Di Daniele Onori da Centro Studi Livatino del 29/05/2021
1. Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 – 23 gennaio 1744) è stato un filosofo, storico e giurista. Molte delle notizie riguardanti la sua vita sono tratte dall’Autobiografia (1725-28), scritta sul modello letterario delle Confessioni di sant’Agostino.
Nato da una famiglia di modesta estrazione sociale – il padre, Antonio Vico, era un povero libraio, mentre la madre, Candida Masulla, era figlia di un lavorante di carrozze – non seguì un corso di studi regolari. Frequentò l’istituto gesuitico del Gesù Vecchio, ma dopo alcuni mesi, non entusiasmato dagli insegnamenti di padre Giuseppe Ricci, preferì proseguire i suoi studi umanistici e filosofici da autodidatta, nella bottega paterna, seguendo esclusivamente l’infallibile istinto del sapere.
Le sue infelici condizioni economiche lo obbligarono a trovarsi un impiego: fu il vescovo d’Ischia, monsignor Geronimo Rocca a offrirgli l’occasione giusta. Dal 1689 al 1695 è impegnato a Vatolla nel Cilento, dove fa da precettore ai figli di Domenico, marchese di Rocca e fratello del Vescovo: per lui sono anni davvero importanti, poiché nella biblioteca del castello locale ‘incontra’ Platone e Tacito, Valla e Ficino, Botero e Bodin.
L’aria buona del ridente paesino cilentano giovò senz’altro alla sua salute piuttosto precaria:latubercolosi che lo affliggeva da tempo, pareva sopita ed ebbe la possibilità, nel tempo libero, di approfondire gli studi di filosofia. Al termine della sua missione educativa, rientrò a Napoli, dove ventisettenne divideva le sue giornate tra lo studio e l’insegnamento.
Il 1699 fu un anno cruciale per la sua storia. Sposò l’analfabeta Caterina Destito, che diede alla luce cinque figli, Luisa, Ignazio, Angela Teresa, Gennaro e Filippo. Nello stesso anno ottenne un incarico all’Università di Napoli, dove gli fu conferita la cattedra di retorica, retribuita con uno stipendio annuo di soli cento ducati. Frutto di questo periodo e dei suoi magisteri universitari furono le Orazioni Inaugurali, la cui più nota De nostri temporis studio rum ratione, venne poi pubblicata nel 1709.
2. Non riuscì ad imporsi, le sue teorie non vennero considerate dai filosofi a lui coevi: si era ancora troppo legati all’intellettualismo cartesiano, da lui ampiamente criticato. Il suo nuovo metodo di ricerca della verità, verum et factum convertuntur, sarà compreso solo più tardi; in più la sua malferma salute e le perenni ristrettezze economiche, aumentavano tormenti e sofferenze. Nel 1710 riuscì a pubblicare il De antiquissima italo rum sapientia.
Nel 1723 fu bandito un concorso per una cattedra di diritto romano nel suo Ateneo: se lo avesse vinto lo stipendio sarebbe stato sei volte maggiore del precedente. L’ormai certo posto da ordinario gli fu soffiato da Domenico Gentile, e ciò costituiti un ulteriore enorme dispiacere. Divenuto storiografo regio nel 1722, fu colpito dalla prematura morte del figlio Ignazio nel 1736, all’età di trent’anni. Ignazio, la pecora nera della famiglia, aveva contribuito con svariati dispiaceri ai malesseri del padre. Aveva sposato, in assenza dei genitori, Caterina Tomaselli, una donna dai facili costumi.
Giambattista Vico, debilitato dalla sofferenza, dai malessere e dall’età, lasciò la cattedra e si chiuse in sé stesso e nella sua ipocondria. Si spense all’età di 75 anni, era il 23 gennaio 1744. Le sue spoglie riposano nella chiesa dei Girolamini. Una tardiva lapide indica che in quella chiesa furono deposti i suoi resti mortali, mentre il suo corpo si trova nella fossa comune nei sotterranei del tempio.
3. Il rapporto fra il pensiero giuridico di Vico e gli approdi del giusnaturalismo europeo nei primi decenni del Settecento è segnato da contrasto: alla fine della prima parte – cioè al termine della prima redazione veneziana – della Vita scritta da sé medesimo, allorché fornisce le ragioni più profonde per chiarire la genesi della prima Scienza nuova (1725), Vico poneva la propria opera in diretta opposizione alle tesi sul diritto naturale di Grozio, Selden e Pufendorf. Nell’ultima pagina dell’autobiografia a lui chiesta, tra il 1725 e il 1728, da un cenacolo di filosofi veneziani (Giovan Artico Porcia, Carlo Lodoli, Angelo Calogerà e, il più noto fra loro, Antonio Conti), si legge: “Con queste ed altre discoverte minori, fatte in gran numero, egli raggiona del diritto naturale delle genti, dimostrando a quali certi tempi e con quali determinate guise nacquero la prima volta i costumi che forniscono tutta l’iconomia di cotal diritto, che sono le religioni, lingue, dominî, commerzi, ordini, imperi, leggi, armi, giudizi,pene, guerre, paci, alleanze, e da tali tempi e guise ne spiega l’eterne propietà che appruovano tale e non altra essere la loro natura o sia guisa e tempo di nascere […]”.[1]
Da un lato Vico rinuncia al sostegno offerto dalle tesi di Grozio e Pufendorf, che gli avrebbero permesso di fondare lo sviluppo storico dei costumi (giuridici) su un’idea di aequitas naturalis (un concetto noto alla giurisprudenza romana), dall’altro egli si vale del lessico, dei concetti e perfino del metodo argomentativo dei teorici del diritto naturale suoi contemporanei.
