Di Giacomo Samek Lodovici da Famiglia Cristiana del 06/05/2021
Emanuele Samek Lodovici è stato un filosofo, morto precocemente a 38 anni, poco dopo aver vinto la cattedra in Filosofia morale, che ha coraggiosamente testimoniato la sua fede cattolica e di cui il 5 maggio 2021 ricorre il quarantesimo anniversario della morte.
È infatti morto il 5 maggio 1981 durante un intervento chirurgico, che era divenuto necessario per i postumi di un incidente stradale. Era nato il 28 dicembre 1942 a Messina, ma è poi vissuto sempre a Milano.
Pur essendo giovane, già da qualche anno si era guadagnato la stima di due tra i filosofi cattolici italiani più importanti del ‘900, Cornelio Fabro e Augusto Del Noce, il quale, in una lettera (clicca qui per leggerla), lo considerava la più acuta fra le giovani intelligenze della sua generazione, l’unica a cui prefigurava una statura di «maestro». Ma va ricordata ancora, perlomeno, anche la stima nei suoi confronti di due grandi come la storica Marta Sordi e il romanziere Eugenio Corti, di cui fu anche amico.
Durante il Sessantotto venne sprangato: quasi un onore per chi non si era mai arreso all’egemonia marxista e a certe derive del cattolicesimo italiano e, senza essere un nostalgico laudator temporis acti, promuoveva un ritorno alle radici profonde della tradizione occidentale.
Della sua complessa monografia su Agostino intitolata Dio e mondo si può solo accennare che in essa Samek affronta rigorosamente l’accusa mossa da Heidegger alla metafisica, l’accusa di non aver compreso che cos’è l’essere e di aver reificato Dio.
Quanto alla monografia Metamorfosi della gnosi, si tratta di una profonda e non di rado profetica fenomenologia della cultura contemporanea, interpretata in molte sue espressioni come rifrazione di una mentalità, spesso inconscia: quella della gnosi.
Per Samek la mentalità neo-gnostica moderna assume dallo gnosticismo antico alcune grandi tesi: il mondo e l’uomo sono negativi, la natura umana è errata e da ri-fare; lo gnostico, il rivoluzionario, è capace di produrre la redenzione e l’uomo nuovo (ambizione ben diversa dalla talora sacrosanta intenzione di produrre riforme e miglioramenti sociali), è capace da solo (senza bisogno di Dio) di raggiungere la salvezza dalla negatività e/o di raggiungere la perfezione, è in grado di instaurare il paradiso, o quasi, in terra (come si sono prefissi i totalitarismi, per fare solo un esempio). Apice di tutte queste tesi è il rifiuto gnostico e neognostico della finitezza umana.
Questa impostazione gnostica è irriducibilmente avversaria del cristianesimo, secondo cui il mondo ha un grande valore, perché Dio lo ha voluto e creato e perché in esso Dio stesso si è incarnato.
E la gnosi vuole cancellare o almeno riscrivere la storia e il passato, perché questi rammentano la serie dei già trascorsi fallimenti di costruzione dell’uomo nuovo.
Di conseguenza questa impostazione vuole anche attaccare la tradizione, specialmente cristiana, e tutti quei suoi supporti vitali che le consentono di essere trasmessa e recepita: il linguaggio con cui essa parla e con cui si diffonde, la famiglia dove si rinnova, la donna che cresce le nuove generazioni.
Samek ha analizzato le strategie della rivoluzione culturale neo-gnostica, che si esplica per esempio nelle seguenti forme da lui confutate: come riduzionismo antireligioso; come prometeismo marxista (che pretendeva gnosticamente di creare appunto l’uomo nuovo e la Gerusalemme mondana); come corruzione della memoria storica; come corruzione del linguaggio (che viene censurato da quello che oggi viene chiamato politically correct o adulterato escogitando delle manipolazioni linguistiche, cosicché Samek diceva che «chi non ha le parole non ha le cose»); come distruzione della famiglia tramite la rivoluzione sessuale e tramite alcune forme di femminismo (che oggigiorno presenta espressioni variegate, in sintonia con le riflessioni di Samek sulla specificità femminile).
E Samek con intuito profetico ha colto alla radice di certe versioni del femminismo libertario quello che è il nucleo dell’odierna teoria gender (nella versione più diffusa): il rifiuto della distinzione maschio/femmina e l’ambizione a costruire totalmente se stessi.
Dal punto di vista costruttivo, negli scritti di Samek si esprime un pensiero forte, nutrito dai classici (in particolare Platone, Plotino e, specialmente, Agostino), irrobustito nel confronto con i moderni (specialmente Leibniz, il marxismo e il neomarxismo, ma anche la teologia modernista), che rinnova e attesta l’attualità e la fecondità della tradizione filosofica metafisica nella sua benefica relazione con il cristianesimo.
