali e concrete condizioni dei pazienti, prolungando precarietà e sofferenza; altrettanto inaccettabile è cedere alle insistenze di chi — per malinteso affetto o per malizia — chiedesse una dilazione dell’ineludibile imminente decesso. Diventa allora rilevante offrire la competenza di una buona scienza e di una sensibile coscienza, che deve sempre guidare l’agire medico, salvaguardando la libertà del medico non meno che quella del paziente e/o dei suoi familiari. «Il medico, in ogni caso, non è mai un mero esecutore della volontà del paziente o del suo rappresentante legale, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi al bene morale visto dalla propria coscienza».
3. Le cure di base: il dovere di alimentazione e idratazione
Desistere da cure inappropriate, che non portano reale giovamento al paziente, ancorché limitatamente ai suoi sintomi di sofferenza, non può mai diventare pretesto per rinunciare alle cure dovute al malato e a ogni persona in generale. Al contrario, le condizioni critiche acuiscono il bisogno di vicinanza e di accudimento elementare, così come è già intuibile dal senso comune. Sospendere l’acqua e un minimo di sostentamento può avere un solo effetto di aggravamento del disagio e del discomfort, esattamente il contrario di ciò che si afferma di voler evitare. Appare inutile oggi continuare a sostenere che esiste nei medici una volontà di «accanimento» nel trattamento dei pazienti: né la missio medica, né tantomeno le già critiche situazioni economiche della sanità possono tollerare un dispendio inutile di risorse. Altrettanto ovviamente, «quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa. In questo modo non si anticipa illecitamente la morte per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale». E, si deve aggiungere, il medico usa in modo competente e appropriato la propria professionalità e deontologia.
4. Le cure palliative
La Chiesa ben conosce le cure palliative, avendole pensate e realizzate per prima nella storia. Strumento prezioso e irrinunciabile del farsi carico dei pazienti in situazione critiche, dolorose e finali, hanno altissimi costi umani e bassi costi economici. Stare accanto a chi sta per morire soffrendo è gesto di grande carità che trova esattamente nel buon samaritano l’icona paradigmatica. Non può sottrarsi a questo compito neanche l’assistenza religiosa, ed estesa dal malato alla sua famiglia, per tentare di trasformare la disperazione della morte, propria o di chi si ama, in una prospettiva aperta alla consolazione e a un senso.
Ecco perché sono così devastanti e censurabili alcuni fraintendimenti causati da normative chiamate Palliative Care Act o da leggi sul «fine-vita» (End-of-Life Law) che prevedono la cosiddetta Medical Assistance on Dying (Assistenza medica alla morte; in sigla MAiD). Sono chiamate cure palliative ma includono la possibilità di richiedere eutanasia e suicidio assistito, fino a giungere, in alcuni contesti, a consentire «[…] la somministrazione di farmaci intesi ad anticipare la morte o nella sospensione/interruzione di idratazione e alimentazione, anche laddove vi sia una prognosi di settimane o mesi. Tali pratiche equivalgono, tuttavia, ad una azione od omissione dirette a procurare la morte e sono pertanto illecite».
5. Il ruolo della famiglia e gli hospice
«Occorre, pertanto, che gli Stati riconoscano la primaria e fondamentale funzione sociale della famiglia e il suo ruolo insostituibile, anche in questo ambito, predisponendo risorse e strutture necessarie a sostenerla. Inoltre, l’accompagnamento umano e spirituale della famiglia è un dovere nelle strutture sanitarie di ispirazione cristiana; essa non va mai trascurata, poiché costituisce un’unica unità di cura con il malato».
6. L’accompagnamento e la cura in età prenatale e pediatrica
Uno dei punti forse più coraggiosi e qualificanti di questa Lettera è proprio la chiarezza con cui viene affrontato il tema della sofferenza degli innocenti. Nel recente passato abbiamo assistito a drammi terribili che hanno dilaniato la coscienza e la pubblica opinione: i piccoli Alfie Evans (2016-2018) e Charlie Gard (2016-2017) sono il doloroso emblema di una strumentalizzazione del concetto di best interest, espressione anglosassone con cui si giustifica la soppressione di minori, anche contro la volontà dei genitori, in nome di un presunto miglior interesse a morire anziché a vivere, reputando che la morte sia preferibile a qualsiasi disabilità. È la tragica vittoria di una sub-cultura che scarta e disprezza ogni difficoltà e che, nel caso di bambini non ancora nati, ha negli anni inculcato l’idea dell’aborto «terapeutico», dell’aborto come terapia. La Lettera ribadisce la deriva eugenetica di una simile impostazione: quale che sia l’età di vita, a ciascuno è dovuto rispetto e cura.