4. Se lo studio delle teorie giusnaturalistiche fu così rilevante nella vita intellettuale di Vico, se il primo incontro con le opere di Grozio fu un motore della sua riflessione filosofica e storiografica, le ragioni del suo dissidio da Grozio e Pufendorf, la capacità di mutuare il loro lessico rifiutando però le conseguenze delle loro tesi, vanno cercate nello sviluppo stesso del pensiero giuridico vichiano tra l’orazione inaugurale De nostri temporis studiorum ratione (1708-09) e il primo tentativo di offrire un ordine sistematico a quelle posizioni nel De universi iuris uno principio et fine uno (1720).
La Vita scritta da sé medesimo elenca i titoli e il contenuto delle orazioni inaugurali proposte da Vico a partire dal 1699, ma fu solo dopo il discorso dell’ottobre 1708, dedicato al metodo degli studi antichi e moderni, che l’autore si propose di pubblicare la dissertazione De nostri temporis studiorumratione. Il libro fu stampato nel febbraio 1709 con numerose integrazioni, e degno di nota è in particolare il capitolo XI de jurisprudentia. Fin dall’inizio di esso la definizione di ‘sapienza’, identificabile con la giurisprudenza, è presentata, attraverso i versi dell’Ars poëtica di Orazio, in modo da salvaguardare il nesso tra l’ordo naturalis e l’origine delle istituzioni umane e delle prime forme di civiltà[2].
5. Vico ripercorre in modo personale la teoria della naturale socievolezza tra gli uomini, cioè l’idea aristotelica secondo cui l’uomo è per natura un animale politico. Vico sembra a suo modo ancorare nella natura umana la tendenza a vivere in comunità come pure l’impulso alla socializzazione. L’umanità si contraddistingue in ragione dell’uscita dalla solitudine bestiale e della costituzione delle prime città. Nel riprendere le note tesi aristoteliche, Vico conferisce a quelle posizioni un nuovo valore operativo.
L’evoluzione umana deve seguire le regole fissate dalla natura, il diritto umano può mitigare ma non stravolgere l’ordine naturale: la storia dell’evoluzione giuridica romana prospettata da Vico suggerisce di prendere in considerazione la giurisprudenza come tecnica (un’ars) che permetta di conservare l’integrità e la rigidità dell’ordine secondo il corso immutabile della natura, e a un tempo di regolare la molteplicità delle vicende e situazioni umane.
Al di sopra di quest’arte permane il diritto naturale, un ordo rerum che deve essere riconosciuto e rispettato: dovere del giurista è salvaguardare tale ordine, publicae utilitati consuleretur. La ratio status, la tecnica che permette di ben governare la città, è l’arte di mantenere la stabilità dell’ordinamento nel rispetto di un ordine di rango superiore, l’ordine della vita naturale. L’originalità e la forza dell’argomentazione proposta da Vico si manifestano da un punto di vista epistemologico: il filosofo napoletano considera il dualismo tra la costruzione di un sistema (normativo) e la molteplicità delle esperienze umane sotto il profilo del problema della conoscenza e dell’interpretazione.
6. Il frequente richiamo di Vico al sistema giuridico romano e la sua nuova interpretazione del diritto naturale rispondono all’esigenza di trovare una soluzione pratica al disordine giuridico del suo tempo. L’esperienza del passato doveva divenire la bussola necessaria a orientare il cambiamento e l’innovazione, la terapia per riassorbire nell’alveo dell’ordinamento il ius controversum (o gli hard cases per usare il celebre titolo di Ronald Dworkin).
All’inizio della Scienza nuova, emergendo dalla “densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità”, Vico potrà affermare che “questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principî dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana” [3].
[1] G. VICO, Vita scritta da sé medesimo, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori-Meridiani, 1990, I, pp.58-59.
[2] G. CARILLO, Vico: origine e genealogia dell’ordine, Naples, ESI, 2000, pp. 57-75 e passim; e D. LUGLIO, La sciencenouvelle ou l’extase de l’ordre. Connaissance, rhétorique et science dans l’oeuvre de G.B. Vico, Paris, PUF, 2003, pp.116-17: «À partir de la Science nouvelle, Vico entende chercher la preuve de cette cohérence dans lareprésentation même de l’identité entre ordre éternel et ordre civil. Il s’agit, en d’autres termes, de passer […] àla représentation […] de l’ordre tout au long de son déploiement dans l’histoire».
[3] G. VICO, Scienza nuova (1744), in Opere giuridiche, a cura di P. Cristofolini, introduzione di N. Badaloni, Firenze, Sansoni, 1974,, ed. cit., pp. 541-542
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