In opposizione al pensiero ideologico e al riduzionismo del materialismo e dello scientismo, Samek ha insistito sull’esistenza della dimensione spirituale della realtà e ha spronato ad ammirare non utilitaristicamente il mondo, da concepire con gratitudine come dono divino e non (alla maniera gnostica) come errore oscuro.
Samek ha espresso la consapevolezza sia delle grandi possibilità della ragione, sia dei suoi limiti e della vacuità dei suoi risultati quando essa si auto-idolatra alla maniera illuminista producendo, per es., la moderna vita di massa, la quale «ha affermato la libertà politica da ogni autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; […] ha affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel [solo] sesso; ha affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, per prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo» (Metamorfosi della gnosi, p. 179).
Piuttosto, per Samek una ragione non presuntuosa deve essere sinergica con la religione per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le risposte ultime.
Egli ha proposto una «cultura del ricordo» (per es., ibi, pp. 235-252) perché, sulla scorta di T.S. Eliot, riteneva che la memoria ci giovi per liberarci dall’ineluttabilità del presente (chi non conosce il passato può pensare che il presente socio-politico sia l’unico possibile), dalle menzogne delle ideologie, dall’oppressione dei progetti totalitari e utopici.
Ma questa valorizzazione della memoria storica per lui doveva assolutamente evitare di cadere nella mera erudizione e piuttosto mirare al bene dell’uomo e alla sua paideia come criterio di selezione e unificazione del sapere, che è autentico solo se «mi rende migliore di quello che sono» (Il gusto del sapere).
Insomma, nel pensiero di Samek si esprime un afflato etico-sapienziale, ed egli è ben consapevole, con l’amato Agostino, che alla radice dell’agire umano è sottesa la ricerca della felicità.
Il sapere, così, deve irrorare una vita fatta fiorire dalle virtù, poiché per Samek l’esperienza testimonia la tesi di Aristotele: «nessuna felicità senza virtù, nessuna felicità senza quell’unica attività che è in grado di rendere l’uomo pienamente umano» (La felicità e la crisi della cultura radical-illuministica).
In tal modo è anche possibile dare un senso al limite e alla sofferenza: «se la felicità è intrinsecamente legata all’esercizio della virtù, allora non si può pretendere che l’acquisto della felicità non passi [non di rado] attraverso lo sforzo, la lotta, e in ultima analisi [anche] la sofferenza» (ibid.). In generale criticava la tendenza a rimuovere dalla propria vita qualsiasi sforzo e fatica, diventando consumatori di anestesie, senza mai imparare a esercitare la fortezza (nel contempo ovviamente apprezzava la possibilità di usare antidolorifici e di intervenire chirurgicamente senza provocare dolore).
A tale senso della sofferenza e del limite per lui si aggiungeva – decisivamente – anche quello soprannaturale, in vista della vita eterna.
A Samek, però, non sfuggiva affatto la consapevolezza che la felicità che gli esseri umani raggiungono fiorendo con le virtù, pur essendo la maggiore accessibile all’uomo, nondimeno non è totale. Ma questa consapevolezza, scriveva, «ben lungi dallo spingerci alla tristezza per l’insaziabilità dell’uomo, va tuttavia vista […] ottimisticamente, come l’indizio che è un’altra la felicità conforme al livello spirituale degli esseri umani», perché, tommasianamente, anche per lui, «ultima hominis felicitas non est in hac vita» (ibi).
Dalla sua breve e intensa vita emergono la passione e il servizio alla Verità (diceva di essere «un servo della verità») ricercata con rigore intellettuale e testimoniata con coraggio, la fede cattolica molto profonda, la disponibilità all’ascolto e la generosità. Lo attestano molte persone, che, ancora oggi, lo ricordano con commozione e che in lui trovavano un maestro intellettuale, morale e di umanità.
A loro ha insegnato a tendere ardentemente alla vita eterna e insieme a vivere nel bene e con intensità la vita presente, incentrando la propria attenzione sul come si agisce (cioè se si agisce con dedizione, con amore, oppure no), più che sul cosa (il ruolo sociale, i successi effettivamente conseguiti, ecc.). Per chi viva in questo modo, erano per lui calzanti dei versi di Kipling che gli piacevano: «allora i potenti, gli dei, la fortuna e la vittoria saranno per sempre tuoi schiavi sottomessi. Tua sarà la terra e tutto ciò che è in essa. E quel che più conta, tu sarai un uomo figlio mio».
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