7. Terapie analgesiche e soppressione della coscienza
Quando venne pubblicata la legge n. 219 del 2017 — recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento — che in Italia ri-definisce, fin quasi a ribaltarlo, il rapporto fra paziente e medico e lo trasforma in una contrattazione fra pari, in molti inneggiarono alla svolta che «finalmente» consentiva la terapia del dolore. Anche questo è un fraintendimento che non aiuta a capire (11). Una legge sul diritto all’accesso alle terapie palliative esiste dal 2010 (12), ed è una buona legge, che riconosce la necessità di un accostamento serio al tema del dolore ed esclude la intenzionalità eutanasica. Molto importante infatti — e non inequivocabile nella legge del 2017 — è escludere lo scopo diretto di provocare la morte, di fare della morte la terapia della sofferenza.
8. Lo stato vegetativo e lo stato di minima coscienza
La cronaca non ci ha risparmiato, in questi ultimi decenni, sfide drammatiche fra la rivendicazione all’autodeterminazione, la pretesa di diritti fondati sull’arbitrio e la difesa della dignità di ogni persona umana, quale che sia la sua condizione di età e di salute. Uno dei più dolorosi stati in cui ci si può trovare, per sé e per i propri cari, è quello delle malattie neurodegenerative. La mancanza di segni comunicativi del soggetto verso l’esterno non equivale, però, a una variazione di natura: non diventa mai un vegetale colui che fin dal primo istante della sua esistenza è un essere umano. Perciò le cure adeguate sono, quelle sì, un diritto umano inalienabile in ogni situazione di malattia o di handicap.
9. L’obiezione di coscienza da parte degli operatori sanitari e delle istituzioni sanitarie cattoliche
Non è scontato che anche il documento della CDF ribadisca il dovere — e dunque il diritto, davanti a leggi che legittimano eutanasia e suicidio assistito — di testimoniare, anche con l’obiezione di coscienza, il dissenso a tali comportamenti. È un passaggio forte e di esplicito richiamo alla dottrina sociale della Chiesa quello in cui si ricorda che «le istituzioni sanitarie cattoliche sono chiamate ad essere fedeli testimoni dell’irrinunciabile attenzione etica per il rispetto dei valori umani fondamentali e di quelli cristiani costitutivi della loro identità, mediante l’astensione da comportamenti di evidente illiceità morale e la dichiarata e formale obbedienza agli insegnamenti del Magistero ecclesiale. Ogni altra azione, che non corrisponda alle finalità e ai valori ai quali le istituzioni sanitarie cattoliche si ispirano, non è eticamente accettabile e, pertanto, pregiudica l’attribuzione, alla istituzione sanitaria stessa, della qualifica di “cattolica”.
«In tal senso, non è eticamente ammissibile una collaborazione istituzionale con altre strutture ospedaliere verso le quali orientare e indirizzare le persone che chiedono l’eutanasia. Simili scelte non possono essere moralmente ammesse né appoggiate nella loro realizzazione concreta, anche se sono legalmente possibili.
«[…] Il diritto all’obiezione di coscienza non deve farci dimenticare che i cristiani non rifiutano queste leggi in virtù di una convinzione religiosa privata, ma di un diritto fondamentale e inviolabile di ogni persona, essenziale al bene comune di tutta la società. Si tratta, infatti, di leggi contrarie al diritto naturale in quanto minano i fondamenti stessi della dignità umana e di una convivenza improntata a giustizia».
10. L’accompagnamento pastorale e il sostegno dei sacramenti
La Lettera della CDF non si sottrae a esplicitare due punti davvero sensibili della missione propria della Chiesa: accompagnamento e sacramenti. Chiede ai sacerdoti un’attenzione delicata e competente nella cura delle anime nel momento supremo e decisivo della morte. E, persuasa della maternità spirituale che la caratterizza, quello che prescrive e suggerisce non è mai causato da legalismo ma da autentica sollecitudine.
11.Il discernimento pastorale verso chi chiede eutanasia o suicidio assistito
Perciò è con grande rispetto e fermezza che questo paragrafo si occupa di puntualizzare alcuni punti decisivi nella pastorale quotidiana, consapevole che il mondo è cambiato, complesso e frammentato, vi regna l’opinione personale e si considera l’obbedienza come debolezza. Eppure, vi sono alcuni punti fermi che servono a focalizzare l’essenziale. Sempre più spesso i presbiteri potranno trovarsi di fronte a qualcuno «[…] che ha chiesto espressamente l’eutanasia o il suicidio assistito. Rispetto al sacramento della Riconciliazione, il confessore deve assicurarsi che ci sia contrizione, la quale è necessaria per la validità dell’assoluzione, e che consiste nel “dolore dell’animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnato dal proposito di non peccare più in avvenire”». In un tal caso ci si trova «[…] davanti ad una persona che, oltre le sue disposizioni soggettive, ha compiuto la scelta di un atto gravemente immorale e persevera in esso liberamente. Si tratta di una manifesta non-disposizione per la recezione dei sacramenti della Penitenza, con l’assoluzione, e dell’Unzione, così come del Viatico. Potrà ricevere tali sacramenti nel momento in cui la sua disposizione a compiere dei passi concreti permetta al ministro di concludere che il penitente ha modificato la sua decisione. Ciò comporta anche che una persona che si sia registrata in un’associazione per ricevere l’eutanasia o il suicidio assistito debba mostrare il proposito di annullare tale iscrizione, prima di ricevere i sacramenti. Si ricordi che la necessità di posporre l’assoluzione non implica un giudizio sull’imputabilità della colpa, in quanto la responsabilità personale potrebbe essere diminuita o perfino non sussistere».
«Si ricordi che posporre l’assoluzione è anche un atto medicinale della Chiesa, volto, non a condannare il peccatore, ma a muoverlo e accompagnarlo verso la conversione».
12. La riforma del sistema educativo e della formazione degli operatori sanitari
Non vi è vera conversione senza adeguata educazione. Nessun soggetto educativo — famiglia, scuola, comunità parrocchiali, cappellanie ospedaliere e istituti sanitari cattolici — può sottrarsi al dovere di una efficace e qualificata formazione spirituale e morale dei propri operatori della salute. Una particolare dedizione sia riservata dalle università all’insegnamento delle cure palliative, istituendo anche corsi di laurea per il conseguimento di una competenza qualificata. Inoltre, vi è un aspetto che non può essere ignorato da chi riconosce, nella missione di cura, un impegno a supportare quella piccola comunità di persone legate dal comune intento di accompagnare e sollevare la sofferenza: ammalato, famiglia, équipe curante sono una piccola comunità di destino, e anche il personale sanitario può soffrire e sentirsi inadeguato di fronte all’umana fragilità. È il fenomeno ben noto del cosiddetto burn out, la frustrazione del medico e dell’infermiere nel vedere tanti «insuccessi» terapeutici. È una brutta tentazione, che sfibra e che può obnubilare la consapevolezza del vero scopo della cura: guarire raramente, alleviare la sofferenza spesso, accompagnare sempre. Anche su questo aspetto, una formazione attenta al valore intero della persona deve applicarsi.
Il magistero di san Giovanni Paolo II chiude la Lettera: «rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana!». L’esclamazione di Evangelium vitae racchiude il mandato che riguarda tutti, dai medici agli amministratori, dai malati ai volontari. È l’unico modo per costruire una società equa, adeguata alla preziosità di ogni uomo, santo o peccatore, sano o ammalato.
Note:
Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera «Samaritanus bonus» sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, del 14-7-2020. Tutte le citazioni senza riferimento rimandano a questo documento.
(2) Cfr. Pontificio Consiglio Cor unum, Questione etiche relative ai malati gravi e ai morenti, del 27-6-1981.
(3) Cfr. Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia «Iura et bona», del 5-5-1980.
(4) Cfr., in particolare, Pio XII, Risposte a tre quesiti religiosi e morali concernenti l’analgesia, del 24-2-1957.
(5) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti a un corso internazionale di aggiornamento sulle preleucemie umane, del 15-11-1985, n. 5.
(6) Pontificio Consiglio per la Pastorale degli Operatori Sanitari, Carta degli operatori sanitari, 1995, n. 120.
(7) Giovanni Paolo II, Enciclica «Evangelium vitae» sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 25-3-1995, n. 65. La citazione interna è tratta dalla Dichiarazione sull’eutanasia «Iura et bona», cit., parte II.
(8) Ibid., n. 65.
(9) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposta a quesiti della Conferenza Episcopale Statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali, del 1°-8-2007.
(10) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al 110° Congresso nazionale della Società Italiana di Chirurgia, del 20-10-2008.
(11) Cfr. Alfredo Mantovano, Fine vita. Tutta la verità (e le bugie) su eutanasia e suicidio assistito, del 24-9-2019, nel sito web <https://www.centrostudilivatino.it/fine-vita-tutta-la-verita-e-le-bugie-su-eutanasia-e-suicidio-assistito> (gl’indirizzi Internet dell’intero articolo sono stati consultati il 4-11-2020).
(12) Cfr. la legge n. 38 del 2010, relativa alle disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, nel sito web <https://www.gazzettaufficiale.it/gunewsletter/dettaglio.jsp?service=1&datagu=2010-03-19&task=dettaglio&numgu=65&redaz=010G0056&tmstp=1269600292070>.